La tentazione irrinunciabile
a una certa idea di sé

Susan Sontag
La coscienza imbrigliata al corpo.
Diari e taccuini 1964-1980
a cura di David Rieff

Traduzione di Paolo Dilonardo
Nottetempo, Milano, 2019
pp. 600, € 25,00

Susan Sontag
La coscienza imbrigliata al corpo.
Diari e taccuini 1964-1980
a cura di David Rieff

Traduzione di Paolo Dilonardo
Nottetempo, Milano, 2019
pp. 600, € 25,00


Il profilo sagomato, le bizze di un ciuffo d’argento tra i capelli scuri, nello sguardo un’ombra, il mento sollevato da una mano ossuta in una veglia raccolta e solitaria. Questo di Susan Sontag conosciamo. L’orientamento verso l’esterno, verso l’arte, la politica, la scienza, la cultura, le idee e gli eventi di un’intellettuale statunitense tra le più generose della seconda metà del secolo scorso, attivista, saggista trasversale, in particolare di letteratura e forma dell’immagine, scrittrice di romanzi, racconti, testi teatrali e cinematografici, formatasi tra Europa e America. Fin qui, l’identità pubblica.
Eppure, nella galleria delle sue foto, qualcosa rimane cifrato, lo sentiamo imperioso, qualcosa a metà strada tra il vedere e il non (voler) vedere, che per la Sontag, prima che per ogni suo lettore, fu un nodo da sciogliere, un dettaglio in sospeso, tacito e misterioso, come qualcosa dall’altra parte dell’anima. La sua coscienza. O almeno, l’intuizione della stessa. La coscienza imbrigliata al corpo. Diari e taccuini 1964-1980, è il secondo volume, dopo Rinata. Diari e taccuini 1947-1963, che la casa editrice Nottetempo ha ospitato nel suo catalogo. Progetto ambizioso, quello di Nottetempo, proiettato alla riedizione in italiano di tutti gli scritti della Sontag, incluso il prossimo terzo volume dei diari.

Pagine a lungo celate
Da un’idea, non poco combattuta, del figlio David Rieff, la pubblicazione di queste pagine, tra le più intime, prova a dare forma a una volontà materna solo congetturata, in assenza di ferme disposizioni in merito. Indicazioni mai pronunciate dalla scrittrice, nell’attesa sempre convinta di una remissione della leucemia che le tolse il respiro nel 2004. Pur avendo la connotazione di riflessioni puramente personali, dai dilemmi dell’adolescenza agli avidi interessi dell’età adulta, i diari, al pari delle foto di famiglia e dei ricordi dell’infanzia, accanto a cui avevano trovato posto in un armadio, incorniciano preziosamente il valore di una vita fatta di molti passi.

Le immagini di questo articolo sono lavori dell’artista Alex Katz.

Certo, per un figlio l’eredità di parole impreviste sgrana inevitabilmente la trama di un affetto intessuto con la cura dei non detti e delle circonlocuzioni più sfumate rispetto a ciò che dire si può solo a metà.
Un’incursione tra i silenzi, che nega riservatezza particolarmente a quell’omosessualità mai respinta, ma neppure mai confessata apertamente, di cui la Sontag fece esperienza molto giovane. Forse Susan, il coraggio di ammettere il resto di sé, l’avrebbe trovato solo al confine della sperata guarigione. Forse di questo suo avvitarsi scrupoloso quanto doloroso intorno alla propria identità, mai ne avrebbe dato prova al di fuori delle sue confessioni. Ma oggi noi abbiamo la fortuna di essere qui, con questo volume fitto tra le mani, probabilmente neanche destinato ai nostri occhi, a sperare in un sollievo tutto suo, in un sollievo tutto nostro, in una coscienza incollata, e non imbrigliata, al corpo, senza la sventura (o ventura) di angoli sbilenchi. “Di una sola cosa sono certa: se non avessi avuto David, l’anno scorso mi sarei uccisa”. Il tentativo dei diari è raggiungere una certa consapevolezza di sé da parte della scrittrice, ecco perché non si può non partire dai multipli e mutevoli legami affettivi da lei stabiliti, in una dipendenza quasi predatoria e con cui fare i conti in questi scritti.

