ASCOLTI / FUTURO ANTICO / DAI PRIMITIVI ALL’ELETTRONICA / INTERVISTA A FUTURO ANTICO


di Futuro Antico / Black Sweat Records, 2015


 

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Ritorno al presente
ancestrale


di Romina Baldoni

 

Futuro Antico non è stato un gruppo con una morfogenesi prestabilita. Niente di più lontano e fuorviante per identificare questo progetto assolutamente estemporaneo con intenti unicamente finalizzati all’attività di ricerca e di vera e propria esplorazione sonora. Lo promuovono Riccardo Sinigaglia, Walter Maioli e Gabin Dabiré ma dentro ci ruotano una serie di elementi di volta in volta diversi. Tutto si consuma in un brevissimo lasso di tempo, il 1980-81, che riconsegnerà alla storia poche e sparute tracce in rarissime cassette registrate senza nessuna perizia tecnica e qualche meeting di cui solo l’ascoltatore più stravagante ne conserva memoria, magari sull’onda della moda hauntology.
La filologia concettuale di Futuro Antico consisteva nel ritrovare una universalità cosmica, dei palpiti archetipi riproducibili con le più disparate strumentazioni elettroacustiche e lontani da ogni ingabbiamento paradigmatico collegato a un qualsivoglia standard. L’idea rigettata è quella di modalità prestabilita, di scuola di pensiero musicale, di cultura identitaria stigmatizzata. L’idea accolta è quella di suono del mondo, vibrazione antropica e globale. In questo senso dunque si compie un complesso lavoro di riscoperta delle origini basato sulla sensorialità e sull’intuito alchemico, cercando una spoliazione e un distacco da ogni influenza suggerita dall’esperienza e dal bagaglio cognitivo. I sistemi tonali codificati dalle varie tradizioni accademiche lasciano spazio all’aleatorio che ci restituisce la natura, ai rumori del circostante, alla propagazione dell’essere e dell’esserci. Ogni strumento e ogni utensile può diventare funzionale per restituire gli accordi e le armonie che abitano la nostra vita. In questo senso l’ossimoro Futuro Antico è emblema e metafora di una possibile univocità alimentata da assemblaggi arditi o semplicemente ritenuti estranei alla convenzione, da nuovi linguaggi che si mescolano, da una nuova impostazione legata alla comunicazione. Ecco allora che Futuro Antico si allontana dal genere, fonde classicismo e futuribile, primitivo e trascendente, energia e raffinatezza, concretismo e elegia dai tratti esotici, visivo e visionario, intimo e straniante, elaborato e minimale. L’intera tavolozza cromatica si svela, e il gusto, legato alla sensazione del momento, chiama ad attingervi. Nel 1980, in un esperimento quasi completamente passato in sordina, si provava a mettere idealmente in collegamento le culture e le tradizioni folkloristiche universali, pur non esistendo ancora quella tecnologia e quella potenzialità connettiva del nostro tempo. Unire la vastità, tradurre il multiforme ponendosi in ascolto. La finalità del progetto è lo studio e la ricerca, è riallacciare l’antropologia e l’etnomusicologia e configurarne il cammino evolutivo. In pratica si guardava oltre la gamma ormai esaurita delle espressività sonore occidentali, provando un approccio interdisciplinare capace di comprendere universalità e multidimensionalità. Si parte dal presupposto che la vibrazione anticipa il tempo stesso della creazione e ne comprende ogni particella, e ne accompagna ogni trasformazione materica e cosmica. Nel suono è contenuto il nostro senso esistenziale, il nostro cammino evolutivo e percettivo. Futuro Antico quindi prende le distanze dalla musica, che per sua natura si incanala sempre e si contestualizza in confini storici, culturali e temporali. Ricerca il suono delle origini, le sue fondamenta alchemiche.
Se proviamo a guardare indietro nel campo della nostra storia musicale, ci accorgiamo che molti precursori del secolo scorso avevano sentito la necessità di esplorare strade nuove in campo artistico, cercando di andare oltre la concettualità stessa del comporre, dell’incanalare. Negli anni Sessanta per esempio Franco Evangelisti decise di approfondire le teorie dell’alea già teorizzate dal tedesco Werner Meyer-Eppler e applicate in campo elettronico attraverso la formazione del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Tutta la cosiddetta musica contemporanea e l’avanguardia cerca nuove strade espressive nell’improvvisazione e nel rumore anti musicale, ovvero tutti quei suoni fuori scala e fuori sintonia che invece possono indirizzarsi a nuovi schemi, a nuove soluzioni stilistiche. Nel 1976 Giacomo “Mino” Di Benedetto e il suo Albergo Intergalattico Spaziale provavano a fondere musica ed immagine con risultati capaci di evocare il mistico, il cosmico e l’ambientale con il solo ausilio di voce ed elettronica. Lino “Capra” Vaccina con il bellissimo Antico Adagio del 1978 si era riallacciato a una base armonica modale, restituendo libertà e respiro alla melodia e attribuendo al ritmo le variazioni micro tonali proprie dell’etere, il lieve afflato della brezza. Ecco allora che la cultura popolare, il teatro, la natura e l’ecologia, l’elettronica, la simbologia, la psicoacustica vanno a plasmare quell’unica possibile definizione attribuibile agli intenti di Futuro Antico: etnoelettronica, world fusion music. La versione originale di queste registrazioni datate tra maggio e luglio 1980, depositate alla SIAE da Riccardo Sinigaglia e distribuite in cassetta autoprodotta in pochissimi esemplari è stata ristampata dalla Black Sweat Records il 25 gennaio 2014 nella versione vinilica e a febbraio 2015 in CD. Altra registrazione sempre di quegli anni, Dai Primitivi all’Elettronica, riproposta attualmente dalla Black Sweat in affiancamento a Futuro Antico, era stata stampata nel 1990 in edizione limitata da Casal Gajardo Records. 

