In un’epoca in cui l’artista è obbligato a raccontarsi prima ancora di raccontare, i Sault si sono imposti come una delle creature più sfuggenti, radicali e potenti del panorama musicale contemporaneo. La loro intera esistenza è un gesto controculturale, un rifiuto netto del culto dell’immagine e della spettacolarizzazione del sé. Nessuna conferma ufficiale sui membri, nessuna biografia, solo una catena di album pubblicati con precisione chirurgica tra il 2019 e il 2025. Ma più che un vezzo o un’operazione di marketing alla Daft Punk, il mistero dei Sault è linguaggio, ideologia, forma che diventa sostanza. Perché Sault è un progetto politico, e non perché urli slogan o faccia propaganda, ma perché propone un’alternativa radicale all’attuale modo di produrre, consumare e concepire la musica. I Sault rifiutano la retorica dell’individuo geniale, dell’ego ipertrofico, del brand personale e scelgono l’anonimato come spazio di libertà e come forma di resistenza. La scelta di non apparire non è solo estetica, è una forma di rifiuto del consumo immediato. Niente Instagram o Tik Tok, niente algoritmi da soddisfare. Solo musica, fatta per chi ascolta davvero, perché chi ascolta davvero sa che c’è qualcosa di più grande dietro quei suoni, un’idea comunitaria, una spiritualità diffusa, una rabbia che non si grida ma che si trasmette. Come energia.
I Sault pregano. Con la musica. Con i bassi che vibrano sotto la pelle, con le voci sgranate che sembrano uscire da un altare invisibile, con i silenzi pieni come cattedrali. In un’epoca in cui l’arte è packaging, i Sault rifiutano la confezione. Nessuna promozione, nessuna identità visibile, nessun volto da adorare. Eppure, o proprio per questo, la loro musica è diventata sacra per migliaia di ascoltatori.
Il collettivo britannico – che ruota attorno alla figura del produttore Inflo (il nickname di Dean Josiah Cover) uno di quelli che ha costruito il successo degli esordi di Little Simz, ma anche figura centrale nei lavori di Michael Kiwanuka e Cleo Sol – non ha mai cercato visibilità, ma significato. E lo ha trovato fondendo radici africane, spiritualità nera e un’idea comunitaria della creazione artistica. Nei loro dischi non si entra per curiosità, ma per necessità e non si ascoltano come una playlist ma si attraversano. Come un rito.
Fin dai primi lavori i Sault hanno fatto della spiritualità uno dei loro principi. Ma si tratta di una spiritualità complessa, non dottrinaria, che mescola il gospel, le radici yoruba, la Bibbia dei poveri e il culto della sopravvivenza nera. La loro musica è piena di cori che sembrano usciti da una chiesa battista del Sud, ma anche di invocazioni che si perdono nella notte africana. In Untitled (Black Is) il brano Miracles canta la possibilità della rinascita come un inno silenzioso “God is on your side/He’s with you/Walk tall”. Eppure non si tratta di un’adesione religiosa tradizionale. La loro è una teologia del margine, una fede costruita nei vicoli e nelle cucine, nei campi e nei centri sociali. È l’eredità di chi ha pregato per uscire vivo dalla storia. Nei dischi più recenti – Untitled (God) su tutti – il discorso si fa ancora più mistico: la voce è spesso un sussurro, un mormorio divino, una chiamata interiore. E la religione diventa suono. Ed è, la loro, una spiritualità mai dissociata dalla condizione materiale perché la loro arte è intrinsecamente politica e affonda le sue radici nella tradizione nera più radicale, da Gil Scott-Heron a Fela Kuti, da Curtis Mayfield a Lauryn Hill. I loro testi sono invocazioni e denunce, preghiere e proclami. Parlano della brutalità della polizia, delle disuguaglianze sistemiche, della cancellazione culturale. Ma senza vittimismo. Il tono è fiero, sobrio, consapevole. Più Toni Morrison che CNN.
In Wildfires da Untitled (Black Is), uno dei loro brani più famosi, la voce – forse quella di Cleo Sol – canta “Don’t shoot/Guns down/I see police brutality”. Non è uno slogan ma un’epigrafe. Il pezzo scorre come un lamento moderno, uno spiritual digitale. Eppure non c’è solo dolore, c’è speranza, guarigione, come nella grande tradizione afroamericana. E poi i Sault non sono etichettabili. Non hanno un genere, e non per virtuosismo o modernismo, ma per fedeltà alla propria storia. Perché la loro musica è diasporica nel senso più autentico del termine. È una musica migrante, contaminata, meticcia. In un solo brano si può passare da un beat afro-funk a un coro soul, da una spoken word, dritta come una lama, a un groove reggae, da una psichedelia à la Rotary Connection a un minimalismo ritmico degno di Steve Reich.
Nel loro universo convivono: il funk militante dei Funkadelic, il gospel secolare di Mahalia Jackson, le percussioni ipnotiche dell’afrobeat nigeriano, l’R&B rarefatto di Solange, il dub di Lee Perry, il jazz modale intriso di soul e persino echi di hip-hop che ricordano i beatmakers della scuola di Dilla e Madlib. Questa complessità sonora è sempre messa al servizio di un’emozione, di una necessità. Non c’è mai ostentazione. C’è piuttosto una sapienza collettiva che sembra attingere da archivi nascosti, da vinili dimenticati, da canti che non sono mai stati registrati. E questa sapienza trova in Inflo un vero sciamano del suono, un produttore capace di cucire insieme elementi distanti senza mai perdere il filo della narrazione.
