BUSSOLE | QDAT 63 | 2016

 


LETTURE / CIO’ CHE NON POSSIAMO SAPERE


di Marcus du Sautoy / Rizzoli, Milano, 2016 / pp. 520, € 22


 

Critica della ragion scientifica


di Roberto Paura

 

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Gli scienziati sembrano avere idee diverse su quali siano i limiti della conoscenza. August Comte, tra i padri fondatori del positivismo, sosteneva nel 1835 che non ci fosse modo di conoscere la composizione chimica delle stelle, e che pertanto l’astronomia si sarebbe limitata per sempre allo studio dei moti celesti e poco più; l’invenzione dello spettroscopio smentì decisamente questa sua asserzione. Nel 1900, invece, Lord Kelvin si dichiarò assai più sicuro delle capacità della scienza: “Ormai in fisica non c’è più nulla di nuovo da scoprire. Tutto ciò che rimane sono misure sempre più precise”, dichiarò alla British Association of Science. Nel 1988 Stephen Hawking concludeva il bestseller per antonomasia della divulgazione scientifica, Dal Big Bang ai buchi neri, sostenendo che vi fossero “motivi di cauto ottimismo per supporre che oggi si possa essere vicini alla fine della ricerca delle leggi ultime della natura” (Hawking, 2015), cosa che avrebbe permesso di conoscere “la mente di Dio” (affermazione bizzarra in bocca a uno scienziato noto per il suo ateismo). Avrebbe fatto bene, Hawking, a ricordare che già nel 1812 Simon de Laplace si diceva sicuro che “un intelletto che in un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze che mettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggetti di cui la natura è composta (…) racchiuderebbe in un’unica formula i movimenti dei corpi più grandi dell’universo e quelli degli atomi più piccoli; per un tale intelletto nulla sarebbe incerto e il futuro proprio come il passato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi” (Laplace, 1987). Tutte queste affermazioni sono ricordate da Marcus du Sautoy nel suo ultimo libro Ciò che non possiamo sapere, per metterci in guardia tanto dalla tentazione di credere che la scienza sia prossima a conoscere tutto, tanto dal credere alle affermazioni di coloro che sostengono l’esistenza di cose che non potremmo mai sapere. Arthur C. Clarke, che di previsioni ne capiva, aveva coniato al riguardo persino una delle sue celebri “leggi di Clarke”, che recita: “Quando un illustre ma anziano scienziato sostiene che qualcosa è possibile, ha quasi certamente ragione. Quando sostiene che qualcosa è impossibile, ha quasi certamente torto” (Clarke, 1965).

Ciò detto, questo è forse il momento più adatto per l’uscita di un’opera così corposa come quella di du Sautoy, celebre per i suoi precedenti lavori di divulgazione sulla matematica, che resta il suo campo professionale, pur se ora affiancato dalla cattedra di Public Understanding of Science (ossia di comunicazione della scienza) a Oxford, occupata in precedenza da Richard Dawkins. Scienziato ai limiti dello scientismo, Dawkins probabilmente guarderebbe con scetticismo a un libro che già dal titolo enuncia l’esistenza di cose che non si possono conoscere. Eppure oggi più che mai inizia a farsi strada nella comunità scientifica questa convinzione forse un po’ pessimistica, che trova conferme nei più recenti sviluppi della fisica e della matematica. Du Sautoy affronta infatti sette tematiche (definite “confini”) che rappresentano gli attuali limiti della conoscenza scientifica: la teoria della probabilità e quindi la matematica del caos; l’infinitamente piccolo e la conoscenza di costituenti ultimi della materia; la fisica quantistica; la cosmologia; il tempo, l’entropia e il ruolo dei buchi neri; la coscienza umana; l’infinito in matematica e la rivoluzione di Gödel. 

