ASCOLTI / THE BOSTON CREATIVE JAZZ SCENE, 1970-1983


di Autori Vari / Cultures Of Soul Records, 1916


 

Padri di un jazz minore?


di Alvise Gambarini

 

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"Sul finire degli anni Sessanta, nuovi protagonisti si affacciarono sulla variegata scena jazzistica statunitense ancora in fibrillazione in seguito all’irruzione della nuova cosa, decisamente aliena, la New Thing, ovvero il free jazz. Mattatori erano ancora (e alcuni sarebbero rimasti sempre tali) i maggiori responsabili di quella rivoluzione musicale. In prima linea c’era Ornette Coleman, che aveva aperto le danze con il basilare Free Jazz nel 1960 e con lui si davano un gran daffare e vanno almeno menzionati Don Cherry, che proveniva proprio dallo storico quartetto colemaniano, Archie Shepp e Cecil Taylor. 

A questa avanguardia nera si affiancarono forze fresche provenienti da diverse realtà metropolitane. Meno nota di altre, la scena musicale di Boston non mancò di offrire il suo contributo al nuovo grande rimescolamento di carte che il jazz aveva avviato. È un capitolo, forse un paragrafo, che ora trova ampia ricostruzione nel lavoro curato da uno dei protagonisti di quella scena, il compositore e trombettista Mark Harvey, oggi docente di musica alla Boston University e ancora alla guida della sua big band, l’Aardvark Jazz Orchestra. 

Harvey ha confezionato una variegata antologia di brani audaci e oscuri perché provenienti da album auto prodotti e di scarsa circolazione all’epoca al di fuori dello stesso Massachusetts.

Tutta la vicenda è dettagliatamente raccontata da egli stesso in un libro illustrato di ottanta pagine, posto a compendio del disco, che ricostruisce una scena, in fondo underground, caratterizzata da stili eterogenei, dal free jazz alla fusion funky e le sorprese non mancano. 

Una precisazione è d’obbligo: la capitale del Massachusetts ha dato i natali a un bel po’ di jazzisti come Roy Haynes, George Russell, Charlie Mariano e Ken McIntyre ed è sede di due prestigiose istituzioni, la Berklee School of Music e il New England Conservatory, ma è altrettanto vero che comunemente non la si associa al jazz e tantomeno a quello più di ricerca. Invece, nell’arco temporale considerato da Harvey, diverse nuove cose si suonarono anche da quelle parti. Sarà però utile prima accennare brevemente alla geografia musicale dell’epoca.

Non vi è alcun dubbio che la capitale indiscussa negli anni Settanta del nuovo jazz statunitense sia stata Chicago. Nella Windy City mise radici e tuttora continua a fiorire una comunità di musicisti messi in grado di autogestirsi grazie all’AACM (Association for the Advancement of Creative Musicians), nata ufficialmente l’8 maggio 1965 per volontà del compositore e pianista Muhal Richard Abrams. Quell’officina forgerà talenti a ripetizione: Henry Threadgill (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 31), Anthony Braxton, Wadada Leo Smith, Leroy Jenkins, George Lewis e quattro dei magnifici cinque componenti dell’Art Ensemble of Chicago (Lester Bowie, Roscoe Mitchell, Joseph Jarman, Malachi Favors) ai quali poi si aggiungerà il newyorkese Don Moye. 

Altra scena di discreta rilevanza, seppur minore rispetto a Chicago, fu quella di Saint Louis, che sfornò una pimpante formazione capitanata dal batterista Charles Bobo Shaw e che schierava al trombone Joseph Bowie, fratello di Lester: lo Human Arts Ensemble. Musicisti di spicco di quella scena furono anche Oliver Lake (sax contralto) e Julius Hemphill (idem). 