Ma forse il vero colpo di genio dei Sault è proprio ciò che manca. L’assenza. Nessuna identità. In un’epoca in cui tutto è accessibile, la loro inaccessibilità li rende unici. Il silenzio è il loro manifesto. E non è un vezzo. È una critica strutturale al modo in cui oggi la musica viene divorata. Loro scelgono il tempo lungo, la ritualità, la discrezione, l’ascolto profondo.
Nel novembre del 2022 hanno fatto un gesto che è passato quasi inosservato, ma che dovrebbe essere inciso nella pietra: hanno regalato cinque album in una sola volta – 11, AIIR, Earth, Today & Tomorrow, Untitled (God) – disponibili solo per cinque giorni. In un mercato in cui ogni secondo è monetizzabile hanno scelto il dono. È stata una mossa radicale, inaudita. Più punk dei punk. 11 è forse quello che più mette a nudo la dimensione emotiva e terrena dei Sault. Se Earth abbraccia l’afrobeat e Today & Tomorrow il funk più incendiario, 11 suona come un diario segreto lasciato aperto sul tavolo della cucina.
Le atmosfere sono intime, quasi sussurrate, con arrangiamenti che prediligono il calore dell’analogico e la morbidezza di groove lenti, notturni. In 11 la spiritualità dei Sault si fa domestica: non il canto corale in chiesa, ma la preghiera solitaria prima di dormire. I brani oscillano tra soul vellutato e R&B meditativo, con chitarre calde, archi discreti e linee vocali che sembrano accarezzare più che dichiarare. Un disco di relazioni, resiliente, in cui l’amore – in tutte le sue forme – diventa strumento politico silenzioso. Non ci sono proclami anche se la lotta è presente ma tradotta in una forma più intima. 11 dimostra che il collettivo non ha bisogno di alzare la voce per colpire: può farlo anche a bassa voce, scegliendo il minimalismo come linguaggio di potere. E forse, nella loro discografia, è l’album che più rivela l’umanità che si nasconde dietro il mistero.
In tempi più recenti sono stati pubblicati altri due album: Acts Of Faith nel 2024 e 10 nel 2025, qualche mese fa. Entrambi incarnano la tensione sofisticata dei Sault fra anonimato e uditorio devoto, due distinte declinazioni della loro militanza spirituale e artistica. Acts Of Faith è stato anticipato da un’unica performance a Londra nel dicembre 2023, una vera liturgia live più che un concerto. Pubblicato per la prima volta come unica track in formato WAV il 6 luglio del 2024 e approdato sui servizi streaming il 25 dicembre dello stesso anno, il disco è composto da nove brani che si fondono senza soluzione di continuità. L’album è un flusso emozionale di R&B, soul, gospel, jazz e influenze classiche, sostenuto da arrangiamenti molto coinvolgenti. Temi come l’amore, la guarigione e la pace interiore permeano ogni traccia del disco. 10 è stato pubblicato il 19 aprile scorso, durante il weekend di Pasqua, un altro momento simbolico che rafforza l’idea di un’incisione chirurgica nella loro estetica. Il lavoro è costruito su temi legati alla guarigione e alla sopravvivenza.

La voce centrale è quella di Cleo Sol affiancata da collaboratori illustri come Chronixx, la star del reggae del nuovo millennio, il bassista Pino Palladino e il pianista NIJE. Il suono spazia dal funk all’R&B con venature disco (echi di Donna Summer). Variety lo ha definito “il loro disco migliore, o almeno il più accessibile degli ultimi anni”. I Sault sono tutto quello che la musica dovrebbe tornare a essere: collettiva, necessaria, misteriosa, politica, spirituale. La loro invisibilità è una forma di potere – non sono gli unici, Kenny Dixon Jr, aka Moodymann, il DJ di Detroit coltiva le stesse abitudini o strategie – la loro coerenza è una forma di resistenza. La loro musica è un altare laico su cui ognuno può portare il proprio dolore, la propria storia, la propria sete di liberazione. E se oggi nel caos dei feed ti capita di sentire un brano dei Sault e di fermarti allora vuol dire che qualcosa sta funzionando. Vuol dire che il mistero non è solo una strategia ma un atto di fede. E come ogni atto di fede non chiede di capire, ma di credere. E di ascoltare.
- Sault, 5, Forever Living Originals, 2019.
- Sault, 7, Forever Living Originals, 2019.
- Sault, Untlitled (Rise), Forever Living Originals, 2020.
- Sault, Untlitled (Black Is), Forever Living Originals, 2020.
- Sault, Nine, Forever Living Originals, 2021.
- Sault, Earth, Forever Living Originals, 2022.
- Sault, 11, Forever Living Originals, 2022.
- Sault, Untlitled (God), Forever Living Originals, 2022.
- Sault, Today & Tomorrow, Forever Living Originals, 2022.
- Sault, Air, Forever Living Originals, 2022.


