BUSSOLE | QDAT 63 | 2016

 


LETTURE / SAVERIO, IL CRUDELE. L'ISOLA DESERTA


di Roberto Arlt / Arcoiris, Salerno, 2016 / 116 pp., € 11,00


 

Sarabande di inganni e di illusioni


di Adolfo Fattori

 

image

Strano destino, quello di Roberto Arlt, uno dei più significativi romanzieri e intellettuali argentini della prima metà del Novecento. Era praticamente sconosciuto in Italia fino agli anni Settanta del secolo scorso, quando l'editore Bompiani ne pubblicò i due capolavori meno sconosciuti, I sette pazzi nel 1971 e I lanciafiamme tre anni dopo. Ricadde rapidamente nell'oblio, qui da noi, insieme alle sue poche cose pubblicate, finendo per popolare le bancarelle di libri usati e di fondi di magazzino per la gioia di pochi appassionati di narrativa sudamericana.

Solo di recente, grazie specialmente agli editori Sur (che ha ristampato i due romanzi sopra citati) e Arcoiris, che dopo aver pubblicato due anni fa Un viaggio terribile, torna all'autore porteño con una coppia di brevi lavori teatrali, pubblicati originariamente nel 1936 (Saverio, il crudele) e nel 1937 (L'isola deserta), mai comparsi in italiano, tradotti da Raul Schenardi e Violetta Colonnelli e accompagnati da una corposa Postfazione di Carolina Miranda.

Nato nel 1900 da padre prussiano e madre triestina, e morto nel 1942, Roberto Arlt dovette scontare fino all'adolescenza l'opprimente atmosfera di casa e la severissima educazione paterna, finché non abbandonò la famiglia a sedici anni, vivendo per strada e adattandosi ai lavori più svariati. Da questa vita e dalle esperienze che ne trasse, ricavò la materia per le sue rabbiose e feroci opere letterarie, diventando uno dei cantori primari della cultura urbana di Buenos Aires, insieme almeno a Ernesto Sabato, altro cantore visionario e radicale delle sue “orrende cloache, [...] Universo infernale, patria dell'immondizia [...] osceno e pestilente tumulto (il suo) immenso, infinito pattume” (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 58; Sabato, 2009).

È in questo scenario, saggiato in prima persona, che il romanziere articolerà le sue narrazioni, storie di perdenti, di fallimenti, di speranze destinate a essere deluse. Come in Il giocattolo rabbioso, (2012) pubblicato nel 1926, storia di un giovane descamisado a caccia di una fortuna che gli arriverà solo sotto forma di una meschina esistenza piccolo borghese (cfr. Petraccone, 2012). E ancor di più nei due suoi romanzi maggiori, I sette pazzi (proposto da Einaudi nel 2013 nella traduzione di Jaime Riera Rehren e, come si è detto, da Sur, nella traduzione di Luigi Pellisari nel 2015) e I lanciafiamme (anch’esso tradotto da Pellisari e pubblicato nel 2015), deliranti e fantasmagorici affreschi di una Buenos Aires infernale, maligna, spazzata dall'indigenza e dalla disperazione provocata dagli effetti globali della crisi economica del 1929, percorsa dalla follia e dalla violenza dei mondi sotterranei, occulti dell'illegalità e della ribellione politica, più evocata che praticata. 

Niente di più distante dalla città onirica e dolce evocata da scrittori come Adolfo Bioy Casares, per esempio in Il sogno degli eroi, pubblicato nel 1954, altro capolavoro assoluto, del tutto sparito dagli scaffali delle librerie (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 50), quanto vicina a quella di Diario della guerra al maiale, sempre di Bioy Casares, pubblicato nel 1969, apparso in Italia una prima volta nel 1971 sempre per Bompiani, per poi essere di nuovo riproposto più di trenta anni dopo (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 11).

Nelle due piéces teatrali proposte nel volumetto della Arcoiris la ferocia, il sarcasmo e la rabbia di Arlt si stemperano, nella forma, se non nella sostanza, e acquistano toni più surreali, levigati, leggeri.

In Saverio, il crudele lo scrittore porteño ci introduce fra un gruppo di persone giovani, si intuisce agiate, che stanno organizzando una sorta di recita che si svolge annualmente nella data di compleanno di una di loro, Susana. Solo che quest'anno la recita deve acquistare un carattere particolare: una sorta di beffa, ai danni di un loro conoscente, Saverio, appunto, un uomo che opera nel commercio del burro. 

A Saverio, come in un gioco di scatole cinesi, bisogna far credere in anticipo sulla festa che Susana è impazzita, si è convinta di essere una regina spodestata, e che proprio Saverio, un crudele generale golpista, sia il suo persecutore. E che deve assecondarla nella sua follia. Il giovane viene convinto, mostrandogli una Susana delirante e ossessionata dalle sue fobie, e gli si chiede di prepararsi alla parte che dovrà recitare il giorno della festa. 

Solo che Saverio prende la cosa davvero sul serio, tanto da procurarsi una divisa da generale, e addirittura, sconcertando la sua affezionata governante, una ghigliottina perfettamente funzionante... Saverio farnetica almeno quanto Susana, lasciando stupefatti e preoccupati gli amici di Susana, che non sanno più cosa aspettarsi e che temono la cosa possa sfuggirgli completamente dalle mani.

Alla fine, Saverio rivelerà che anche la sua era una recita, un inganno, la sua vendetta: la risposta più logica e conseguente alla beffa in cui sapeva di essere stato intrappolato, e di cui era stato avvertito da Julia, la sorella di Susana. 