New York a sua volta, ospitò diversi californiani, come Arthur Blythe, anch’egli messosi in mostra al sassofono contralto, il flautista David Newton e David Murray (sax tenore). Questi con Lake, Hemphill e il baritonista Hamiett Bluiett diede in seguito (1977) vita a un impegnativo quartetto di sole ance, il World Saxophone Quartet, tuttora in attività anche se non più nella formazione delle origini. Sempre nella Grande Mela, il multistrumentista Sam Rivers creò lo Studio Rivbea, una palestra per tutta la nuova generazione di musicisti, in buona parte sopra citata e sempre a New York operò un'altra organizzazione, la Jazz Composer's Orchestra Association, iniziativa di due bianchi, l’austriaco Michael Mantler e la californiana Carla Bley, nata come orchestra e poi diventata anche etichetta discografica per artisti come Jenkins, Don Cherry e altri. Infine, parallelamente, la Great Black Music aveva avviato un altro grande ribaltamento partito proprio da New York, dal Columbia 30th Street Studio, dove Miles Davis concepì Bitches Brew nel 1969. 

Tornando a Boston e alla minuziosa ricostruzione storica effettuata da Harvey, la compilation si apre proprio con due suoi brani, anche se il primo, For Margot, è una miniatura di appena un minuto. Ben altro spessore ha il secondo, Tarot: The Moon, un quarto d’ora all’insegna del mistero, denso di suoni archetipici, improvvisazione originata da uno spunto extra musicale: la carta dei tarocchi Rider Waite, il più celebre mazzo del genere, rappresentante la Luna, immagine carica di mistero, con le due torri ai lati, i cani che abbaiano e un crostaceo che emerge. D’altronde, annota Harvey, l’altro fiatista (e pianista) del gruppo, Peter Bloom, aveva suggerito che il gruppo avesse un sottotitolo: Aural Theater e ne conseguiva spesso un approccio programmatico; le improvvisazioni si basavano su suggestioni fornite da testi (poetici, di carattere spirituale o mitologico), oppure sculture, disegni o altro ancora, come in questo caso le carte dei tarocchi. Gli estratti provengono dall’album In Concert At Harvard - Epworth Church registrato all’inizio del 1972 e intestato al Mark Harvey Group, che comprendeva oltre al leader e a Bloom, Craig Hellis, percussioni e piano, e Michael Standish alle sole percussioni. L’andamento del brano sembra davvero seguire delle impressioni, vivendo di differenti momenti che si smarcano anche nettamente dal precedente. Si comincia con un accordo ripetuto con decisione al piano da Bloom, che intreccia un dialogo piuttosto spettrale con il corno francese suonato da Harvey. Seguono le note acute di campanelle, preludio a un’improvvisazione collettiva, puro free jazz, un magma sonoro da cui emerge solitario il sax tenore di Bloom, poi accompagnato dal piano suonato in modo molto percussivo da Hellis; in seguito il corno francese rientra e il suono si dirige verso un puntilismo via via più astratto, le corde del pianoforte vengono pizzicate quasi a mo’ di arpa, tutto si fa più calmo, impressionistico e scivolando in un silenzio lunare dopo un ultima nota emessa dal corno francese. Si avverte forte l’influenza dell’Art Ensemble Of Chicago, proprio per i cambi di scena repentini, le astrazioni e i furori.

Tocca poi a un sestetto chiamato Thing e capitanato dal sassofonista Arnold Cheatham. Anche qui due brani, entrambi però abbastanza lunghi, provenienti tutti dal disco intitolato identicamente Thing, anch’esso pubblicato nel 1972. Ognuno dei due brani, a sua volta, si compone di due delle quattro parti delle due suite che occupavano originariamente le due facciate dell’ellepì, unico disco tra quelli antologizzati a essere stato ristampato nel 2008 su compact disc dalla Porter Records. 

Il primo brano si intitola infatti Sketch Parts 1 and 2 e il secondo Road Through the Wall Parts 2 and 3. Il cambio d’atmosfera è immediato. Qui siamo dalle parti del jazz elettrico di Davis, fortemente percussivo, funky groove a tutto spiano e anche qui c’è programmaticamente la massima libertà da parte dei musicisti di improvvisare. Nel primo medley Cheatman guida la band alternando il contralto e il soprano che incrociano ripetutamente la tromba di Wil Letman; a far da rete di sostegno c’è il piano elettrico di Vagn Leick e solida appare la sezione percussiva, forte di congas (Dorian McGee) e batteria (Kiah "T" Nowlin). Completano l’organico David Saltman al basso (elettrico) e Bob O'Connell (chitarra elettrica).

