I molteplici volti assunti
dalla distorsione del sé


Altering Facial Features with WH5 (2010) di Hyungkoo Lee, una delle opere presenti nella mostra Virtual Beauty (Londra, Somerset House, 23 luglio – 28 settembre) è stata anche scelta come immagine ufficiale riprodotta nel poster della manifestazione il cui intento è stato quello di esplorare l’impatto della cultura e delle tecnologie digitali sul concetto di bellezza ai nostri giorni.


Altering Facial Features with WH5 (2010) di Hyungkoo Lee, una delle opere presenti nella mostra Virtual Beauty (Londra, Somerset House, 23 luglio – 28 settembre) è stata anche scelta come immagine ufficiale riprodotta nel poster della manifestazione il cui intento è stato quello di esplorare l’impatto della cultura e delle tecnologie digitali sul concetto di bellezza ai nostri giorni.


Quale forza invisibile determina che un volto divenga desiderabile e un corpo assurga a parametro normativo di bellezza? È l’autonomia del gusto individuale a dirigere tali inclinazioni, o è piuttosto la logica algoritmica a orchestrare, con silenziosa perentorietà, l’emersione e la consacrazione di determinati tratti somatici e conformazioni corporee? Il funzionamento delle piattaforme sociali non si esaurisce in un processo di selezione neutrale dei contenuti, bensì si configura come un meccanismo di potere simbolico. L’algoritmo si erge a dispositivo biopolitico: seleziona, amplifica, marginalizza. In questo processo, non solo visibilità e invisibilità vengono redistribuite, ma si plasma una gerarchia estetica che, reiterata e interiorizzata, tende a imporsi come norma. La conseguenza è un’estetica standardizzata, un’omologazione visiva che non ammette deviazioni. Sempre più persone costruiscono un sé virtuale divergente dal reale: avatar nei metaversi, gemelli digitali (digital twins), identità estetiche modificate nel gaming o nelle realtà immersive. Si tratta di pratiche non innocue: generano dissonanza tra identità percepita e identità corporea, alimentando ansia, disturbi dell’autopercezione, e in casi estremi, desideri invasivi di modificazione corporea. A parlare oggi di estetica digitale, di corpi filtrati dall’intelligenza artificiale, di identità modellate dall’algoritmo, non si può prescindere dal nome di Orlan. L’artista francese, nata Mireille Suzanne Francette Porte nel 1947 a Saint-Étienne, ha fatto del proprio corpo un terreno di conflitto, un laboratorio di trasformazioni, una superficie su cui incidere domande che riguardano tutti: chi decide che cos’è bello? Quali sono i limiti del corpo umano? E fino a che punto è lecito spingersi per raggiungere uno standard imposto da altri?


Parziale della scultura del 2002, Pi(x)el di Flip Custic [pi(x)el©filipcustic – Cortesia Onkaos], un’opera esposta alla mostra londinese Virtual Beauty, che ringraziamo per averci autorizzato a pubblicare le immagini che corredano questo articolo.

Negli anni Settanta, Orlan inizia a sperimentare con la fotografia e la performance, ma è tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta che raggiunge una radicalità senza precedenti. Con la serie La Ré-incarnation de Sainte ORLAN, si sottopone a operazioni di chirurgia plastica in diretta, in anestesia locale, trasformando la sala operatoria in un vero e proprio palcoscenico. Non cerca di farsi più giovane o più bella secondo i canoni dominanti: al contrario, scolpisce sul proprio viso segni ispirati a icone artistiche del passato, come la fronte alta della Gioconda o il mento pronunciato di Botticelli. Ogni taglio, ogni sutura diventa un gesto concettuale che mette in crisi l’idea di un corpo naturale, intoccabile, autentico. Orlan chiama questa pratica arte carnale, e nei suoi manifesti chiarisce che il corpo non è una frontiera da rispettare ma un campo da trasformare, criticare, reinventare. Con gli anni, l’artista ha spostato la sua indagine dal bisturi al digitale. Nelle serie di Self-Hybridisations il suo volto viene manipolato attraverso il computer, fuso con tratti presi da culture diverse, da modelli estetici eterogenei, quasi a dimostrare che non esiste un’unica idea di bellezza ma un mosaico infinito di possibilità. Più di recente, Orlan ha sperimentato con avatar, realtà aumentata e robotica, arrivando a concepire persino una propria versione artificiale: l’ORLAN-oïde, un androide che porta il suo nome e la sua immagine. In ogni fase della sua carriera, l’artista ha affrontato lo stesso nodo centrale: la tensione tra corpo reale e corpo immaginato, tra carne e immagine, tra ciò che siamo e ciò che vorremmo o che la società ci spinge a essere.


