Le cose sull’origine del mondo
svelate dal  Signore della Luce

 

di Roberto Paura

 

 

Quando Roger Zelazny scrisse nel 1967 il suo Lord of Light (Signore della Luce) che l’anno successivo avrebbe vinto il premio Hugo, molto probabilmente doveva avere nella mente quella nota frase attribuita a Feuerbach secondo cui «il Dio dell’uomo è l’uomo». E, come ogni scrittore che si rispetti, deve aver pensato che concretizzare quell’idea e osservarne gli sviluppi sarebbe stata ottima materia per una storia di fantascienza. Signore della Luce è un’opera sull’Uomo e su Dio, anzi sugli Dei o meglio ancora sul “sacro”. È stato scritto che il sacro in qualche modo implica potenza, e che chi detiene la sacralità ottiene potenza; i Primi uomini esuli dalla vecchia e scomparsa Terra che misero piede sul mondo di Signore della Luce decisero di costruirvi una società in cui essi sarebbero stati gli Dei e i dominatori in virtù di una sacralità derivante dalla scienza e dalle sue conquiste. Dei ex machinis nel vero senso della parola, come sentenzia il protagonista dell’opera, Sam[1].

Una religione il cui potere deriva dalla scienza è pressoché invincibile, ma perde il suo significato: perde la sacralità che ne è parte integrante, diventa mera tirannia della superstizione. Per tale motivo Sam, il Buddha, decide di intraprendere la sua “crociata” (se ci si passa il termine) contro gli Dei per riconquistare quel sacro che è andato perduto e restituire all’Uomo ciò che è dell’Uomo e al divino ciò che è del divino.

Zelazny fu un appassionato ed un esperto di mitologia, ancor prima di essere un appassionato e uno scrittore di fantascienza; in molte delle sue storie ha fatto uso di una particolare mitologia che gli è servita per veicolare un significato ben preciso: quella greca in Io, Nomikos, l’immortale (1968), quella egizia in Creature della luce e delle tenebre (1969), addirittura quella degli Indiani d’America in Eye of Cat (1982). Tutti romanzi posteriori a Signore della Luce, come si vede. Il desiderio di mettere in scena il variegato e complessissimo pantheon induista in questo romanzo può stupire, ma Zelazny aveva le idee chiare in proposito: «Una delle ragioni per cui ho scelto l’Induismo [in Signore della Luce] era perché non era stato usato molto nella fantascienza… Stavo cercando qualche sorta di tradizione filosofica che potesse giustificare l’uso di certe forme di reincarnazione e trasmigrazione»[2].

L’interesse di Zelazny verso l’idea di morte è un altro leit-motiv nella sua produzione, che in Signore della Luce assume un significato particolarmente importante: è infatti la dissacrazione della morte, perpetrata dalla Teocrazia della Trimurti, che secondo Sam va abbattuta. Ci troviamo infatti per la prima volta nella storia con una religione che non fa più del mistero della morte la sua ragion d’essere. In Signore della Luce le anime degli esseri umani hanno tre strade davanti a loro dopo la morte: la trasmigrazione dell’anima del corpo di un altro essere vivente, uomo o animale; la “vera morte” e la perdita della propria anima insieme alla vita (che avviene solo in rarissime circostanze perlopiù accidentali); la fusione nel Nirvana, che qui si scrolla di dosso la sottigliezza mistica e assume forma fisica: il Nirvana è il “Ponte degli Dei”, la nube elettromagnetica che avvolge il pianeta e nella quale vengono trasmesse grazie a potenti macchinari le anime (le “informazioni”, potremmo dire in linguaggio tecnico) dei morti.

Il processo della trasmigrazione avviene allorquando il soggetto compie i sessant’anni: i sacerdoti dei Templi, su istruzione degli Dei, azionano gli avveniristici macchinari che permettono di sondare la psiche del candidato e pesarne le azioni negative e quelle positive; quindi avviene il passaggio dell’atman dal vecchio corpo al nuovo corpo, umano e di casta più elevata per chi ha seguito la via della rettitudine, animale e destinato a una dura vita per il miscredente. I fedeli reincarnati conservano però, in una certa misura, il ricordo delle loro vite precedenti e conoscono il destino che li attende qualora il loro karma sia negativo. Non si sfugge all’ineluttabilità del destino, perché dopo la morte c’è solo la vita, quindi la morte e di nuovo la vita in eterno. L’angosciante quesito esistenziale su ciò che attende l’uomo dopo la morte non ha più senso. Quella di Signore della Luce «non è soltanto l’unica religione… è la religione rivelata, obbligatoria e spaventosamente dimostrabile»[3]. L’ateismo non ha senso perché non ha senso la domanda sull’esistenza/inesistenza di Dio: in un mondo in cui il divino si può in ogni momento manifestare agli uomini e in cui la sopravvivenza alla morte non è un dogma di fede ma una verità empirica non c’è spazio per i non credenti. La sacralità dell’anima viene meno: «L’Induismo tradizionale non ha il beneficio del ricordare le vite precedenti, né del vedere qualcuno con un nuovo corpo esibire le stesse caratteristiche psicologiche della persona che è stata appena reincarnata. Queste sono prove tangibili dell’esistenza di qualche essenza insita indipendente dal corpo»[4].


[1] Roger Zelazny, Signore della Luce, ed. Mondadori 2006, p. 20.

[2] A Conversation With Roger Zelazny, di Terry Dowling e Keith Curtis, da “Science Fiction” giugno 1978, ripubblicato su http://zelazny.corrupt.net/19780408int.html#2.

[3] Zelazny, op. cit., p. 78.

[4] Hinduism in Roger Zelazny’s Lord of Light, in http://zelazny.corrupt.net/LoLessay.html.

    (1)  [2] [3]