Il pianeta delle ceneri e quello di celluloide: Auschwitz e il fantacinema di Guido Vitiello

 

 

La strada che porta ad Auschwitz è una comune strada di campagna. Dai finestrini del pullman sfilano immagini che non desterebbero tanta inquietudine se non fosse che la meta del nostro viaggio investe della sua nera luce tutto quel che vediamo lungo il tragitto. Insegne di Radio Maryja, l’emittente passata alle cronache per i suoi spropositi antigiudaici e per le schiumanti omelie del padre redentorista Tadeusz Rydzyk; mercatini all’aperto dove non è raro trovare stampe e quadri figli di un odio antico, che ritraggono rabbini intenti a contar monete d’oro; perfino, qua e là, memorabilia dell’epoca nazista – croci di ferro e mostrine, aquile metalliche artigliate a una svastica. E ancora, campi verdissimi su cui stanno chine anziane contadinotte tozze e infagottate – le abbiamo viste in tanti film, intente al loro lavoro mentre sopra le loro teste sfilavano convogli di tutt’altro genere, per un viaggio di sola andata.

Giunti alla meta, ci assale subito un’evidenza lampante: è impossibile, ormai, vedere Auschwitz per la prima volta, con occhi vergini. Nemmeno facciamo a tempo a varcare l’ingresso che già ci si affollano davanti agli occhi, quasi a interporsi tra noi e la percezione del momento presente, le mille immagini già viste in film, documentari, fotografie, le mille descrizioni lette in tanti romanzi, diari, testimonianze, opere storiche. Ma il cartello Arbeit macht frei era davvero così piccolo? Perché allora nei film sembra così imponente? E le latrine, a Birkenau? Com’è possibile che in Schindler’s List i bambini vi si calassero per usarle come nascondigli, con questi fori così angusti?

Auschwitz è ai nostri occhi un luogo sinistramente familiare. Non recupereremo mai nemmeno un briciolo di quella sensazione così ricorrente nei resoconti dei sopravvissuti: la sensazione di esser stati balestrati in un altro mondo, alieno e irreale, un mondo retto da leggi proprie e indecifrabili, un mondo affatto irriducibile a quello dell’esperienza ordinaria. Stranieri in terra straniera, per citare il maestro della fantascienza Robert A. Heinlein.

Quando a Gerusalemme, durante il processo contro il supremo burocrate dello sterminio Adolf Eichmann, mostrarono a Yahiel De-Nur il pigiama grigioazzurro degli internati, questi non ebbe tentennamenti: È la divisa del pianeta Auschwitz. L’ex deportato, divenuto poi scrittore con il non-nome di Ka-Tzetnik 135633 (il suo numero identificativo ad Auschwitz), proseguì con una speculazione cosmologica che è insolito trovare tra gli atti di un processo: Credo con assoluta certezza che, proprio come in astrologia le stelle influenzano il nostro destino, così questo pianeta delle ceneri, Auschwitz, è in opposizione al nostro pianeta terra, e lo influenza.

Dobbiamo al romanziere israeliano David Grossman una notazione finissima:

Ho notato che quando gli ebrei parlano della Shoah, dicono quello che è successo laggiù, in qualsiasi lingua si esprimano. Quando a parlare dell’olocausto sono i non-ebrei, essi dicono quello che successe allora, in quei giorni. Penso che questa differenza sia importante e significativa perché per noi, stranamente, è come se quel periodo e quel luogo esistessero ancora, laggiù, in modo simultaneo e parallelo rispetto alla nostra realtà odierna e quotidiana.[1]

Un mondo parallelo, che interferisce con il nostro e da cui promanano radiazioni letali. Dunque l’equivoco del mio amico Marc sullo Jedi non era così peregrino; dunque la mia reminiscenza spielberghiana era forse meno sciocca di quel che pensassi. La fantascienza, mi sono detto, ha più di una freccia al suo arco per rendere una delle qualità che più ostinatamente ricorrono nella letteratura concentrazionaria: quella che in inglese si chiama otherworldliness. A ben vedere, molti grandi classici della letteratura su Auschwitz, così come molte opere minori, sembrano inclinare irresistibilmente alla fantascienza, o quanto meno adoperano le armi del fantastico per descrivere un mondo situato al di là dell’esperienza ordinaria, al di là della facoltà umana di immaginare. Non è forse fantascienza in nuce un romanzo-testimonianza come Badenheim 1939 di Aharon Appelfeld? E che dire di W, ou le souvenir d’enfance di Georges Perec? A che cos’altro tende, se non alla fantascienza, Time’s Arrow di Martin Amis? E il surreale Uccello dipinto di Jerzy Kosinski? E il “mondo di pietra” di Tadeusz Borowski, non è forse un’inabitabile contrada lunare, sorvegliata da un dio sardonico? Ed è forse un caso che Piotr Rawicz concluda Il sangue del cielo assicurando che la storia narrata avrebbe potuto svolgersi nell’animo di qualunque uomo, pianeta, minerale?

La grande letteratura sui campi – fin dal David Rousset dell’Universo concentrazionario, forse – ha una parentela con i modi del fantastico e della fantascienza più larga di quel che si creda. Non altrettanto si può dire del cinema. Certo, gli anni Sessanta e Settanta hanno visto fiorire molti incubi fantapolitici popolati di nazisti – basti pensare al leggendario (e oggi comicissimo) B-Movie They Saved Hitler’s Brain di David Bradley o a I ragazzi venuti dal Brasile di Franklin J. Schaffner, o perché no all’Ingmar Bergman dell’Uovo del serpente. Ma quasi mai i Lager sono stati riletti in chiave apertamente fantastica o fantascientifica. Persino i comici, dal Jerry Lewis di The Day the Clown Cried al Benigni di La vita è bella, hanno varcato i cancelli di Auschwitz: non i maestri della fantascienza.

 

 


 

[1] D. Grossman, La memoria della Shoah. Intervista di Matteo Bellinelli, Casagrande 2000, pagg. 19-20.

 

    [1] (2) [3]