La Réincarnation de Sainte ORLAN:  settima performance di Operazione Chirurgica intitolata Omniprésence, 21 novembre 1993.  Video proiettato a Virtual Beauty.

Proprio questa tensione è al cuore della mostra Virtual Beauty, inaugurata a luglio 2025 presso Somerset House a Londra. L’esposizione prende in esame il fenomeno ormai noto come Snapchat dysmorphia: la tendenza crescente a desiderare, e in alcuni casi a richiedere al chirurgo plastico, un aspetto che corrisponda non più a ideali tradizionali di bellezza, ma alla propria immagine filtrata da app e intelligenza artificiale. Pelle levigata al punto da sembrare priva di pori, simmetrie facciali perfette, occhi ingranditi, mascelle scolpite: caratteristiche che nessun corpo umano può mantenere nella realtà, ma che diventano improvvisamente desiderabili perché viste ogni giorno nello specchio digitale dei social. Non è un caso che il dottor Debraj Shome, chirurgo estetico, abbia recentemente lanciato l’allarme: i pazienti non chiedono più solo un ritocco o un miglioramento, ma pretendono di incarnare un ideale post-umano, una perfezione impossibile, rischiando conseguenze fisiche e psicologiche. La mostra londinese non si limita a denunciare questa deriva: offre uno spazio critico in cui artisti di diversa provenienza interpretano e smontano le logiche della bellezza digitale. Fra loro spicca Qualeasha Wood, giovane artista americana che negli ultimi anni ha attirato l’attenzione internazionale per la sua capacità di intrecciare estetica digitale, storia dell’arte tessile e critica sociale.


A sinistra: Qualeasha Wood: It’s All For U (If U Rlly Want It) (2024). Cortesia dell’artista e Pippy Houldsworth Gallery, Londra. A destra: Andrew Thomas Huang & James Merry, Bjork Virtual Avatars (2017). Scultura digitale interattiva in 3D. Cortesia dell’artista. 

Wood lavora principalmente con arazzi e tessuti tufted, mezzi tradizionali che reinterpreta in chiave contemporanea, mescolando pixel e glitch a motivi ornamentali. Già questo è un gesto simbolico: portare un linguaggio antico e domestico come quello tessile dentro l’universo iper-tecnologico dei filtri e delle app significa creare un cortocircuito tra la manualità e l’automatismo, tra il difetto umano e la perfezione algoritmica. Il suo lavoro esposto in Virtual Beauty, intitolato It’s All For U (If U Rlly Want It), affronta di petto la questione della dysmorphia digitale. Qui la pelle non è levigata, ma interrotta; il volto non è simmetrico, ma segnato da errori visivi, glitch che diventano segni di resistenza. Per Wood, il glitch non è un problema tecnico da correggere: è uno spazio di verità. È la prova che dietro ogni immagine levigata si nasconde una crepa, che dietro la patina perfetta resta la fragilità dell’umano. Questa estetica della vulnerabilità assume un significato ancora più forte se consideriamo l’identità dell’artista, donna nera e queer che mette in gioco la propria immagine in un contesto dominato da modelli di bellezza eurocentrici e omologanti.
Nei suoi arazzi compaiono icone pop, avatar, screenshot, emoji, simboli che appartengono all’immaginario digitale quotidiano, ma rielaborati attraverso la lente di chi ha sempre dovuto fare i conti con uno sguardo esterno che giudica e definisce. Così la sua opera diventa al tempo stesso autobiografica e politica, intima e universale. Accanto a Wood, altri artisti di Virtual Beauty offrono prospettive differenti, che arricchiscono la riflessione sul corpo digitale. Amalia Ulman, per esempio, utilizza i social media come vero e proprio palcoscenico: le sue performance consistono nel costruire identità fittizie su Instagram, dando vita a personaggi che sembrano reali e che il pubblico segue come se fossero autentici. In questo modo dimostra quanto sia sottile il confine tra realtà e finzione nell’era digitale, e come la bellezza online sia sempre il risultato di una narrazione, più che di un corpo reale. Minne Atairu, invece, lavora con l’intelligenza artificiale per reinventare storie culturali cancellate. Usando dataset che comprendono, ad esempio, immagini dei Bronzi del Benin, produce opere che interrogano la memoria, la rappresentazione e la perdita. Nel suo caso, la questione della bellezza filtrata non riguarda solo i volti dei singoli individui, ma interi patrimoni culturali deformati dallo sguardo coloniale: l’AI diventa strumento per immaginare versioni alternative di ciò che non ci è stato tramandato.