Appare chiaro quindi che esistono branche della scienza dove invece non ci sono limiti alla nostra capacità di conoscenza: nella medicina per esempio, e in generale nella biologia (fatto salvo il problema dell’origine della vita); oppure nella chimica, almeno finché non scendiamo al livello dei costituenti sub-atomici. Ma d’altronde Ernest Rutherford era dell’idea che nella scienza “esiste solo la fisica; tutto il resto è collezione di francobolli”, per cui se esistono dei limiti, è lì che dovremmo andare a indagarli. Ebbene, la situazione oggi in questo settore non potrebbe essere meno allegra. Sono passati solo quattro anni dalla scoperta del bosone di Higgs, coronamento del Modello Standard, “il trionfo non celebrato della fisica moderna”, per usare il sottotitolo di un libro del fisico Robert Oerter (2008) dedicato alla storia dei continui successi nella scoperta delle particelle fondamentali; eppure tra chi si occupa di questi temi cresce un certo scoramento, per non dire una profonda inquietudine. Il Modello Standard in effetti sembra spiegare solo il 4% della realtà: il resto è composto dalla misteriosa materia oscura e da una ancor più misteriosa energia oscura che sembra contrastare l’attrazione gravitazionale; entrambi i fattori non sono previsti dal Modello Standard né spiegabili attraverso di esso. Semplicemente, non dovrebbero esistere. Eppure esistono, almeno così ci dicono numerose evidenze osservative. Per trovare una spiegazione, i fisici teorici si sono lambiccati il cervello per decenni, arrivando poi a costruire una portentosa cornice interpretativa definita “supersimmetria” che prevede l’esistenza di nuove particelle finora sconosciute, partner delle particelle previste dal Modello Standard ma dotate di massa superiore, per questo difficilmente individuabili se non nei potenti acceleratori di particelle come LHC al CERN di Ginevra. “Se la supersimmetria è un’ipotesi corretta, la vedremo presto confermata”, sosteneva rassicurante dieci anni fa Lisa Randall, una delle più celebri fisiche teoriche viventi (Randall, 2006). Ma da LHC non è giunta nessuna prova a sostegno di questa ottimistica asserzione. Un colpo durissimo perché questa teoria complessa ma elegante risolverebbe in un sol colpo sia il problema della materia oscura – composta di particelle supersimmetriche scarsamente interagenti con la materia ordinaria, pertanto invisibili ai nostri occhi – che quello dell’energia oscura – attraverso un meccanismo che “rinormalizza” il valore dell’energia del vuoto, considerato dagli scienziati il fattore scatenante dell’espansione accelerata dell’universo.

Non solo: la supersimmetria è anche alla base di quella che per decenni è stata considerata la candidata più promettente a “teoria del tutto”: la teoria delle stringhe (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 53). Nel 1996 il giornalista scientifico John Horgan, intervistando uno degli “stringhisti” di punta, Edward Witten, nel suo libro La fine della scienza, restituiva al lettore il quadro sorprendente di un uomo convinto fino al fanatismo della bontà di quella teoria, del suo “carattere prodigioso”, della sua “incredibile coerenza”, “eccezionale eleganza e bellezza” (Horgan, 1998). Witten ammetteva all’epoca che i fisici teorici e i matematici non fossero ancora arrivati a una piena comprensione della teoria delle stringhe, ma ne postulava la Verità – rigorosamente con la “v” maiuscola – con la stessa convinzione, ammetteva, di “uno che dice che il cielo è azzurro” (ibid.). Oggi, vent’anni dopo quell’intervista, la situazione resta più o meno la stessa, se non per il fatto che uno dei principali sostegni alla teoria delle stringhe, la supersimmetria appunto, non ha fatto ancora la sua comparsa nell’acceleratore di particelle LHC come ci si aspettava. “Quello che si è aperto con gli ultimi risultati di LHC rappresenta, per alcuni fisici teorici, uno scenario da incubo”, sintetizza brutalmente il fisico e divulgatore Peppe Liberti: “o non c’è altro da scoprire o, se c’è, non lo scopriremo probabilmente mai” (Liberti, 2016).

