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[ conversazioni ]
 Robert Wilson, 
uno sguardo oltre il possibile delle cose
Gertrude Stein (da cui ha realizzato nel 1998 la sconvolgente “opera aperta” Saints and Singing del 1922) partendo dall’analisi delle opere di Cézanne e Flaubert, ma anche quelle di Pound, ha più volte indicato la necessità di unire le differenze in un unico flusso. Quanto le appartiene questa possibilità espressiva di racchiudere le differenze in un’unica quadratura?
Credo che André Malraux avesse ragione quando diceva che il teatro Occidentale era stato “vincolato dalla letteratura”. E credo che ciò che lui intendeva dire è che molte delle regie che vediamo sono semplicemente testuali, legata alla parola scritta. E ciò che ho provato a fare nel mio teatro è dimostrare che ciò che vediamo è esattamente quello che vediamo, e ciò che ascoltiamo è esattamente quello che ascoltiamo. E ciò che vediamo può essere importante tanto quanto ciò che ascoltiamo. Così come nella vita. E che c’è un linguaggio teatrale per ciò che vediamo. Qualcosa che non sia un gesticolare, o una scenografia o altro, e molto più in linea con il teatro del mondo. Se diamo uno sguardo al teatro dell’Africa, se guardiamo al teatro classico cinese, al teatro del Giappone, dell’Indonesia, dell’India . . .  una gran parte del pianeta ha un teatro formale dove la tradizione è un linguaggio teatrale in termini di ciò che vediamo.

Spesso i suoi spettacoli sembrano creare varchi, aperture, linee di fuga che una volta inserite sulla scena volutamente vengono lasciate dischiuse e lasciate a “disposizione” dell’interpretazione o della visionarietà del pubblico. Condivide questa lettura?
Come ho già detto precedentemente, il mio lavoro, nella maggior parte dei casi, è formale. Non interpretativo. Per me l’interpretazione non spetta al regista, l’autore o l’artista: l’interpretazione è del pubblico.
In teatro non esiste separazione tra le forme d’arte. Tutto è una parte dell’insieme. L’uso che faccio della luce, il mio lavoro con gli attori, la scenografia, i costumi, tutti gli elementi sono parte dell’arte visiva. Allo stesso modo, la musica fa parte del tutto. Secondo me il teatro è un qualcosa di visivo, uditivo, inseparabile. Con la combinazione fra gli uni e gli altri, gli elementi visivi e uditivi si rinforzano a vicenda, si rendono più forti.  L’insieme è molto più che la semplice somma delle sue parti.

Qual è il suo giudizio verso il pubblico? È cambiato nel tempo?
Non saprei dirlo.

Il suo è un teatro che ha sempre una tensione memoriale, una pienezza dal rigore archivistico, una sorta di memoria “archeologico-monumentale” (per dirla con le parole di Nietzsche) ci vuol sintetizzare qual è il suo metodo di lavoro (denso di combinazioni, attraversamenti, sfondamenti, citazioni, raffreddameni, sospensioni, ripetizioni, costruzioni e decostruzioni. Insomma una scena che riesce ad essere trasformazione del mondo come “luogo magico” come direbbe il suo amato poeta sufi Rumi).
Credo che ciò che l’individuo vede quando l’occhio è chiuso, è un qualcosa che ha a che fare con la luce ed il colore, qualcosa che ha a che fare con la frammentazione delle emozioni umane.
Negli studi da lui condotti Daniel Stern si è procurato dei filmati in cui alcune madri reagivano al pianto dei loro bambini, e li ha osservati fotogramma per fotogramma, dove in ogni secondo ci sono 32 fotogrammi. E ha osservato che in un fotogramma la madre sembrava lanciarsi verso il bambino, che la guardava terrorizzato. Nel fotogramma successivo la madre mostrava un’altra emozione, ed il bambino ancora un’altra. Nel fotogramma seguente, un’altra ancora. Una moltitudine di cambiamenti emotivi in un solo secondo. Per me, questa è la stessa sensazione di un battito di ciglia. Probabilmente il corpo e le emozioni lavorano così velocemente che la mente non riesce a tenerne il passo.

Lei dedica gran parte del suo impegno professionale nell’attività del Watermill Center, un laboratorio per le arti e le scienze umane, situato nella parte orientale della Long Island. Ci spiega in cosa consiste l’attività di ricerca e produzione di questo centro.
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La tentazione di Sant’Antonio, foto di Stephanie Berger

Adesso il Centro funziona tutto l’anno (fino al 2005 solo corsi estivi,
ndr). Non mi interessa creare una scuola. Non insegno un metodo al Watermill Center. Mi piace considerarlo come un laboratorio internazionale per collaborazioni interdisciplinari, dove l’arte, la tecnologia, il business e scienze umanistiche possano interagire in uno spirito d’innovazione. Il Centro è nato per creare opportunità uniche per i giovani di formarsi come artisti, di vivere e lavorare assieme formando una comunità peculiare, per definire ed esplorare i propri interessi personali osservando e lavorando al fianco di professionisti.

Mi permette una domanda un po’ scontata e campanilistica. Lei in Italia è adorato! E proprio in Italia, in diversi tempi, ha realizzato una serie di collaborazioni. E allora cosa ne pensa dell’Italia?
Non ho passato abbastanza tempo in Italia tanto da conoscere il lavoro di giovani registi. Mi piacerebbe molto farlo dal momento che sono molto legato al senso per l’arte che hanno gli Italiani.

Ogni volta che si parla di teatro d’avanguardia o classico il suo nome compare. Quando si parla d’invenzioni sceno-tecniche c’è lei. Non ci sono gallerie o musei d’arte contemporanea dove non sono presenti suoi lavori (soprattutto in video). Senza parlare di architettura e design . Nella totalità del suo lavoro, ora, verso quale “oltre” si sta spingendo? Verso quale ulteriore contaminazione sta lavorando? In pratica, verso quali nuove “tentazioni” sta puntando? In che modalità sta amplificando la sua “opera totale”? Quali orizzonti i suoi occhi da visionario stanno scrutando...
La gente mi chiede spesso quale tra i miei lavori io ritengo sia stato il più importante, non soltanto per me ma anche per la storia dell’arte. La mia risposta è sempre la stessa: il prossimo.
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La tentazione di Sant’Antonio, foto di Stephanie Berger
Traduzione dall’inglese di Antonella Capasso. Ringraziamo Elisabetta
Di Mambro per aver reso possibile la realizzazione di questa intervista.
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