Arvida Byström: Harmony (2022). Cortesia dell’artista.

Infine, artisti come Andrew Thomas Huang e James Merry propongono corpi che non cercano la perfezione standardizzata, ma la metamorfosi radicale. I loro avatar digitali, già noti per la collaborazione con Björk, appaiono come creature ibride, organiche e aliene al tempo stesso. Qui la tecnologia non serve a correggere o levigare, ma a spalancare scenari fantastici, a immaginare corpi che non esistono ma che potrebbero esistere. Insieme, queste voci compongono un mosaico che riflette la complessità del nostro presente. Da un lato, la pressione estetica esercitata da filtri e algoritmi produce un desiderio di perfezione impossibile che rischia di trasformarsi in patologia sociale. Dall’altro, gli artisti trovano nel digitale anche un’occasione di liberazione, di reinvenzione, di critica. Non si tratta semplicemente di asserire “i filtri sono cattivi” o “l’AI ci rovina”: piuttosto, si tratta di riconoscere che viviamo in un’epoca in cui l’immagine del sé è sempre più mediata, sempre più artificiale, e che questa mediazione può essere tanto oppressiva quanto emancipatoria. Tornando a Orlan, è evidente come il suo lavoro degli anni Novanta avesse già previsto tutto questo: la chirurgia come performance, il corpo come costruzione, la critica ai canoni imposti. Quello che per lei era provocazione artistica è diventato oggi pratica quotidiana, desiderio diffuso, perfino richiesta clinica. Se Orlan entrava in sala operatoria per smontare i modelli estetici, oggi migliaia di giovani entrano nello studio del chirurgo per inseguirli. È qui che mostre come Virtual Beauty assumono un valore fondamentale: riportano il discorso dal piano individuale a quello collettivo. Il corpo, reale o digitale che sia, resta il campo di battaglia del presente. Un campo in cui si intrecciano desiderio e controllo, libertà e oppressione, creatività e mercato. L’arte, ancora una volta, diventa lo strumento per renderlo visibile, per trasformare ciò che rischia di restare invisibile o normalizzato in oggetto di riflessione critica. E forse, come dimostrano Orlan, Wood e tutti gli artisti di Virtual Beauty, è proprio nelle crepe, nei glitch, nelle imperfezioni che possiamo trovare la via per immaginare nuove forme di bellezza: non quella che annulla le differenze, ma quella che le accoglie, le celebra, le trasforma in possibilità.


Qui e sotto: Ben Cullen Williams e Isamaya Ffrench. Past Life Grid (2021). Cortesia degli artisti.

Storicamente, ogni decennio ha conosciuto la sua forma ideale, spesso veicolata e imposta dai media: la magrezza eterea del thigh gap, l’estetica anoressica dell’heroin chic negli anni Novanta, l’iper-definizione muscolare della fitspiration nel primo decennio del Duemila, fino al cosiddetto BBL body, incarnazione di curve chirurgicamente rimodellate e rese desiderabili attraverso l’onnipresente lente digitale. Non si tratta di fenomeni effimeri, bensì di veri e propri regimi estetici, capaci di orientare condotte corporee, pratiche alimentari, scelte cosmetiche e persino procedure chirurgiche invasive. Un caso esemplare, divenuto simbolico, è quello della iPhone Face o Instagram Face: espressione che designa un volto artificiosamente uniformato da una convergenza di fattori – filtri di realtà aumentata, tecniche di make-up ispirate ai trend digitali, chirurgia estetica progettata per replicare esattamente ciò che l’occhio algoritmico premia. Ne deriva una sorta di fenotipo mediale che dissolve le peculiarità somatiche individuali a favore di una fisionomia omogenea e replicabile, elevata a paradigma estetico dominante.