È proprio a questo punto che arriva du Sautoy. Seguendo il ragionamento alla base del suo libro, il fatto che alcune cose non si possano conoscere non dovrebbe sconvolgerci più di tanto, al punto da parlare di “fine della scienza”, come s’intitolava il libro di John Horgan, con cui quello di du Sautoy ha più di un punto in comune. Se l’inchiesta di Horgan alimentava la diffusa paura che la scienza si stesse avvicinando a un limite di comprensibilità, quella di du Sautoy si fonda sull’idea che, a partire dagli inizi del secolo scorso, la comunità scientifica abbia iniziato ad abituarsi all’idea che alcune cose non si possano affatto conoscere. La meccanica quantistica ci ha regalato il principio di indeterminazione e la consapevolezza che alcuni parametri di una particella non possano essere rilevati contemporaneamente, sancendo di fatto l’esistenza di una condizione meramente probabilistica della realtà alla scala subatomica. Non è la fine del mondo, anzi. Come spiegano bene Robert P. Crease e Alfred S. Goldhaber nel loro libro The Quantum Moment (tradotto in italiano con il titolo Ogni cosa è indeterminata), la visione della scienza emersa a partire dagli anni Trenta del secolo scorso è “decisamente più gradevole” della precedente: “La meccanica quantistica per esempio ha aiutato la filosofia a liberarsi dallo spettro di un ideale laplaciano di conoscenza, un’intelligenza abbastanza «vasta» da vedere e descrivere ogni cosa svincolandosi da un punto preciso del tempo e dello spazio; inoltre l’ha liberata dalla visione di una scienza unificata, da una concezione ristretta dei fenomeni e da un’idea impossibile di oggettività” (Crease e Goldhaber, 2015). Analogamente, spiega ancora du Sautoy, l’emergere della teoria del caos ha introdotto l’idea che non è possibile “conoscere il futuro di certi sistemi di equazioni perché sono troppo sensibili a piccole imprecisioni”. Anche questo non è un dramma: la teoria del caos ha consentito per esempio alla climatologia di fare enormi passi avanti, e dal punto di vista della filosofia della scienza ha fatto rientrare dalla finestra quel libero arbitrio che la scienza positivista aveva cercato di buttare fuori dalla porta. Poiché esistono “futuri inconoscibili”, spiega du Sautoy, l’universo non è deterministico, pertanto non può essere pienamente conoscibile come pretendeva Laplace. Ciò lascia spazio per la casualità, e quindi per il libero arbitrio dell’uomo, le cui azioni non sono comprensibili e prevedibili attraverso leggi generali.

Molti scienziati sono abbastanza a loro agio con queste idee. Per esempio per Giovanni Amelino-Camelia, uno dei principali esperti al mondo di gravità quantistica a loop – l’alternativa più promettente alla teoria delle stringhe – l’ambizione di scoprire una teoria del tutto “è futile ed è in realtà un vero incubo per chi come me intende la scienza come la sfida di aprire nuove finestre sulla Natura”. Secondo Amelino-Camelia, non c’è niente di male nel “prendere atto degli oggettivi limiti del nostro intelletto e della limitatezza della nostra condizione”, perché questo non significa porre fine alla ricerca scientifica, ma anzi aprirne l’orizzonte: “Esplorare non per dominare ma per conoscere è la grande libertà, la grande avventura che ci è dato di vivere” (Paura, 2012). La pensa allo stesso modo Melissa Franklin, intervistata da du Sautoy nel suo libro. Tra le protagoniste della scoperta, anni fa, del quark top, uno dei tanti pezzi del Modello Standard, la Franklin è dell’idea che non ci sarebbe nulla di piacevole nel premere un bottone in grado di fornirci in un istante la comprensione totale della realtà: “Perché così non è divertente”, spiega. “In certi casi lo farei anche: per esempio se potessi premere un bottone e parlare perfettamente l’italiano. Ma non con la scienza. Penso che sia perché, se facessimo così, non potremmo capirla davvero: per comprendere come funziona, bisogna impegnarsi, lottare. Dobbiamo metterci a fare prove, misurare le cose e sforzarci di capirle”. Anche John D. Barrow, fisico e matematico molto celebre per le sue opere di divulgazione, spesso controverse, crede che non ci sia niente di male nell’accettare l’esistenza di limiti alla comprensione dell’universo: “L’universo non è costruito per venire incontro ai nostri comodi. Non è un esercizio di filosofia della scienza”, spiega a du Sautoy. “È un peccato non riuscire ad accorgersi di queste cose. Di fatto, se tutte queste domande fondamentali dovessero trovare risposta in ciò che stiamo facendo, sarei molto sospettoso: mi sembrerebbe qualcosa di anticopernicano. Quindi, ritengo che il fatto che non possiamo risolvere certi problemi, o che possiamo ottenere i dati necessari, sia un aspetto copernicano delle cose”. 

