La morte. Quattro variazioni sul tema
di Antonio Cavicchia Scalamonti
Ipermedium libri, Napoli 2007
Pagine: 208

Prezzo: € 15,00

 

 

 

 





 

 

 

La morte. Quattro variazioni sul tema di Antonio Cavicchia Scalamonti

 

 

Ogni studioso che si rispetti si trova a dover affrontare, lungo tutto il corso della propria esistenza, le sue più o meno ricorrenti ossessioni. Una di quelle con cui Antonio Cavicchia Scalamonti ha dovuto più spesso fare i conti è stata certamente la lugubre ossessione della morte. Già dalla fine degli anni Settanta, sulla scia dei più significativi lavori sull’argomento dei quali si cominciava proprio in quel periodo a discutere negli Stati Uniti e nei principali paesi europei, lo studioso napoletano, nei suoi primi saggi, aveva con molta acutezza individuato nella morte uno degli indicatori privilegiati per lo studio della società occidentale moderna. A distanza di circa trent’anni, a seguito di continui e sempre più raffinati approfondimenti, che lo attestano oggi come uno dei più autorevoli referenti italiani su questo tema, Cavicchia Scalamonti ha dato alle stampe un volume che pone ancora una volta la morte come nucleo intorno al quale far ruotare una serie di originali analisi sociologiche sulla nostra cultura.

Essendo oramai considerata una delle variabili fondamentali per lo studio del comportamento collettivo, la sociologia della morte è divenuta un settore molto esteso delle scienze sociali, all’interno del quale è possibile ritrovare studi che spaziano dall’analisi storico-sociologica sull’evoluzione della visione della morte nelle diverse società, a quelle di orientamento più marcatamente socio-antropologico, maggiormente interessate ai vari modi di vedere la morte nell’ambito di collettività diverse per cultura, tradizione, epoca storica, collocazione geografica.

E ancora, possono ricadere sotto l’ombrello di quest’ambito disciplinare tutte quelle ricerche che tendono ad assumere come oggetto di studio le modalità collettive elaborate per “affrontare” i morti e i morenti, i morti e i loro congiunti, i morti e i loro corpi, le loro tracce, la loro memoria. I temi che Antonio Cavicchia affronta uno per uno nel suo libro.

Ma esiste anche un altro filone di studi da far rientrare nell’alveo di una sociologia della morte o, forse meglio, di una sociologia della cultura della morte, e che non si riferisce tanto a quegli aspetti della mentalità umana e a quelle pratiche collettive che apertamente ed esplicitamente si richiamano ai fatti e alle concezioni della morte e della mortalità, quanto soprattutto a quei lavori che cercano di sottoporre ad indagine la presenza della morte (vale a dire la conoscenza consapevole o rimossa della mortalità) nelle istituzioni, nei rituali e nelle credenze umane che, a giudicare dalle apparenze, svolgono esplicitamente e consapevolmente funzioni totalmente diverse, prive di relazioni con le preoccupazioni normalmente indagate negli studi dedicati alla sociologia e alla storia della morte e del morire. Ed è nell’ambito di questa tipologia di studi che si inserisce quest’ultimo lavoro.

Come molti tanatologi anche Cavicchia Scalamonti sembra concordare sul seguente aspetto: la modernità occidentale si contraddistingue, tra le altre cose, per un suo evidente rifiuto nei confronti della morte. Detto in altri termini, la forma mentis o l’Universo Simbolico peculiare di questo tipo di società non riesce in alcun modo ad inserire il concetto di morte all’interno delle proprie coordinate interpretative della realtà. Certo, la si studia di più, il che costituisce un importante indicatore, seppur alquanto ambiguo. Da una parte – egli ha scritto – può significare una maggior presa di coscienza, dall’altra un ennesimo modo di esorcizzare – oggettivandola e neutralizzandola nello studio – la morte stessa.

È comunque un dato di fatto indiscutibile che se la morte venisse inserita negli ambiti “normali” della vita di tutti i giorni, se venisse cioè lasciata penetrare senza quei filtri che contribuiscono a tenerla “ai margini” dei discorsi e delle pratiche quotidiane, la nostra visione del mondo muterebbe profondamente.