Ancora due brani per un’altra formazione pregevole, il Phill Musra Group. Per la verità il leader si chiamava Phil, ma le note di copertina dell’album da cui provengono i brani, Creator Spaces (1974) lo indicava come Phill e così viene riportato anche nella compilation in questione. Il gruppo altro non è che un trio formato dallo stesso Musra, dal multistrumentista (come il leader, d’altronde) Michael Cosmic e il percussionista Huseyin Ertunc. I tre erano forti di una lunga frequentazione e ognuno di loro nello stesso anno incise un album con la partecipazione degli altri due (Cosmic fece uscire Peace in the World ed Ertunc Musiki)

I brani del Musra Group, The Creator Is So Far Out ed Egypt a loro volta contrastano fortemente con i precedenti, conducendoci nei pressi di un jazz estatico all’ombra di Sun Ra. Si parte forte con The Creator Is So Far Out inaugurato da una coppia di tenori ruggenti sostenuti dalle vibranti percussioni di Ertunc che prendono infine il sopravvento, lanciandosi in un variopinto assolo; gli interventi si susseguono, il leader al tenore infiamma la scena, riprende Cosmic all’organo seguito da un nugolo di piccole percussioni, poi riparte Musra e infine con Cosmic di nuovo anch’egli al tenore si riprende in conclusione il giro iniziale. Altro tono nel brano successivo, Egypt, dove prevale il gusto per il ritorno alla terra mitica delle origini. Atmosfera ancestrale quindi con flauto e percussioni a fare da protagonisti per colorare un’oscura notte africana.

Il settimo dei novi brani antologizzati è intestato a una formazione chiamata The Worlds Experience Orchestra, guidata dal bassista John Jamyll Jones con il poeta/cantante Larry Roland, di cui si ascolta 9 Degrees Black Women Liberation, declamato dal percussionista/cantante Ray Hall, dal rarissimo album As Time Flows On registrato nel 1977 ma pubblicato tre anni dopo. In precedenza, nel 1975, con lo stesso nome era uscito un album intitolato The beginning of a New Birth, ma con una formazione decisamente più ampia: diciannove strumentisti e una cantante. Spoken word e musica si integrano perfettamente, come nei casi più noti di Gil Scott-Heron e Roland Kirk (anche qui un flauto fa coppia con la voce di Hall). Brano di sorprendente modernità, che si srotola sopra la trama lucente di un piano elettrico. Gli ultimi due brani sono gli unici a non essere stati registrati dal vivo. Il primo è la gemma dell’album: Play Sleep dello Stanton Davis’ Ghetto Mysticism, tratto dall’album Brighter Days del 1977. Scritto dallo stesso Davis con Jan Garbarek e dedicato a George Russell, mentore di Davis, il brano non a caso si avvale di metriche complesse ma ha movenze seducenti. Prima il flauto di Bill Pierce, poi il flicorno del leader, il piano limpido di Alan Pasqua, un contorno di dolci percussioni e un sintetizzatore discreto affidato a Mark Styles creano un’atmosfera molto da notturno metropolitano che conquista. Infine, il chitarrista Baird Hersey propone dal suo primo album, The Year of the Ear (1975), il brano Herds & Hoards. Hersey, all’epoca era accompagnato da una band chiamata ugualmente Year of the Ear e in questo primo album si avvalse anche della partecipazione in alcuni brani del sassofonista Dave Liebman, che all’epoca era fresco di registrazioni alla corte di Miles Davis (lo si ascolta in On The Corner, Get Up With It e Dark Magus). La formazione comprendeva oltre a Liebman altri tre sassofonisti, Len Detlor, Tom Guralnick e John Hagen, più il tenorista ma soprattutto flautista Yoshi Maruta, i trombettisti Steve Guttman e Haru Sawada, il bassista Paul Socolow e i multi percussionisti Bob Weiner, David Moss e Arnie Clapman.

Herds & Hoards è la cosa più rock (funk) di questa selezione, Liebman si apprezza al soprano, ma colpisce la ricchezza poliritmica del brano e le sferzate chitarristiche del leader. Gran finale con i sassofonisti a prodursi in un effetto corale d’impatto. L’album non venne mai pubblicato se non nel 2011, quando se ne è fatto carico la stessa Cultures of Soul, che con questo ultimo documento riesce a ricostruire appieno una scena minore certo, ma altrettanto vitale delle realtà più importanti che hanno dato nuova forma alla cosa che chiamiamo jazz.