Guy Debord, il dottore in niente 

 

di Antonio Camorrino



Per noi uomini della postmodernità, la dimensione tardomoderna che abitiamo appare naturale, logica continuità del passato. Un ambiente che si è diffuso e si è sostituito alla Modernità lentamente ma sistematicamente, invadendola e sostituendola un po’ alla volta.

Ce ne accorgiamo ogni tanto, guardandoci alle spalle, e rimaniamo a volte, sorpresi, sconcertati, di fronte alle sue propaggini e ai suoi effetti, la perdita della prospettiva, l’avanzare della virtualità e della simulazione, il trionfo del tempo reale.[1]

C’è stato però qualcuno che aveva avvertito il procedere del cambiamento, in maniera magari troppo urgente e disturbante, sicuramente radicale e lucidamente beffarda: Guy Debord.

Se indaghiamo la sua opera in un’ottica preminentemente sociologica, cioè guardando ai suoi lavori spogliati dalla forte carica ideologica che certamente li rivestiva, sicuramente troveremo il segno di questa lucida consapevolezza.

Il francese, che potremmo definire un teorico rivoluzionario, anche se lui amava definirsi “dottore in niente”, nasce nel 1931 in Francia e vive la sua vita in un periodo storico densissimo, quello delle avanguardie artistiche: i movimenti surrealisti, il dadaismo, il lettrismo, la seconda guerra mondiale, la nascita e l’affermazione dei grandi movimenti di massa che in qualche modo cercavano di mettere in discussione il paradigma sociale dominante, la nascita dei due grandi blocchi contrapposti, Stati Uniti e Unione Sovietica, i moti generazionali.

Ed è in quest’orbita che la corrente Situazionista e il suo fondatore Guy Debord, s’inscrivono.

L’Internazionale Situazionista viene fondata nel 1957 e si pone come obiettivo principale il rovesciamento dell’ordine dominante. Altro suo interesse prioritario è il superamento dell’arte.

Il Situazionismo intende perseguire questi obiettivi attraverso delle direzioni di ricerca come ad esempio il  dètournement, processo di risignificazione di un oggetto culturale (il procedimento che utilizza anche Blob: Enrico Ghezzi per sua stessa ammissione deve parecchio ai situazionisti), vale a dire un montaggio di elementi preesistenti che assemblati in maniera differente dall’originale producono un significato nuovo; la situazione, che dà il nome alla corrente, è una pianificazione individuale dell’esperienza, attraverso la cui costruzione si volevano destrutturare i contesti precostituiti figli dell’ordine dominante; ed infine il cinema, anch’esso mezzo per il superamento dell’arte e strumento di propaganda atto a diffondere le tesi situazioniste.

Ognuna di queste direzioni di ricerca è volta alla distruzione dei modelli imposti dal Potere.

Tutta l’opera di Debord, sia quella teorica che quella filmica, è di prospettiva dichiaratamente marxista, ma il carattere di originalità delle tesi debordiane è data dall’introduzione del concetto di Spettacolo.

La descrizione di quest’idea si ritrova nelle due opere teoriche maggiori di Debord: La società dello Spettacolo del 1967 che ebbe una vasta eco mondiale soprattutto dopo il maggio francese del 1968, e i Commentari alla società dello spettacolo del 1988 che integrano l’opera precedente.

Per Debord lo spettacolo non è la semplice tirannia dei mass-media, quest’aspetto è sicuramente la sua manifestazione sociale più opprimente, ma non è l’unica né la più importante.

La televisione come gli altri media è solo l’espressione della struttura delle società spettacolari e uno degli strumenti di controllo e persuasione della classe dominante.

Per Debord lo spettacolo è la struttura profonda della società moderna ed è il risultato del progresso consumistico del capitalismo degenerato nel feticismo delle merci.

Debord afferma che i paesi capitalisti si stanno evolvendo verso una società in cui gli individui sono meri spettatori passivi di un flusso d’immagini, giustificatrici dell’assetto costituito, che si sostituiscono completamente alla realtà.

Una parte significativa del lavoro di Debord è costituita dalla sua produzione filmica. Essa si compone di tre cortometraggi e di tre lungometraggi. Egli intendeva proporre degli anti-film atti al superamento dell’arte, e alla distruzione stessa del mezzo. Il prodotto di questo principio non poteva essere certo un film come lo intendiamo noi adesso, ma bensì egli si pone nell’ottica di creare nel fruitore un totale senso di straniamento che gli risvegli una capacità critica.


[1] J. Candau, La memoria e l’identità, Ipermedium, Napoli, pag. 112.

 

    (1) [2] [3]