J. G. Ballard,

Regno a venire

Feltrinelli, Milano, 2006,

pagg. 293

€ 17,50.

 

 

 





 
Regno a venire di J. G. Ballard


I mastodontici centri commerciali che si sono prima infiltrati e ora tendono a sostituirsi sempre più sistematicamente al panorama sociale dell’industrialismo come non luoghi che diventano luoghi per eccellenza, cattedrali laiche da cui promana la dottrina dell’intera vita contemporanea, incubatrici di consumismo e xenofobia.

Professionisti e specialisti delle vecchie e nuove professioni nevrotici e spaesati nella nuova geografia patinata dell’urbanizzazione distribuita della tarda modernità.

Rigurgiti di rituali e pratiche tribali, ataviche, riattualizzate dalla nuova condizione esistenziale e lavorativa del “popolo del millennio” appena cominciato.

La noia della vita quotidiana nel nuovo millennio che neanche il consumismo riesce più a fugare, per cui non bastano più né le droghe, né il sesso, e che si trasforma in “follia elettiva” – come la definisce uno dei personaggi del romanzo – rivolgendosi contro gli stranieri, le loro abitazioni, i loro negozi, in una edizione attualizzata dell’emergere del nazismo.

Questi alcuni degli elementi chiave  dell’ultimo romanzo di Ballard, un altro quadrante della mappa del futuro prossimo che lo scrittore inglese va costruendo già da qualche tempo (per rimanere alle sue esplorazioni più recenti, Super Cannes e Millennium People).

In questo caso, al fulcro della sua analisi è la forza cogente, di costruzione della realtà che ha tutto ciò che ruota attorno al marketing, alla pubblicità, alla promozione commerciale.

La descrizione di una vera e propria mutazione antropologica ulteriore, che segue quella dell’homo televisivus di cui parlano alcuni studiosi apocalittici, grazie alla sostituzione di un luogo virtuale – lo spazio definito dal telecomando e che si stende dal divano allo schermo – con un ex non luogo diventato reale: le arcate, i viali, gli spazi definiti dei centri commerciali, con il loro portato di desideri, aspettative, ambizioni – e quindi incubi, nevrosi, razzismo, violenza.

Come sempre, Ballard ci invita ad una esplorazione duplice, fisica e mentale, attraverso i territori definiti dai raccordi e dagli svincoli autostradali che conducono dalla città, attraverso i sobborghi ormai artificiali che la circondano, ai grandi centri del consumo di massa.

Cittadine – una volta satelliti della metropoli, oggi dependances dei luoghi del commercio/consumo – che perdono progressivamente qualsiasi legame con la vita associata tradizionale (centri sportivi, teatri, circoli, scuole, cinema) per diventare meramente luoghi dormitorio dei nuovi consumatori, soddisfatti solo quando possono andare a comprare.

Uno dei poli, il centro commerciale  di un percorso che conduce all’altra istituzione totale cardinale della tarda modernità: la discarica di rifiuti.

Ancora una volta, nella scrittura dell’autore inglese è possibile cogliere gli echi della riflessione sociologica più acuta e lucida di questo cambio di millennio: quella di Baudrillard, di Bauman, di Bruckner.

E forse qualcosa in più: lo scenario che disegna, in cui la violenza e il rischio del totalitarismo nasce dalla (imprevedibile?) fusione di tifo sportivo, coazione al consumo, rifiuto dello straniero, nello spazio che unisce centri commerciali e broadcasting televisivo in un rituale officiato da un attore pubblicitario di mediocre valore nell’Inghilterra immaginata da Ballard qui da noi, forse, assomiglia ad un film già visto, per ora fortunatamente abbastanza a lieto fine.


 

Recensione di Adolfo Fattori