L’insostenibile trasparenza dell’anima

 

di Adolfo Fattori


C’è una propensione egemonica, oggi, e parossistica, verso una trasparenza totale delle cose: dall’affettività, alla politica, al sesso, al sociale, al naturale, al collettivo, all’individuale – qualsiasi cosa vogliano dire.

È come se si fosse realizzata, ma al ribasso, la profezia di Norbert Wiener, il fondatore della cibernetica, a proposito della “casa di vetro” in cui si sarebbe trasformato il mondo grazie allo sviluppo delle comunicazioni: tutto è scannerizzato, monitorato, esplorato, zoomato, penetrato – per poi essere codificato, catalogato, equalizzato – per realizzare una completa mappatura del reale.

In questo movimento è coinvolto tutto: i comportamenti, gli atteggiamenti, i punti di vista, i valori – le merci, naturalmente.

E questo avviene attraverso la concessione, il dono, si potrebbe dire, all’entità che ha sostituito quella che una volta chiamavamo massa, della stessa pretesa di controllo e conoscenza.
Come se, interiorizzando questa propensione, la massa (il pubblico, i consumatori, gli utenti, o che dir si voglia) finisse per accettarla come unica forma possibile di azione sociale, di esistenza, di presenza, di rapporto col mondo – basta che non si tocchi il potere…

Come? Attraverso la condivisione, la distribuzione delle informazioni e della comunicazione, della loro ri-producibilità diffusa. Grazie alla disponibilità per chiunque degli strumenti minimi della registrazione e del broadcasting: una videocamera – o un videofonino, una webcam – il web, canali come YouTube.
Un attributo fondativo del mercantilismo e della modernità: il controllo – sulla natura, quindi sulla produzione, sulle merci, sui prezzi, sugli uomini; che nella tarda modernità cambia veste e si adegua alle nuove necessità di cooptazione e condivisione. 

O almeno, questa è l’impressione. E poi, quale reale? Perché, a pensarci bene, forse quello che vediamo, che percepiamo, che conosciamo, che riteniamo di sapere, è solo una simulazione. È il risultato del “delitto perfetto” che secondo Jean Baudrillard la televisione ha compiuto ai danni della realtà (Baudrillard, 1996).

E di cui fatichiamo ad accorgerci perché, abbagliati da media che riteniamo più “nuovi”, più “attuali” – internet, il tele(video)fonino – dimentichiamo la TV, e la funzione fondamentale che ha svolto nella costruzione collettiva di questa realtà.
Intanto, adattandoci ad una “comunicazione per flusso” che ha reso indifferenziati tutti i messaggi, i discorsi, i linguaggi.
Poi, annullando la “distanza critica” che rende possibile la riflessione del soggetto sull’oggetto (Jameson, 2007, pag. 85).
Abituandoci quindi all’immersione totale nella comunicazione mediale – di cui noi stessi diventiamo parte. Mentre, in contemporanea, avanza la copertura totale – globale – degli strumenti di registrazione e riproduzione.

E, a monte di questa, l’utopia del Panoptikon di Jeremy Bentham, e quindi del controllo totale – alla fin fine – delle anime.
Da allora
la ricerca del controllo, della pianificazione, della programmazione ha elaborato e sperimentato tecnologie sempre più raffinate, efficienti, efficaci.

Quelle sul controllo della natura, certo, ma anche degli uomini. Quindi, lo sviluppo di tecnologie per creare da una parte, un “mondo a misura d’uomo” (Hughes, 2006); dall’altra, un uomo a misura di mercato.

Quindi, per questa seconda opzione, tecnologie dedicate alla comunicazione e all’informazione, alla socializzazione, insomma.
E lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione risulta perfetto, per questo scopo.
Chiariamo subito: i media sono una tecnologia, e per questo neutra, di per sé. Sono lo strumento più potente di creazione e diffusione dell’immaginario e dell’informazione – e sono, oggi, il canale di socializzazione, quindi di controllo, più poderoso che c’è.
Se guardiamo alla storia dei media, possiamo individuare tre, forse quattro passaggi fondamentali: la nascita del cinema, quella della tv di stato, quella delle tv commerciali, quella dell’informatica di largo consumo e di internet – e quindi della post televisione.
Tralasciando il cinema, che rappresenta sì lo strumento primario e necessario di costituzione dell’immaginario collettivo – la base mitopoietica e produttiva su cui tutti i media successivi si innesteranno: la vera teoria della modernità, per dirla con Sergio Brancato (2003) – il medium di riferimento per procedere in quest’analisi è la televisione.

 

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