Il futuro fossile sepolto a Chernobyl di Roberto Paura

 


La modernità vuole infatti consentire all’uomo di emanciparsi dalla propria condizione di essere-nel-mondo, quella che ci fa sentire in qualche modo ingabbiati in limiti che non possiamo superare (il nostro mondo, la nostra vita); eppure, nel cercare strumenti atti a raggiungere tale obiettivo all’interno del bagaglio positivista e scientista, essa finisce per corromperli e usarli per l’obiettivo esattamente opposto. Gli spettri dell’eugenetica e dell’olocausto nucleare sono i figli illegittimi della modernità, il loro lato oscuro. Così, analizzando come muta il concetto di nave spaziale nella narrativa fantascientifica, si può scoprire il confine reale tra modernità e postmodernità.

L’esplorazione spaziale, non va dimenticato, inizia soprattutto grazie all’impegno di appassionati di fantascienza. Nel 1930 il curatore della rivista Wonder Stories fonda l’American Interplanetary Society, seguita nel 1933 dall’omologa britannica a cui un paio d’anni più tardi si unì Arthur Clarke, primo teorico dei satelliti artificiali e tra i più accaniti sostenitori dell’esplorazione spaziale. Sul suo sito Internet, il critico di fantascienza italiano Fabio Feminò ha raccolto una straordinaria galleria di copertine delle storiche riviste di science fiction dell’Età d’Oro tutte dedicate alle grandi navi spaziali, che allora rappresentavano senza dubbio il simbolo per antonomasia della fantascienza (il Premio Hugo è appunto una statuetta con la forma slanciata di un’astronave).

Proprio Feminò, che dedica sulla rete un ampio spazio alla storia del genere, riporta una constatazione dello scrittore Brian Aldiss nella sua storia della fantascienza Un miliardo di anni (1973): “Il viaggio spaziale era un sogno, il prezioso sogno dei fan della fantascienza. Quando il viaggio spaziale divenne una realtà, il sogno fu loro sottratto. Nessuna meraviglia che le vendite delle riviste di SF calassero drammaticamente dopo il lancio dello Sputnik!”. E Feminò aggiunge: “Da allora iniziò il declino della SF, e il progressivo successo della cosiddetta science fantasy, una forma di narrativa completamente svincolata da qualsiasi conoscenza scientifica. Per questo c'è anche chi pensa che la fantascienza non abbia più uno scopo, tanto da far affermare a John Brunner: ‘Non sarà la nostra civiltà a portarci fra le stelle, ma un'altra civiltà che starà alla nostra come la nostra sta a quella classica.’ E a Lester del Rey: ‘Il futuro ci sfuggirà di mano al punto che le nostre attuali predizioni non avranno più senso’".[6]

Ecco, abbiamo trovato il punto di non ritorno che del resto era già stato sottinteso dalla Arendt: è quando l’esplorazione spaziale esce dalle pagine della fantascienza per diventare realtà, che la narrativa di genere subisce la rivoluzione che la porterà da letteratura moderna a letteratura postmoderna.

L’ingenuità del sogno spaziale sta tutta nella space opera classica, che non a caso fa dell’universo piuttosto che della Terra lo scenario delle vicende. Il romanzo di E.E. Smith Skylark of Space (L’allodola dello spazio, 1928), è esemplificativo: abbiamo un brillante scienziato, il dottor Seaton, che scopre una forma di energia nucleare capace di fornire la propulsione a un’astronave interstellare da lui costruita, con la quale egli spalanca le porte dell’universo. Il suo antagonista è il dottor DuQuesne, che mette invece queste scoperte al servizio di una scienza distruttiva. Edmond Hamilton con i suoi romanzi e le storie di Capitan Futuro, Jack Williamson con il ciclo della Legione dello spazio, Edgar Rice Burroughs con l’avventuroso ciclo di John Carter di Marte resteranno per decenni i capolavori incontrastati di un genere nuovo, la fantascienza appunto, figlia della modernità e delle sue esaltanti promesse.

In questi romanzi protagonista è sempre l’Uomo omerico, che nel confrontarsi con altre specie aliene riesce sempre – anche se spesso tecnologicamente inferiore – ad avere la meglio. Posteriori di circa un decennio sono invece altri due racconti significativi: Tendenze (1939) di Isaac Asimov e Requiem (1940) di Robert Heinlein, che si apprestavano allora a diventare i giganti incontrastati della science fiction degli anni Quaranta e Cinquanta. In queste due storie torna l’immatura idea à la Verne riguardo la possibilità che un singolo individuo costruisca da solo una nave spaziale e la sappia pilotare, che trova in America facile presa grazie al mito intramontabile del self made man. In qualche modo però c’è una differenza rispetto alle trame precedenti perché la sfida che i protagonisti devono affrontare è diversa e proviene dai loro simili.

In Tendenze il protagonista deve affrontare una sorda e iconoclasta opposizione ai viaggi spaziali proveniente da una società imbarbarita dalla propaganda religiosa; in Requiem l’opposizione proviene da una società ormai disillusa che non prova più per i voli spaziali il fanciullesco senso di meraviglia che spinge invece il protagonista a fare il suo primo e ultimo viaggio verso la Luna sfidando le leggi che glielo proibiscono. Fa qui capolino anche nella fantascienza quel disincanto del mondo di cui parlava Max Weber[7], frutto del trionfo della scienza nella società moderna. La guerra mondiale è ormai scoppiata, i figli illegittimi della modernità hanno preso il posto dei loro genitori.

Il punto di svolta sta quindi, nel mondo reale, nel 1957 con il lancio dello Sputnik. Nella fantascienza il punto di svolta si situa qualche anno più tardi con l’inizio della New Wave, ma ebbe un chiaro segno precursore nel racconto Mercato prigioniero di un certo Philip K. Dick del 1955: in un mondo post-atomico, uno sparuto gruppo di sopravvissuti tenta di costruire una nave spaziale per lasciarsi alle spalle il pianeta che loro stessi hanno distrutto, ma i loro tentativi vengono frustrati dallo stesso desiderio di ingordigia che ha spazzato via l’umanità.


[7] M. Weber, La scienza come professione, Armando, 1997.

 

 

    [1] (2) [3]