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Chernobyl: l’inferno in terra
Forse
il simbolo migliore del passaggio dalla modernità alla postmodernità può essere
rintracciato nel nucleare: nell’arco di pochissimi anni la speranza che questa
scoperta rivoluzionaria potesse portare a una svolta della civiltà venne meno
con lo sgancio delle bombe sul Giappone nel 1945. Da allora la bomba atomica
sbarcò anche nella fantascienza (secondo alcuni, E.E. Smith l’aveva anticipata
nella citata saga di Skylark) e diede
il colpo di grazia all’ingenua illusione di un futuro di speranza e pace: il
2000, che prima di allora indicava il traguardo di un’umanità prospera e felice
grazie alle scoperte della scienza,[8] diventa
ora l’anno simbolo dell’apocalisse prossima ventura (si prendano solo come
esempio alcuni titoli di fortunati film apocalittici che vennero così tradotti
in italiano diversamente dall’originale: 2022
i sopravvissuti, 1997 Fuga da New
York, 1999: Conquista della Terra,
2000: la fine dell’uomo). La fantascienza
post-apocalittica è il filone che prende in consegna lo status di “mainstream
della science fiction” direttamente dal filone della space opera che prima
faceva da padrona. Ciò che interessa non è più l’universo, ma la terra che
l’umanità ha distrutto e sulla quale deve rassegnarsi a vivere. Ma così come la
fantascienza fatta di navi spaziali cadrà in disgrazia, almeno nella
letteratura, dopo lo Sputnik, così analogamente la fantascienza fatta di futuri
post-atomici e di olocausti nucleari non tirerà più molto dopo Chernobyl, che
rappresenta un po’ l’avverarsi delle sinistre profezie degli scrittori di
genere. Prendiamo
a mo’ di esempio due opere notissime ambientate in uno scenario post-atomico: Paria dei cieli di Isaac Asimov del 1950
e Cronache del dopobomba di Philip
Dick del 1965. I quindici anni che separano i due romanzi sono un abisso, sia
dal punto di vista stilistico che da quello contenutistico: Asimov è ancora nel
pieno della fantascienza classica, Dick è ormai proiettato verso una fantascienza
senza etichette e proprio per questo – forse – postmoderna per definizione. Ma la
differenza che va sottolineata sta tutta nel messaggio. La Terra di Paria dei cieli è a diecimila anni nel
nostro futuro, resa quasi inabitabile dalle radiazioni provocate da una guerra
di cui naturalmente nessuno ricorda nulla, e si ritrova improvvisamente da
mondo ostracizzato e ghettizzato a centro dell’universo come già era stato un
tempo; per il popolo terrestre, vero paria cosmico in un universo dove non c’è più
spazio per difetti fisici e mentali, arriva però il lieto fine quando il
governo imperiale si accolla il gigantesco compito di bonificare il pianeta e
renderlo nuovamente fertile, simboleggiando così la speranza di una nuova
rinascita.[9] Non è
così per Cronache del dopobomba, che
non a caso non si svolge nel remoto futuro ma in un’epoca che può essere
benissimo la nostra, o meglio quella degli anni Sessanta in cui la storia fu
scritta. Qui non c’è possibilità di una vera rinascita, la Terra è distrutta e lo
rimane, i sopravvissuti restano tali dall’inizio alla fine (l’opera si chiude
proprio con un caustico “intorno a lei, la città si svegliava, tornando ancora
una volta alla sua vita normale”) e l’olocausto nucleare, detto per inciso, non
è frutto di una guerra tra superpotenze ma di un banale incidente occorso ai
computer americani. In
entrambe le opere l’unica speranza viene dallo spazio: in Asimov è l’intervento
del benevolo Impero galattico, in Dick è la figura semidivina di Walt
Dangerfield, astronauta partito dalla Terra il giorno stesso del disastro e
condannato a restare per sempre in orbita intorno al pianeta martoriato.