Il passaggio dal photoshopping tradizionale al ricorso sistemico a filtri e procedure medico-chirurgiche non rappresenta una mera evoluzione tecnica: esso rivela l’introiezione di un dispositivo disciplinare. Se, in epoca pre-digitale, erano le redazioni delle riviste patinate a rimodellare le immagini delle modelle secondo un ideale estetico, oggi tale operazione è interiorizzata e diffusa: l’individuo stesso, attraverso strumenti tecnologici accessibili, si trasforma in editore del proprio corpo. L’alterazione digitale, reiterata, diviene desiderio incarnato; la maschera virtuale si fa progetto somatico permanente. Le implicazioni psicologiche e psicosociali sono dirompenti. L’esposizione continua a ideali estetici inattingibili alimenta ansia da prestazione, frustrazione, senso di inadeguatezza. La pressione conformativa si traduce in perdita di autenticità e progressiva erosione della diversità corporea e fisionomica. Laddove la visibilità coincide con la legittimazione sociale, la mancata aderenza ai modelli dominanti equivale a un’esclusione silenziosa: l’invisibilità.


Uno degli spazi espositivi di Somerset House sede della mostra Virtual Beauty. ©David Parry, PA Media Assignments.

L’algoritmo, dunque, non si limita a distribuire contenuti: opera come istanza regolativa, come architetto invisibile delle identità contemporanee. Plasmando corpi, volti e desideri, esso riconfigura i confini tra ciò che è percepito come normale, auspicabile, desiderabile, e ciò che invece viene relegato al margine dell’indicibile. Le applicazioni destinate al fotoritocco e ai filtri estetici (Snapchat, TikTok, FaceApp) operano come agenti normativi: mediante algoritmi di trasformazione estetica — smoothing della pelle, rimodellamento del naso, incremento volumetrico delle labbra, modifica delle proporzioni facciali — costruiscono aspettative estetiche sempre più rigide verso la propria apparenza. Queste app non si limitano alla postproduzione ma orientano il comportamento: l’utente si abitua a confrontare/selezionare versioni alterate del Sé, interiorizzando ideali estetici algoritmici. È emerso il fenomeno della selfie dysmorphia, definita come la tendenza, in individui (spesso giovani), a voler modificare il proprio corpo o volto reale sotto il modello filtrato dei propri selfie. Chirurghi plastici riferiscono richieste di interventi per sembrare versioni fotogeniche o filtrate di sé stessi. Boston University, ambito Dermatologia, ha documentato che pazienti chiedono modifiche simili a quelle indotte da filtri digitali. Durante la pandemia da Covid-19 si è accentuata la Zoom dysmorphia: l’abitudine a vedersi per molte ore in videochiamata con webcam frontale ha esacerbato la preoccupazione per difetti, dettagli corporei e facciali percepiti come imperfezioni. Uno studio iraniano su studenti di medicina ha misurato livelli moderati di zoom dysmorphia, correlati positivamente con la dysmorphic concern (preoccupazione ossessiva per l’aspetto) e inversamente con l’auto-efficacia (abilità percepita di gestire le proprie reazioni). Inoltre, studiosi dell’Accademia Americana di Dermatologia segnalano un forte aumento delle consultazioni estetiche in pazienti che nominano l’esposizione in videochiamata quale fattore scatenante.