Legami famigliari
Sopravvivere è vivere al di sopra di un dolore innato e tutto interiore, inesplicabile e macrocosmico, che Susan prova a esorcizzare nell’euforia desolante di sentimenti sempre fortemente sbilanciati. David, il figlio dell’unico matrimonio della scrittrice, quello con Philip Rieff, a diciassette anni, il bambino dalle guance dolci, sarà la prima e più irrefutabile forma di sopravvivenza messa in atto oltre e contro la voracità di qualsiasi dolore personale. David è per Susan “la certezza di essere necessaria, amata, e indispensabile”, è la promessa, mai mantenuta, di un’autonomia affettiva che non sconfini nel possesso, nell’identificazione disfunzionale, nell’inclinazione corsara di nominarsi vicaria della vita del figlio. Eppure il terrore di non essere più dentro quel vincolo prende spazio con il divorzio e la lotta per l’affidamento di David.

L’omosessualità di lei, brandita come arma diffamatoria da parte del marito, macera Susan nella sua vulnerabilità. Vulnerabilità doppia, di donna e madre. Vulnerabilità doppia, di amore e senso di colpa. Il dolore di sé si amplifica nella dismisura di un “sola, sola, sola” (Sontag, 2018), rivendicato e rigettato nella stanchezza del cuore, nel ricordo di un’infanzia condannata, la propria, che avrebbe meritato un risarcimento in quella del figlio. Piuttosto David si identifica puntualmente nella richiesta di un credito dalla vita, che non sempre arriva, in un’assenza di fortuna moltiplicata per due, in una riserva di aspettative, fiducia, ammirazione che sa di consegna dei propri anni a chi ne avrebbe potuto fare qualcosa di nuovo. Proprio come avvenuto per questi diari.

Ruoli e inquietudini
L’esitazione di essere madre si riannoda all’irresolutezza di essere stata figlia. “Mia madre”, in entrambi i diari, è espressione che si avventura puntualmente nel fondo di riflessioni cupe verso chi ha oppresso Susan con la sua distanza emotiva, con un presente greve, con un sole basso, con la tirannia della sua infelicità, troppo grande per fare spazio a una voce di accoglienza e cura materna. La coscienza di sé prevede innanzitutto il bilancio di quel legame madre-figlia che fa da premessa a qualsiasi altro e ne detta l’esito. Una madre “fuori servizio”, quale la sua, unisce a sé Susan nella paura. Paura di non essere mai abbastanza o essere troppo, soprattutto nell’amore, paura dei propri bisogni, della propria rabbia, paura di essere centro per altri, all’infuori di quel legame che non fonda sulla condiscendenza il proprio statuto, quanto sulla minaccia sotterranea e paventata che qualcuno abbandoni il gioco delle parti, lo ribalti, rivendichi il ruolo meritato: Mildred, di madre, Susan, di figlia, senza innaturali viceversa. La salvaguardia personale allora passa per applicare lo schema appreso in famiglia a ogni affetto a cui Susan tenga.

“Vedere il dolore degli altri che induce alla pietà, (il desiderio compulsivo di diventare l’infermiere, il custode, il benefattore di qualcuno) che alla fine induce a sentirsi oppressi, in trappola, a desiderare di fuggire da quella relazione”.

Farsi più piccola, schiacciarsi quasi, perché gli altri non la guardino, non si accorgano di quella infanzia risoltasi tra tapparelle calate e aroma di alcool, tra le braccia ausiliari della bambinaia Rosie, disagio che pure esplode nell’abitudine compulsiva a torturarsi le unghie, nei sintomi di un’asma anomala, nella rinuncia all’ordinario, ai sentimenti tenaci, alla sessualità, all’autostima, alla stessa fragilità. Da questa definizione illusoria di amore filiale, Susan all’inizio apprende la distanza dai corpi, per evitare di incappare in un contatto fisico sentito inopportuno, come quello con sua madre. “Ma di certo non avrei rinunciato alla cosa più importante, la mia mente”, il solo varco per appropriarsi della densità delle cose, assegnare loro un posto da qualche parte.