Dangerfield s’incarica di conservare e tramandare il ricordo della vecchia
civiltà le cui vestigia (libri, dischi) sono conservate negli archivi della sua
nave spaziale. È
interessante notare l’inversione di ruoli rispetto alla fantascienza
positivista degni anni precedenti: la scienza, che doveva portare l’uomo a
conquistare le stelle, lo ha condotto sull’orlo dell’estinzione e tutte le
conoscenze della civiltà sono rinchiuse ora fuori dalla Terra, in un cosmo
paradossalmente irraggiungibile che diventa la nuova prigione di un’umanità
condannata. Il tema dell’incidente che
provoca l’olocausto nucleare, che ritroviamo in Dick (il quale a sua volta
l’aveva ripreso dal film cult Il dottor
Stranamore, al quale l’originale titolo inglese fa evidente riferimento)
come in altre opere, non è che la spia di un mutamento importante nella
fantascienza “postmoderna”: se prima le minacce per l’umanità provenivano dal
di fuori, attraverso invasioni aliene o imprevedibili fenomeni astronomici,
adesso il rischio è all’interno, scaturisce dal sempre più rischioso rapporto
tra l’uomo e la natura. La “tetralogia degli elementi” di Ballard, Deus X di Spinrad, oltre a tantissimi
film mettono in guardia da quella che il noto sociologo Ulrich Beck chiama la
“società del rischio”[10] nella
quale viviamo, frutto di una tarda modernità di crescita sconsiderata. Come scrive Beck: “Il concetto
di rischio è un concetto moderno. Esso presuppone delle scelte e cerca di rendere
prevedibili e controllabili le conseguenze imprevedibili delle scelte compiute
in nome dei progresso. L'elemento nuovo della società mondiale del rischio sta
nel fatto che con le nostre scelte nel nome del progresso diamo luogo a
problemi e pericoli globali che contraddicono radicalmente il linguaggio
istituzionalizzato del controllo e le promesse di controllo (irresponsabilità
organizzata). È quanto avviene in occasione delle catastrofi portate
all'attenzione dell'opinione pubblica mondiale - come Chernobyl… L'esplosività
politica non può essere descritta nel linguaggio del rischio, nelle cifre delle
vittime morte o ferite, né in formule scientifiche. In esse ‘esplodono’ - se ci
si consente questa metafora -le responsabilità, le pretese di razionalità, le
legittimazioni in forza dell'aderenza alla realtà”[11]. Non a
caso Beck definisce l’incidente di Chernobyl uno “shock antropologico”: fu
quella la prima vera dimostrazione dei pericoli devastanti della manipolazione
della natura, il primo grande fallimento del paradigma modernista della
razionalità capace di controllare i fenomeni “irrazionali” del caos, la prima
manifestazione di impotenza dell’uomo tecnologico. In questo senso Anthony
Giddens ha dipinto la modernità come un ‘juggernaut’, un “’bisonte della strada’, un ‘mostro’ di
enorme potenza che collettivamente, come esseri umani, riusciamo in qualche
modo a governare ma che minaccia di sfuggire al nostro controllo e andarsi a
schiantare. Il ‘mostro’ schiaccia coloro che gli resistono e se a volte sembra
seguire un percorso regolare, in altre occasioni sterza bruscamente e sbanda in
direzioni che non possiamo prevedere”[12].
La società del rischio è la società post-moderna o tardo moderna nella quale viviamo. E la fantascienza, che da sempre ha seguito gli sviluppi della nostra civiltà sublimandoli in narrazioni solo apparentemente slegate dalla realtà effettiva, ha seguito inevitabilmente questo percorso di passaggio dalla modernità alla post-modernità. Come ha efficacemente sintetizzato Adolfo Fattori nel suo Memorie dal futuro: “In sostanza, al suo nascere la fantascienza è una narrativa orientata entusiasticamente, ‘muscolarmente’ al progresso, alla tecnologia, al futuro, perfetta espressione della modernità – e specchio dell’uomo moderno… Con il maturare della modernità si producono le prime inquietudini sullo statuto della realtà e sul posto dell’uomo nel mondo… [Infine] Con l’affermarsi della tardomodernità, il futuro diventa irrapresentabile, lo spazio si deterritorializza e la science fiction riverbera l’incertezza e il disorientamento degli uomini di fine millennio.[13] Attraverso questo suo percorso la fantascienza ha portato a rivoluzioni enormi al suo interno, perché così come la post-modernità è un superamento delle premesse e delle conseguenze della modernità, così la fantascienza contemporanea punta ad essere un superamento radicale di un genere che è sempre stato d’avanguardia. In qualche modo, quindi, la fantascienza di oggi ha reso obsoleti i temi affrontati nei suoi primi anni, che sono invecchiati prima ancora di diventare reali. Eppure, in questi musei del futuro che la fantascienza ci mette a disposizione possiamo ritrovare un po’ la storia di questa nostra epoca di grandi cambiamenti e ri-scoprire le nostre convinzioni, le nostre paure, le nostre speranze.
[8] Si prendano come esempi
Isaac Asimov, Nostalgia del futuro,
Rizzoli, 1988 e, in maniera molto più ambigua: Emilio Salgari, Le meraviglie del Duemila, Viglongo,
1995.
[9] Va detto però che nel suo
tardo Fondazione e Terra (1986),
Asimov racconta che il progetto di bonifica si arrestò dopo pochi anni
provocando la completa inabitabilità del pianeta e l’evacuazione dei
sopravvissuti su un nuovo mondo.
[10] Cfr. U. Beck, Che
cos'è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, 1999; La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, 2000;
La società globale del rischio,
Asterios, 2001; Un mondo a rischio,
Einaudi, 2003.
[11] Articolo di U. Beck su La Repubblica del 13 dicembre 2002.
[12] A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il
Mulino, 1994, p. 138.
[13] A. Fattori, Memorie dal futuro. Spazio, tempo, identità
nella science fiction, Ipermedium, 2001, pp. 146-147.
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