Etica, autenticità dell’immagine, cultura dell’auto-ottimizzazione
È imprescindibile riflettere sull’etica dell’immagine autentica. Viviamo in una cultura che spinge all’auto-ottimizzazione: il volto e il corpo diventano progetti su cui intervenire costantemente, tramite fitness tracking, app di meditazione (che non solo promuovono benessere, ma anche controllo, misurazione, performatività), cosmetica, chirurgia estetica. Il Sé diventa brand, il volto schermo su cui è formattata un’identità virtuale da esibire. Gli AI beauty filters intensificano la creazione di volti ideali artificiali, in proporzioni spesso non naturali (simmetria assoluta, pelle senza pori, proporzioni che sfidano i limiti anatomo-fisiologici normali). Uno studio indiano del 2025 evidenzia che utenti di app come BeautyPlus e Candy Camera che usano filtri lamentano maggiore insoddisfazione verso il loro aspetto non modificato e desiderano procedure estetiche per riprodurre la versione filtrata. Tra i neologismi che meglio descrivono la metamorfosi estetica indotta dall’era digitale, pochi hanno riscosso tanta risonanza quanto il termine iPhone Face. Si tratta di un’espressione coniata per indicare un particolare canone fisionomico che sembra provenire non dalla biologia, bensì dall’algoritmo: lineamenti levigati, sopracciglia perfettamente definite, zigomi pronunciati, labbra volumizzate e una pelle priva di imperfezioni. È il volto plasmato dall’abitudine ai filtri fotografici e dalla cultura dei social media, un volto che tende a cancellare ogni asperità, ogni tratto idiosincratico, in favore di un’estetica standardizzata, facilmente riconoscibile e immediatamente condivisibile. Un volto, insomma, che non appartiene tanto a una persona quanto a un’epoca: quella della visibilità perpetua, del selfie come unità minima d’espressione, della performance identitaria continua.


Harriet Davey, Whowle Hearted – Excerpts, 2023, ©David Parry, PA Media Assignments.

L’iPhone Face non è soltanto un ornamento digitale: rappresenta un prisma attraverso cui si rifrange la nostra identità, la nostra autostima, la percezione del mondo e di noi stessi. Quando l’immagine diventa progetto, quando il volto reale diverge dal riflesso algoritmico, il rischio non è la semplice erosione della diversità estetica, ma la frattura nel legame con ciò che è autentico, viscerale, umano. Eppure, in questa tensione tra identità incarnata e desiderio filtrato si apre anche una possibilità: riconoscere il potere normativo dei media e reclamare il diritto all’imperfezione, all’unicità, al sé non mediato. Non si tratta più soltanto di chirurgia o di estetica, ma di etica: ritessere la fiducia in un’immagine che non sia specchio di un algoritmo, bensì manifestazione genuina di una singolarità irriducibile. Se questo discorso può sembrare astratto, è sufficiente volgere lo sguardo a certi casi concreti che hanno segnato il dibattito recente, rivelando quanto profondamente l’iPhone Face influenzi non solo la vita quotidiana, ma anche la percezione dell’arte e della narrazione cinematografica. Un esempio emblematico è quello di Camila Morrone in Daisy Jones & The Six, serie ambientata negli anni Settanta. Pur immersa in costumi, scenografie e sonorità perfettamente d’epoca, l’attrice è stata percepita da una parte del pubblico come irrimediabilmente fuori tempo: la sua pelle diafana, le sopracciglia scolpite, le labbra piene e la perfezione cosmetica rimandavano a un immaginario visivo troppo legato al presente. Era come se, in mezzo a un mondo analogico, si stagliasse un volto che conosce TikTok: una dissonanza sottile ma sufficiente a incrinare la sospensione dell’incredulità. La serie, che aspirava a restituire l’imperfezione vibrante e la fisicità granosa di un’epoca dominata dal vinile e dall’analogico, finiva per imbattersi in un ostacolo inatteso: l’irruzione di un’estetica nata nell’era dei filtri. Una dinamica simile si è verificata con Lily James nel film Pam & Tommy. L’attrice, trasformata grazie a trucco e prostetici per incarnare Pamela Anderson, è stata celebrata per la straordinaria somiglianza. Eppure, a un occhio attento, restava qualcosa di eccessivamente pulito, di levigato: lo spettatore percepiva la cura chirurgica del dettaglio, l’assenza di quelle micro-imperfezioni che costituivano il fascino viscerale della Anderson originale. In questo senso, James è apparsa quasi come un avatar generato da un filtro di precisione estrema, più che come un corpo vissuto negli eccessi e nelle contraddizioni degli anni Novanta. Ancora una volta, la cultura visiva contemporanea interferiva nella rappresentazione del passato, facendo emergere l’impronta dell’iPhone Face anche laddove si cercava fedeltà storica. Non si tratta, tuttavia, di un fenomeno che riguarda esclusivamente la rappresentazione di epoche passate.