La contropartita è una mente che procede insaziabile, trascinandosi dietro l’ombra del corpo, con le sue istanze negate, compresse, inascoltate. La conseguenza, una mappatura di separazioni, da sé stessa e dagli altri, per molti versi più deboli, per altri, più forti. “Ho passato tutta la vita ad andar via” (Sontag, 2016), ammetterà con amarezza tra un “espatrio” e l’altro. Allora, l’impegno resta quello di aspettarsi il meno per non dover rimpiangere il di più non arrivato, è valutare, prevedere, cautelarsi da imprevisti, sorprese, contrattempi insospettati. Perché l’autodifesa interviene dove la mente non solo non basta, ma costruisce e demolisce minacce che fanno male in tutto il corpo, dove meno si presta ascolto. Del resto, consola un senso di padronanza della mente, quel qualcosa che non può tradire, non può fuggire mentre ci si volta dall’altra parte, come sperimentato più volte dalla scrittrice sotto la voce del verbo “amare”. Nulla sembra cambiato in merito, tra il primo volume e il secondo dei diari. L’intellettualismo, quello strano sintomo di chi pratica male il cuore, definisce in entrambi gli scritti una bambina mai adulta, e forse neanche mai bambina per davvero, bersaglio facile di cupissime afflizioni sentimentali e spropositati entusiasmi di vicinanze. Il vantaggio dell’intelligenza non è mai troppo chiaro, e Susan lo paga proprio così, per accumulo di finali sospesi tra braccia sempre nuove. Braccia di donne, soprattutto.

“L’avvento di Irene nella mia vita ha segnato la svolta decisiva. Lei mi ha iniziato a un’idea che mi era profondamente estranea […] l’idea di vedere me stessa”.

María Irene Fornés, drammaturga cubano-americana, fu amante e poi compagna della scrittrice dal 1957 al 1963, tra Parigi e New York, in un’intesa quasi perfetta tra nervosi, disperazioni a vario titolo e una certa illusione d’eternità. Conseguita la quale, il resto fu tutto in picchiata libera. Il suo nome suona nei diari il più forte tra quelli di Philip, Harriet, Carlotta, e qualche altro sparso tra le righe e non sempre delimitato dal netto confine tra amicizia o passione. Nomi a cui Susan dichiara sistematicamente la radicalità dell’amore e della dipendenza supplichevole, il baratro della rinuncia e della follia, il riscatto e il ricatto di sé, l’accanimento più snervante, il rinfaccio oltre misura, i mille modi di dirsi addio.

Nello snodarsi di dettagli privati, emerge però una premessa di salvezza in cui il cuore vanta la sua rivincita e scansa in un angolo la mente “Sono così grata alle donne, che mi hanno dato un corpo”, perché è nel trasporto verso le donne che Susan impara l’accettazione delle sensazioni fisiche a dispetto di ogni decorporeizzazione passata. Eppure, “amare = la sensazione di vivere in una forma più intensa” si coniuga molto meglio a nomi di grandi attori, musicisti, scrittori, filosofi, registi, sceneggiatori, pittori disposti l’uno dietro l’altro in liste compulsive, in annotazioni perseveranti, perché sono queste le persone che “proteggono dalla disperazione, dalla sensazione che al mondo non ci sia niente di meglio di ciò che vedo”. In questa condanna non risparmia il liberalismo, il comunismo, le grandi fedi contestate dalle imprudenze infedeli dell’esercizio di potere, quale l’esperienza in Vietnam. Luogo che la Sontag pure visitò per due settimane nel 1968, nel pieno di una guerra con il suo ingiustificato dolore senza numi.
Quale possibilità rimane a favore di Susan Sontag tra le varie date di questa seconda raccolta di diari? La scrittura come riparazione di un disordine tutto interiore. La consegna a un destinatario lontano di una certa idea di sé, una coscienza di sé, smarginata, sfinita, imprecisa, ma pur sempre impietosamente lucida e imparziale. Privilegio di pochi coraggiosi, con un destino sleale.

“Sento ancora una volta, e me ne rallegro, che non sono impegnata a morire, sono ancora impegnata a nascere”.

Letture
  • Susan Sontag, Odio sentirmi una vittima. Intervista su amore, dolore e scrittura con Jonathan Cott, il Saggiatore, Milano, 2016.
  • Susan Sontag, Rinata. Diari e taccuini 1947-1963, Nottetempo, Milano, 2018.