Per poter mantenere la morte ai suoi confini, la nostra società ha adottato, evidentemente, una serie di strategie più o meno istituzionalizzate messe in atto dagli attori sociali al fine di creare quegli schermi protettivi necessari ad attutire lo sconvolgente impatto potenziale della morte.

Come dei fedeli tifosi della nostra squadra di calcio del cuore, noi tutti, più o meno convinti, abbiamo imparato ad affidarci all’allenatore che, di volta in volta, si assume le responsabilità di gestire la tattica più opportuna per affrontare l’avversario. Beninteso, in genere è una partita – quella con la morte – che si cerca di evitare o di rimandare finché si può. Ma se proprio bisogna affrontarla, allora le strategie adottate possono essere – proprio come nel calcio (o nello sport in genere) di difesa o di attacco. Nel primo caso, si prova a collocare il nostro avversario ai margini della società, alla periferia della nostra coscienza collettiva.

Queste strategie di difesa sono di nasconderla, di evitare di parlarne, rinviando e posticipando quanto più è possibile ogni riferimento al tema e a colui o coloro che potrebbero suggerirne una qualsivoglia rievocazione. Quando proprio non se ne può fare a meno, allora si comincia a prenderla in considerazione, a parlarne seriamente, assumendone la reale esistenza per paragonarla ad un avversario razionalmente forte, fortissimo, praticamente invincibile. D’altro canto, però, si indebolisce la sua potenza (e prepotenza) neutralizzandolo affettivamente.

Secondo  Cavicchia Scalamonti la più efficace delle strategie che l’uomo occidentale ha elaborato a partire dalla modernità per tenere ai margini la morte, è consistita fondamentalmente nell’accettare – o meglio – nell’arrendersi alla tranquillizzante ricchezza del quotidiano. In particolare, tale strategia è strettamente connessa all’abbondante ricchezza materiale prodotta dal prorompente e pervasivo modello consumistico intorno al quale si è venuta strutturando la realtà da cui egli è attualmente circondato. È la routine, è l’immergersi in questo dilagante insieme di oggetti materiali e immateriali ciò che in gran parte ci tranquillizza.

È però anche vero che, purtroppo – e spesso in modo imprevedibile – ogni tanto questi margini, queste dighe, questi “filtri” si frantumano e cominciano a venir fuori delle crepe. Basta poco, basta lo sguardo preoccupato di un medico, basta una diagnosi infausta, a volte anche un piccolo dolore che non ci si riesce a spiegare razionalmente. Oppure, peggio, basta una morte improvvisa, inattesa, di un altro, soprattutto di un altro significativo, allora la nostra visione della vita (e della morte!) viene profondamente sconvolta, talvolta in maniera anche radicale.

È a questo punto che si rendono allora necessarie delle strategie di attacco dell’avversario. Il modo storicamente più elaborato e fecondo di attuare tali strategie è stato quello di cercare di negare l’evidenza dei “fatti”, proponendo una qualche mitologia dell’immortalità, un mito della “vita dopo la morte”, empiricamente testimoniato dalla diffusione di una serie praticamente indefinita di “culti dei defunti”, a loro volta derivanti dall’uso tradizionalmente trasmesso di seppellire i morti e di affiancarvi segni e simbologie di un mondo trascendente.

La profondità dell’analisi e la ricchezza della documentazione; l’abilità con cui dialoga e fa dialogare tra loro autori e discipline diverse, e soprattutto la chiarezza con la quale orchestra le delicate componenti della sua opera potrebbero destinare questo volume a diventare col tempo una sorta di classico degli studi sociologici sulla morte, in un panorama nel quale la letteratura (specializzata e non) propone troppo spesso titoli talvolta approssimativi, seguendo d’altra parte una tendenza dettata dalle esigenze di presentificazione, superficialità, velocità che caratterizzano la nostra cultura attuale, per una serie di motivi che peraltro il libro stesso riesce ben a spiegare.

     Recensione di Gianfranco Pecchinenda