Nel 2005 i Futuro Antico si sono ricostituiti e hanno dato alle stampe per Hi!Sound, in continuità con l’estetica concettuale precedente, l’album Intonazioni Archetipe, frutto di un loro concerto tenutosi ad Ameno, tra nuove intuizioni e nuovi approfondimenti e parte di vecchie registrazioni rimaste inedite (Arte nelle Stelle è un pezzo in analogico che risale sempre al 1980 e che precorre la world music e la new age).
Il primo pezzo dell’album omonimo (//blacksweat.bandcamp.com/album/futuro-antico-s-t) si apre con Ao Ao, nel quale è protagonista l’incredibile flauto semitraverso di Walter Maioli con un’imboccatura aperta in osso. Nella cultura egizia era chiamato saibit, gli arabi lo perfezionarono chiamandolo ney. Il suono è acquatile e cristallino, fluido ed evanescente, di una morbidezza altamente evocativa e dalla fascinazione ipnotica. L’eco vibrante dell’apertura è come il tepore soporifero di un’aurora che affiora sfumando di calde scie di luce la coltre spessa delle tenebre. I toni sono lievi, a tratti quasi rarefatti o tremolanti e si intrecciano con un’eleganza e un raccordo sorprendente ai droni cosmici del sintetizzatore. L’armonia è una danza soave e intensa che scaturisce da un incontro e da un rituale iniziatico tra ombre che diradano e sfumature tenui che sbiadiscono e stemperano. I suoni della natura sembrano riportarci il canto degli uccelli, il silenzio sacrale che precede il risveglio in una caligine lattiginosa. 
Schirak è l’ideale prosecuzione di estatico incanto abbozzata in ouverture, con variazioni calibratissime e increspature impalpabili di organo.
Sentori di alba, sentori di albori esistenziali e di primitivo che aleggia. L’incedere più incalzante del gioco sui tasti e una serie di ronzii metallici incupiscono l’atmosfera e si arrestano repentinamente.
Uata Aka ritrova l’imprimitur dei toni caldi ma è attraversata da riverberi più marcati, c’è un’alternanza tra sospensione, senso di vacuità, impellenza e inquietudine. Le sonorità provenienti dalle varie strumentazioni si aggrovigliano e si intrecciano secondo logiche più elaborate e con trame più irregolari e imprevedibili; entrano in dialogo tra loro fino a restituirci la sensazione di una comunicazione e una connessione profondamente spirituale. La suite finale, Futuro Antico, ha una religiosità e un misticismo criptico davvero in grado di evocare l’essenza del contrasto tra arcano preistorico, primordiale e baratro del futuribile. Entrambi aspetti che lasciano aperte vacuità di inesplorato e sconosciuto.
La sensazione di galleggiamento, di ricerca sensoriale è introdotta da nuovi strumenti che entrano in scena: il tintinnio acuto dei bicchieri, la varietà della propagazione sinusoidale rielaborata da un meticoloso lavoro su nastri magnetici. Si attraversa un paganesimo dai tratti esoterici; tribalismo, magia e vapori siderei entrano in contatto lasciando intravedere un possibile focus di incontro. Tutto si infrange in gelide folate di dispersione prodotte dall’osso di aquila dell’Himalaya, che distorce le frequenze vocali, e da un inedito strumento preistorico chiamato rombo volante, forse il più antico tra tutti gli strumenti musicali. Dallo scampanellio prodotto con arnesi degli indios e dalle note ancestrali che emana il particolarissimo flauto doppio tibetano del Ladak.