Nel suo libro Farewell to Reality, il giornalista scientifico Jim Baggott si è spinto a definire “fairy-tale physics”, ossia fisica fantastica, l’insieme delle congetture e delle teorie emerse negli ultimi decenni per arrivare a un’interpretazione omnicomprensiva della realtà, introducendo concetti privi di qualsiasi evidenza empirica come il multiverso – l’idea che possa esistere un numero enorme o infinito di universi al di là del nostro – o l’ipotesi che il nostro universo sia un ologramma, oltre alle già menzionate teorie delle stringhe e della supersimmetria. Baggott punta il dito contro il modo di fare divulgazione scientifica da parte dei mass media, i quali pongono anche la più speculativa delle congetture sullo stesso livello di teorie fisiche consolidate. Ma i media non si getterebbero a capofitto sulle ipotesi scientifiche più bizzarre se non ci fossero gli scienziati a elaborarle per loro. Per questo, secondo Baggott, “la fisica ha tradito la ricerca della verità scientifica”, come recita il sottotitolo del suo libro. Fashion, Faith and Fantasy, ossia moda, fede e fantasia, sono per Sir Roger Penrose i tre grandi mali che affliggono la scienza contemporanea, come spiega nel suo ultimo libro. La moda è quella che ha permesso a una teoria poco convincente come quella delle stringhe di assurgere al rango di ortodossia scientifica, mettendo in ombra le ipotesi alternative (come la teoria dei twistor proposta dallo stesso Penrose). La fede è quella che spinge i fisici ad accettare acriticamente le bizzarrie e le stravaganze della meccanica quantistica rinunciando a cercare, come voleva Einstein, una teoria più profonda. La fantasia, infine, ha permesso di trasformare quelle che Penrose giudica ipotesi fantasiose, nello specifico l’inflazione cosmica, utilizzata per spiegare alcuni misteri riguardo i primi istanti dopo il Big Bang, in teorie consolidate, pur in assenza di evidenze empiriche. Ma Penrose parla pro domo sua, perché nel suo libro difende altre ipotesi che Baggott non esiterebbe a definire fairy-tale physics, come quella della cosmologia ciclica conforme (CCC), già esposta in un suo precedente lavoro (Dal Big Bang all’eternità, 2011). E anche se non la cita nel suo libro, la teoria di Penrose che la coscienza umana derivi da fenomeni quantistici che avvengono all’interno dei neuroni, assurta a massima fama con il suo bestseller del 1989 La mente nuova dell’imperatore, è oggi considerata pseudoscienza dalla stragrande maggioranza della comunità scientifica.

