Soft Machine

Middle Earth Masters

Cuneiform

 

 





 

Middle Earth Masters di Soft Machine

 

Soft Machine & Cuneiform atto VII. La paziente opera di recupero di nastri inediti della band sembra non avere mai fine e – questo è l’aspetto incredibile – riesce a sorprendere, non scivolando mai in proposte inutili. Operazione mirabile se si considera che, in parallelo, in questi anni sono saltati fuori altri nastri, riproposte rimasterizzate delle sedute alla BBC e via di questo passo. Ora è il turno di esibizioni del 1967 al Middle Earth Club di Londra, all’epoca un tempio della psichedelia. La formazione si è ascoltata poco su disco (qualcosa nei due volumi di Turns On e cinque brani su Bbc Radio 1967-1971), e questo rende ghiotta l’occasione di ascoltare la versione in trio (Kevin Ayers, Mike Ratledge e Robert Wyatt), rispetto alla più nota – alla cerchia di appassionati, s’intende – formazione in quartetto (senza Ayers e con Hugh Hopper ed Elton Dean, quella del periodo 1970/71).

Sono quindi nastri che risalgono a una stagione precedente a quella dell’ultima uscita Cuneiform dedicata ai Soft Machine (vedi Quaderni d’Altri Tempi n.6) che proponeva lo storico quartetto in un concerto registrato nell’ottobre 1970 al Concertgebouw di Amsterdam e un dvd che riprendeva la stessa formazione – con Wyatt prossimo ad andarsene – negli studi di Radio Brema nel marzo 1971.

Rispetto ai nastri della Bbc di tre mesi dopo, qui il trio ha un sound decisamente più sporco, ruvido e appare immerso in un’attività di laboratorio per la messa a punta di suoni e soluzioni come si addice a degli autentici sperimentatori. Eloquenti le due versioni di I Should’ve Known (brano che con altro testo venne ribattezzato So Boot It e pubblicato nel primo album) giocate sul fitto e imprevedibile dialogo tra basso e batteria e sul funambolico scorrazzare dell’organo. In due tracce, in particolare, si dispiega tutta la forza creatrice della band, Hope for Happines, che rispetto alla versione in studio ha una durata quasi tripla, trasformandosi in una lunga improvvisazione, prima per voce (quella di Wyatt) e poi per organo che viene lanciato a mille da Ratdlege.

L’analisi chimica della tastiera è ancora più radicale in Disorganization. Dissonanze, rumore, timbri sconvolti: un’eruzione di suoni che abolisce distanze tra generi allora distanti, un’unica soluzione chimica che include il John Lord dei primi Deep Purple (quelli di Hush, per intenderci) e le escursioni solitarie all’organo di Sun Ra. Miracoli dell’epoca. Qui si chiarisce che il gruppo non visse una stagione pop e una jazz, ma maneggiò la materia sonora fino a renderla non di pertinenza di generi precodificati.

Grande musica che riesce a porre in secondo piano i limiti della registrazione, penalizzata da microfoni di bassa qualità e dal volume alto degli strumenti. Ne risentono le voci, spesso offuscate, con un parziale riscatto nella conclusiva ripresa di We Did It Again. Il prossimo capitolo della saga dedicata alla morbida macchina dalla Cuneiform proseguirà, a iniziare dalla ristampa di un album firmato da Hugh Hopper, Hopper Tunity Box, registrato nel 1977, in compagnia, tra gli altri di Elton Dean, Marc Charig e Gary Windo.


 

     Recensione di g.f.