La situazione precipita: Susana chiede perdono a Saverio, confessandogli che il suo era un modo, bizzarro, senza dubbio, di rivelargli il suo amore per lui. Ma Saverio non vuole saperne, è irremovibile, crudele verso il sentimento di Susana, come aveva finto di essere impersonando il generale golpista... Susana perde completamente il controllo, prega, supplica... Alla fine, completamente fuori di testa, afferra un revolver e spara a Saverio, che, soccorso dai presenti, ormai consapevoli di essere stati tutti ingannati, dice, “... (puntando l'indice contro Susana) Non era uno scherzo. Lei era pazza”. Il sipario, ora, mentre gli astanti scappano, può calare. Cala su un intreccio di inganni, finte, 

melodrammi nel melodramma, a cavallo fra teatro dell'assurdo, tratti espressionisti, tocchi di surrealismo, lasciando gli spettatori a confrontarsi con l'eterno dubbio su cosa sia la realtà, e cosa l'illusione.

Diverso, invece, il quadro disegnato in L'isola deserta, apparentemente meno estremo, ma nei fatti forse ancora più eccentrico e con un forte accento di denuncia politica, qui con una connotazione di “teatro popolare” esplicita, e una certa declinazione espressionista, quasi.

L'azione si svolge in un ufficio, bianco, dominato da una grande finestra che si apre sul cielo esterno, una illusione di libertà: a una decina di scrivanie siedono, chini sulle macchine da scrivere, una decina di impiegati e impiegate. Su tutti, domina il “Capo”, in realtà un capetto, che sorveglia i suoi sottoposti, pronto a rimproverarli e minacciarli se si distraggono. Una situazione non tanto lontana da molte realtà lavorative dell'epoca della fabbrica e della burocrazia metropolitana. Solo che a un certo punto, l'equilibrio si rompe: richiamato dal capo perché si distrae, uno degli impiegati sbotta: lì non ce la fa a rimanere concentrato. Sente, attraverso il finestrone, le sirene delle navi in transito: un richiamo all'aria aperta, al viaggio, alla libertà! Era meglio quando il lavoro si svolgeva nello scantinato, prima che l'ufficio venisse trasferito a quel piano così luminoso, così aperto, così sonoro... Era meglio non sapere, non sentirsi ricordare continuamente l'esistenza del mondo di fuori! Era meglio lo scantinato.

Il “Capo” è sconcertato, irritato, avverte che ne parlerà in Direzione, che si potrebbe tornare a lavorare giù in cantina! La situazione precipita quando entra il fattorino Cipriano, un mulatto, che si inserisce nella discussione: lui ha girato il mondo, sulle navi, ne ha viste tante, di cose, luoghi, affascinanti, esotici, straordinari. Comincia a ballare, battendo il ritmo sulla custodia di una macchina da scrivere, come fosse un tamburo, o un tam tam. Man mano, le donne e gli uomini si alzano, lasciano i loro posti, cominciano a danzare al ritmo del tamburo improvvisato, in una sarabanda sempre più sfrenata, mentre gli impiegati si sentono trasportati davvero sotto le palme di un qualche paese esotico, insieme a donne e uomini bellissimi, nudi, felici... Ma il chiasso attira il Direttore, il capo vero. Tutto finisce di colpo. L'atmosfera esotica, festosa si spegne di colpo: i dipendenti licenziati tutti in tronco, la finestra oscurata, ribellioni future scongiurate.

Il vero nemico, che il direttore uccide, è l'immaginazione: tutto deve tornare grigio, spento, ottuso, silenzioso. La schiavitù salariata deve essere garantita. 

“Teatro del pueblo”, del popolo, quello cui si ispirava Arlt, dal nome del primo teatro indipendente nato a Buenos Aires, nel barrio di Boedo, il cui fondatore, Leonidas Barletta (cfr. Miranda, 2016), voleva innovare e salvare l'arte teatrale dal suo essersi ripiegata su se stessa, traendo ispirazione e rivolgendosi al popolo, ai lavoratori, a cui Roberto Arlt aggiunse la sua arte, la sua rabbia, la sua esperienza biografica, le sue sottili e sottese parentele con l'Espressionismo, il Surrealismo, il Teatro dell'assurdo.

 


 

LETTURE

— Roberto Arlt, Il giocattolo rabbioso, Cargo, Napoli, 2012.
Roberto Arlt, I sette pazzi, Einaudi, Torino, 2013.
Roberto Arlt, I sette pazzi, Sur, Roma, 2015.
Roberto Arlt, I lanciafiamme, Sur, Roma, 2015.
Adolfo Bioy Casares, Il sogno degli eroi, Bompiani, Milano, 1968.
Adolfo Bioy Casares, Diario della guerra al maiale, Bompiani, Milano, 1971.
Adolfo Bioy Casares, Diario della guerra al maiale, Cavallo di ferro, Roma, 2007.
Carolina Miranda, Postfazione, in Roberto Arlt, Saverio, il crudele. L'isola deserta, Arcoiris, Salerno, 2016.
Licia Petraccone, Oscure inclinazioni. Riflessioni su "Il giocattolo rabbioso" di Roberto Arlt, (http://www.agoravox.it/Oscure-inclinazioni-Riflessioni-su.html, 2012).
Ernesto Sabato, Sopra eroi e tombe, Einaudi, Torino, 2009.