In sostanza, dunque, si assiste a un proliferare di “grandi narrazioni” della scienza che si sovrappongono l’una all’altra nella ricerca della verità ultima, della Risposta, come la definiva John Horgan nella sua inchiesta. Forse l’ultima in ordine di tempo è quella che espone anche du Sautoy nel suo libro, e che si può riassumere con una sola lettera dell’alfabeto greco: Φ, ossia “phi”. A proporla è il neuroscienziato italiano Giulio Tononi, direttore del Center for Sleep and Consciousness all’Università del Wisconsin, che vi ha dedicato un’opera divulgativa di un certo successo (PHI. Un viaggio dal cervello all’anima, 2014). Per Tononi, Φ è un valore che esprime la coscienza di una rete. Un valore pari o molto prossimo allo zero per una rete come quella che consente a uno smartphone di funzionare, ma elevatissimo per una rete come quella neurale che consente a noi esseri umani di ragionare e avere coscienza di noi stessi. La coscienza come frutto dell’interazione di reti non è un’idea nuova, risale agli anni d’oro della teoria dei sistemi complessi nata al Santa Fe Institute e all’idea che l’intelligenza sia un fenomeno “emergente” della complessità, non riducibile a un singolo fattore – come la ghiandola pineale cartesiana. Il vantaggio è che Tononi è un neuroscienziato e può contare su anni di entusiasmanti progressi accumulati dalle neuroscienze, tra cui l’imaging, che consente oggi di analizzare in tempo reale il funzionamento delle aree cerebrali di un essere umano senza strumenti invasivi e senza dover aprire la scatola cranica. L’imaging ha rivoluzionato le neuroscienze forse più di qualsiasi altra disciplina scientifica negli ultimi anni, e ha avvicinato gli scienziati al sogno di riuscire a comprendere il segreto della coscienza umana. Tononi ricorda che l’imaging dimostra che non esiste un’area specifica del cervello preposta alla consapevolezza di sé, ma ogni azione e ogni riflessione compiuta da un essere umano impegna diverse aree cerebrali connesse tra loro. È la prova che la coscienza è il frutto di connessioni. Secondo Christof Koch, uno degli scienziati più noti nelle ricerche sul mistero della coscienza umana, grazie al fattore Φ di Tononi “in linea di principio, dato il diagramma delle connessioni di una persona – o del C. Elegans, o di un computer – saremo in grado di dire se quel sistema prova qualcosa. In fin dei conti, la coscienza è proprio questo, è esperienza. E saremo anche in grado di dire che cosa quel sistema sta attualmente sperimentando”. Il sogno dell’intelletto onnisciente di Laplace continua a sopravvivere nel XXI secolo.

Intervistando vent’anni fa il famoso linguista e filosofo Noam Chomsky, John Horgan raccolse un’osservazione inquietante. Secondo Chomsky, tutti gli animali possiedono abilità cognitive determinate dalla loro storia evolutiva: “Un ratto, ad esempio, può imparare a muoversi in un labirinto che richieda di svoltare a sinistra a un bivio sì e uno no, ma non in uno che richieda di svoltare a sinistra a ogni bivio corrispondente a un numero primo” (Horgan, 1998). Analogamente, anche noi esseri umani possediamo tali vincoli evolutivi. “La nostra capacità linguistica ci consente di formulare quesiti e di risolverli in modi che sono preclusi ai ratti, ma in ultima analisi anche noi ci troviamo a fronteggiare misteri altrettanto impenetrabili quanto quello che si presenta al ratto nel labirinto basato sui numeri primi. Anche la nostra capacità di porre domande è limitata. Chomsky escludeva pertanto che i fisici o altri scienziati potessero pervenire a una teoria del tutto; nel migliore dei casi, i fisici possono creare soltanto una «teoria di ciò che sanno formulare»” (ibid.). Un’analoga considerazione si trova nel libro di du Sautoy. Da buon matematico, du Sautoy si chiede se possano esistere problemi che il suo cervello non sarà mai in grado di risolvere. La sua risposta è affermativa. Ciò dipende dal fatto che la matematica è per definizione infinita, dato che le asserzioni matematiche dimostrabili sono infinite. È vero che non tutto ciò che è matematicamente coerente è anche reale, a meno di non accogliere una visione platonica della matematica. Tuttavia, du Sautoy ricorda che, in un articolo intitolato Computational Capacity of the Universe, il fisico e informatico del MIT Seth Lloyd – noto per la sua teoria secondo cui l’universo sarebbe un enorme strumento di processamento dell’informazione, analogo a un computer – “ha calcolato che, partendo dal Big Bang, l’universo non può aver compiuto più di 10120 operazioni su un massimo di 1090 bit. In ogni momento del tempo, l’universo può conoscere solo una quantità finita di matematica. Forse vi chiederete che cosa sta calcolando l’universo. Di fatto, sta calcolando la propria evoluzione dinamica. Pur trattandosi di un numero immenso, resta pur sempre finito; ciò significa che è possibile dimostrare che, in ogni momento del tempo, ci saranno sempre delle cose che l’universo osservabile non saprà”. 

