L’insostenibile trasparenza dell’anima di Adolfo Fattori



Perché la televisione sposta l’esposizione e la partecipazione all’immaginario, la fruizione dell’intrattenimento e dell’informazione dall’esterno – dal luogo pubblico, attorno al quale si era costituita la società di massa (Habermas, 1971, Abruzzese, 1973) – all’interno delle case, facendo il primo passo verso lo sviluppo, la distribuzione e il consumo di tutte le tecnologie home successive (Abruzzese, 1995, pag. 42).

Da questo punto di vista, la storia della televisione italiana è esemplare, per essere stata, almeno a partire dagli ultimi anni Settanta del Novecento un vero e proprio laboratorio a livello planetario.

Perché, fino a quegli anni, la TV italiana era stata una potentissima macchina per produrre sì il consenso, ma anche per assicurare l’assimilazione e l’adeguamento degli italiani a un immaginario condivisibile, la loro alfabetizzazione, in senso stretto, ma anche in senso più generale. Insomma, un poderoso strumento di costruzione socialmente condivisa della realtà.

Poi, a partire dalla fine del monopolio e dell’esplosione delle emittenti commerciali, un punto di svolta verso un’ulteriore modernizzazione, o meglio, avvicinamento alla dimensione ormai già planetaria del consumo di merci hard e di cultura.
Sono anche gli anni della prima diffusione di massa dei computer, e quindi dell’avvio del transito verso il dispiegamento della dimensione della virtualità da una parte, della possibilità di un controllo su cose e persone sempre più radicale.

Tanto da far scrivere a Fausto Colombo della prospettiva di “… una società perfettamente omologata, in cui il primato dell’occhio tecnologico è sancito dal suo essere ovunque, e la garanzia ecologica è costituita dalla possibilità per il mondo di essere immediatamente trascritto in informazione e trasmesso in ogni luogo.” (1987).
Ma, contemporaneamente, a Carlo Formenti di affermare “L’ambiente artificiale tardo-moderno, prodotto di sofisticati livelli di dominio tecnologico, mostra inopinatamente lo stesso volto orchesco di una natura arcaica e selvaggia.” (1986, pag. 15)

Le due affermazioni sono solo apparentemente in contraddizione. Potremmo integrarle così: la garanzia di sopravvivenza (ecologica) di questo mondo (basato sul controllo: registrazione e diffusione dell’informazione) è costituita dalla copertura assicurata dall’occhio elettronico (delle videocamere di sorveglianza?) e dalla sua onnipresenza. Tanto da far percepire all’individuo una realtà postmetropolitana che da consueta e rassicurante torna ad essere sconosciuta e spaventosa.

La “casa di vetro” di Wiener? Forse sì, ma nel senso che a essere sempre in vista non sono tanto i poteri, come auspicava lo studioso americano, quanto gli individui, i singoli componenti della “massa” di una volta. O forse, più spaventosamente, il 1984 che temeva George Orwell (1984).
Forse, per spiegare meglio questa evoluzione e i riflessi prodottisi nella vita quotidiana, nei comportamenti, nel sentire dell’individuo tardo moderno, si può far riferimento all’evoluzione del formato della fiction televisiva, confrontandola in parallelo con l’evolversi e il mutare dei consumi, dei modelli, dei valori (qualsiasi cosa questo ultimo termine voglia dire).
Scrive Sergio Brancato a questo proposito (2007)[1] come, dalle sue prime pionieristiche evenienze, non solo sia stata puntuale oggetto di conversazioni e discussioni, ma abbia influenzato il costume degli italiani.

Intanto, oggi usiamo questo termine per indicare qualcosa di meno esteso di quello che significa originariamente (narrazione, racconto), ma, contemporaneamente, lo attribuiamo a più oggetti di quelli a cui si riferisce nel nuovo, ristretto, senso (soap opera o telenovela).

Scrive Brancato di come, dagli ultimi anni Settanta del secolo scorso in poi, la televisione italiana, nel passaggio dal regime di monopolio alla liberalizzazione totale, si sia dovuta confrontare con le arretratezze strutturali dei suoi apparati e abbia dovuto fra l’altro attingere all’immenso oceano delle produzioni straniere – cercando peraltro di adeguarsi a quei formati anche con produzioni proprie.

Finita l’epoca del teleromanzo, vero oggetto originale della produzione italiana, si affermano le fiction di lungo periodo, come Un posto al sole, e tutta la produzione straniera, specie americana.
L’attenzione degli importatori – e  degli sceneggiatori nostrani – si concentra sempre di più su storie che si rivolgono all’interiorità dei personaggi. È l’intimità che si afferma come oggetto di attenzione – e di consumo – ed esplode attraverso lo schermo del televisore. Come in quella sequenza di Videodrome[2] in cui si vede una mano col dito puntato uscire da uno schermo televisivo. O come nel classico racconto di Richard Matheson Su dai canali.

Perché, se il teleromanzo permetteva certo discussioni e identificazioni, lo faceva su un piano più “classico”, cinematografico, essendo spesso ambientato nel passato storico del nostro o di altri paesi, legato com’era in gran parte all’immaginario narrativo della letteratura “alta” o anche cult (da I promessi sposi a La cittadella).

Ma la nuova fiction ci immerge in una quotidianità che è la nostra, fino ad accompagnarne il tempo reale, e facilitando la mescolanza e lo scambio fra “realtà” e immaginario.
 


[1] Cfr. la recensione del volume su questo stesso numero di Quaderni d’Altri Tempi.

[2] D. Cronenberg, Videodrome, USA, 1983.
 

     [1] (2) [3] [4]