Amalia Ulman. Excellences & Perfections (Instagram Update, 1st June 2014) (2015). Cortesia dell’artista e Deborah Schamoni.

A volte, l’effetto è ancora più paradossale: il caso di Nicole Kidman in Big Little Lies e in successive produzioni televisive ha suscitato dibattiti accesi. Il volto dell’attrice, segnato da interventi estetici che ne hanno modificato l’espressività, è stato percepito da alcuni critici come un ostacolo alla credibilità drammatica. Quando il corpo dell’attore diventa superficie troppo levigata, perde quella capacità di trasmettere l’emozione nella sua interezza. E qui si apre una riflessione ulteriore: l’iPhone Face non solo omologa i tratti, ma rischia di indebolire la forza stessa della recitazione, privando il volto della sua gamma emotiva più sottile. Eclatante, in questo senso, fu anche l’apparizione pubblica di Zac Efron nel 2021, durante una campagna per la Giornata della Terra. Il suo volto, improvvisamente trasformato da una mascella più marcata e da zigomi gonfi, divenne oggetto di un’ossessione mediatica: migliaia di commenti, meme e analisi estetiche invasero la rete. Non importava che si trattasse di un intervento chirurgico, di un effetto collaterale o di una semplice percezione alterata; ciò che contava era la percezione collettiva di un volto fuori posto, troppo vicino all’estetica artificiale dei filtri. Anche in assenza di un ruolo attoriale, l’immagine di Efron testimoniava quanto l’iPhone Face sia divenuto una lente attraverso cui giudichiamo ogni volto pubblico. Da questi esempi emerge un dato evidente: l’iPhone Face non è soltanto un’etichetta critica, ma un fenomeno estetico in grado di modificare la nostra esperienza narrativa, la nostra ricezione culturale e perfino il nostro immaginario storico. Ciò che è percepito come fuori tempo o troppo levigato non è semplicemente una questione di make-up, ma la traccia di un intero regime visivo che plasma il nostro modo di guardare, riconoscere, desiderare.
In questo senso, il vero rischio non è che gli attori o le attrici appaiano troppo simili fra loro, ma che la nostra capacità di leggere la singolarità venga erosa dall’assuefazione all’omogeneo. L’iPhone Face, diventato maschera collettiva, rischia di appiattire l’immaginario, riducendo la gamma delle possibilità espressive. Ma proprio nel riconoscerne la forza normativa, possiamo cominciare a rivendicare un altro sguardo: uno sguardo che celebri il dettaglio fuori posto, la ruga imprevista, la piega che non coincide con il filtro. È lì che il volto torna a essere non algoritmo, ma racconto: non un pattern, ma la testimonianza irriducibile di una vita vissuta.

Letture
  • Malek Benamor, Stefana Luca, Jed Bouguila, Oxana Madalina Grosu, Bianca Maria Avadani, Dan Cristian Moraru, Mihaela Pertea, How Do Artificial Intelligence, Social Media Platforms and Photo Editing Applications Influence Cosmetic Surgery Choices—Literature Systematic Review and Prospective Study, Cosmetics, vol. 11, n. 3, 2024.
  • EngageMinds Hub – Consumer, Food & Health Research Center, Università Cattolica del Sacro Cuore (Campus di Cremona), Gli italiani e la bellezza: 1 su 2 usa cosmetici, 1 su 3 pensa a interventi di chirurgia estetica, Rapporto, Cremona, 2025.
  • Asha Prakash, Doc, I want to look like my selfie, Times of India, 11 agosto 2025.
  • Will Storr, Selfie: How We Became So Self-Obsessed, Picador, Londra, 2020.