Du Sautoy non è a disagio con questa idea. Nell’ultima parte del suo libro torna alla sua materia, la matematica, ricordando il teorema di incompletezza di Gödel e il modo in cui l’aveva sconvolto quando aveva avuto modo di studiarlo all’università. Ma, una volta accettato l’assunto che esistano assunti indimostrabili, l’accettazione dei limiti della comprensibilità scientifica della realtà viene da sé. “Forse è impossibile comprendere l’universo quando facciamo parte del sistema: se il sistema dell’universo è descritto da una funzione d’onda quantistica, per osservarlo non bisognerebbe trovarsi al suo esterno? La teoria del caos implica che non possiamo comprendere una parte del sistema come un problema isolato, in quanto un elettrone all’altro capo dell’universo potrebbe esercitare un’influenza tale da mandare un sistema caotico in una direzione del tutto differente; anche in questo caso, dobbiamo stare all’esterno per considerare l’intero sistema. Lo stesso problema si applica anche alla questione della comprensione della coscienza: siamo bloccati dentro le nostre teste, all’interno dei nostri sistemi, incapaci di accedere alle coscienze degli altri”. Se per Horgan queste considerazioni avrebbero corroborato le sue tesi espresse nel libro La fine della scienza, per du Sautoy sono invece il punto di partenza per una rifondazione del metodo scientifico. Non è vero, come diceva Ludwig Wittgenstein, che “su ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere”; per du Sautoy la conclusione migliore sarebbe: “Su ciò che non possiamo conoscere, possiamo comunque esercitare la nostra immaginazione”. Con la ragionevole consapevolezza che le nostre congetture non debbano necessariamente pretendere di rappresentare la Verità, come per la fairy-tale physics di Baggott, creando nuove metanarrazioni del mondo, ma che “per fare scienze dobbiamo essere sempre pronti ad andare avanti, lasciandoci alle spalle le storie che raccontiamo oggi”. 

 


 

LETTURE

Jim Baggott, Farewell to Reality. How Fairy-tale Physics Betrays the Search for Scientific Truth, Constable, Londra, 2013.
Arthur C. Clarke, Le nuove frontiere del possibile, Rizzoli, Milano, 1965.
Robert P. Crease e Alfred Scharff Goldhaber, Ogni cosa è indeterminata. La rivoluzione dei quanti dal gatto di Schrödinger a David Foster Wallace, Codice, Milano, 2015.
John Horgan, La fine della scienza, Adelphi, Milano, 1998.
Stephen Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, Rizzoli, Milano, 2015.
Pierre Simon de Laplace, Saggio filosofico sulle probabilità, Editori Associati, Roma, 1987.
Peppe Liberti, Che fine ha fatto la teoria delle stringhe?, il Tascabile, 2 novembre 2016, http://www.iltascabile.com/scienze/teoria-delle-stringhe/.
Robert Oerter, La teoria del quasi tutto. Il Modello Standard, il trionfo non celebrato della fisica moderna, Codice, Torino, 2008.
Roberto Paura, Il fisico italiano che sfida le stringhe: “La teoria del tutto? Non la troveremo mai”, Fanpage.it, 22 dicembre 2012, http://scienze.fanpage.it/il-fisico-italiano-che-sfida-le-stringhe-la-teoria-del-tutto-non-la-troveremo-mai/.
Roger Penrose, Fashion, Faith and Fantasy in the New Physics of the Universe, Princeton University Press, Princeton, 2016.
Roger Penrose, Dal Big Bang all’eternità. I cicli temporali che danno forma all’universo, Rizzoli, Milano, 2011.
Roger Penrose, La mente nuova dell’imperatore, Rizzoli, Milano, 2000.
Lisa Randall, Passaggi curvi. I misteri delle dimensioni nascoste dell’Universo, Il Saggiatore, Milano, 2006.
Giulio Tononi, PHI. Un viaggio dal cervello all’anima, Codice, Torino, 2014.