Nel secondo album (//blacksweat.bandcamp.com/album/futuro-antico-dai-primitivi-allelettronica), Dai Primitivi all’Elettronica, Eco Raga è introdotta dal flauto Ney e in parte si riaggancia agli schemi di Ao Ao e Futuro Antico, anche se con toni più brillanti che poi presentano la complessità e la ricchezza di sfumature del bellissimo Piano Synt, un duello struggente tra piano elettrico e sintetizzatore in cui non emerge nessun vincitore ma solo la reciproca funzionalità nello stabilire, attraverso le loro differenti caratteristiche, un impatto emotivo davvero mozzafiato. Sinikorò Kumà sfodera l’abilità percussiva di Gabin Dabiré e ci trascina su un variegato tappeto di colori africani incastrati in innumerevoli forme geometriche, in tutte le possibili tonalità cromatiche. Di grande suggestione tra tam tam, xilofono e sonagli, gli effetti eco elettronici. Tra le cose di maggiore impatto la sorprendente Concrete Music (Oa Oa), una sintesi perfetta tra gusto impro, psichedelia e cinematica sonora delle vibrazioni. Una serie di rumori artificiali secchi e lugubri, drammatizzati da soffi di armonica in toni bassi e bonghi che gioca con le micro variazioni allestendo un raga onirico incantatore. Il quinto e ultimo brano Suoni Naturali - Ladak - Tagu Tamu è un florilegio di strumenti provenienti da tutto il mondo che, in una ideale parata folkloristica, esplorano differenti scale cromatiche e timbriche. Un viaggio multietnico che attraversa e fonde epoche alla ricerca di un centro del suono ideale. Interazione uomo-natura, le sfumature della terra, l’armonia degli elementi e un’ascesi panteistica di grande spessore, di tribalismo astratto evocativo e celebrativo dell’energia vitale. La ristampa di questo materiale d’altri tempi ci ha portato anche a incontrare i protagonisti.

 


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Riccardo Sinigaglia

 

Il contrasto che emerge dagli ossimori futuro/antico e primitivo/elettronico si può anche leggere come la grande inquietudine incarnata dai grandi spiriti innovatori che per primi si sono avventurati su sentieri inesplorati, provando a rompere gli schemi, lasciandosi tentare dalla sfida della controtendenza e della ricerca sperimentale. La genialità in fondo è quel saper osare che richiede anche un profondo rispetto per quel passato che si decide di abbattere o di superare. Sempre più spesso gli ambiti dell’elettronica colta impiegano il potenziale delle nuove strumentazioni per riallacciare i confini con le origini, per rivisitare la storia o esplorare il futuro, rendendo sempre più labili le demarcazioni spazio temporali. Quali strade si aprono all’elettronica del domani?

I contrasti tra primitivo ed elettronico possono non essere poi così distanti. In realtà l’elettronica mi permette di lavorare liberamente sulle frequenze senza essere costretto nella gabbia del temperamento caratteristico degli ultimi duecento anni della musica occidentale. Piuttosto bisogna guardare allo scopo della musica, e qui anche se uso la tecnologia sono contiguo alle esperienze ancestrali. In occidente il criterio principe della musica e dell’arte è l’estetica, per me come per la musica di tradizione è invece l’effetto psico-fisico del suono. Personalmente ho scelto di vivere in collina, lontano dal caos cittadino e questa scelta è possibile proprio grazie alla tecnologia che mi permette di interagire con chiunque in ogni parte del mondo. Le città sono state un punto di aggregazione fondamentale per moltiplicare le conoscenze e sviluppare le capacità umane, ma al prezzo di un disagevole caos, rumore, inquinamento e questo fin dal tempo della nascita delle civiltà.
Ora la tecnologia ci permette di farne a meno conservando la possibilità di collaborare e scambiare idee ed esperienze e per giunta a un livello globale. Questo può permettere una colossale moltiplicazione delle coscienze come mai è stato possibile nella storia. Io ho amato molto la musica dell’Ottocento romantico e il suono della grande orchestra, è una parte della mia cultura, ma quando ascolto le musiche delle antiche tradizioni sento una forza e una verità che mi conquistano. Il mondo cambia velocemente e noi non possiamo ignorarlo, ma possiamo salvaguardare e attualizzare i principi in cui crediamo e che sentiamo essenziali. Quindi con Walter e Gabin ci siamo trovati subito in sintonia a cercare insieme di usare il suono per viaggiare in dimensioni altre. Anche se veniamo da culture diverse, siamo accomunati nella trance medianica.

 

La multimedialità, che voi avete inaugurato proprio attraverso gli spettacoli e le improvvisazioni live di Futuro Antico, unisce e sintonizza le percezioni sensoriali (introducendo la grande suggestione del visivo) e psichiche. Quanto è importante e come continuare a far convivere al meglio la tecnologia e la vecchia strumentazione? Il nuovo e l’antico? (come nel caso di Egisto Macchi, ad esempio, che ha legato improvvisazione e rigore classico compositivo, la voce umana, il suo potenziale espressivo e le apparecchiature di filtraggio meccanico, la musica popolare, il folklore e l’avanguardia).

Macchi, con Evangelisti, hanno iniziato la sperimentazione dell’improvvisazione con l’elettronica a Roma, negli stessi anni in cui il mio maestro Angelo Paccagnini lavorava similmente a Milano e, anche a Torino, Enore Zaffiri era sulla stessa onda. Certamente un irregolare e ribelle come me sarebbe stato subito espulso dal Conservatorio se non avesse trovato questi stimoli e un grande maestro di libertà come Paccagnini. Usare gli strumenti nuovi non impedisce di amare anche quelli datati, io sento il bisogno di suonare col pianoforte acustico come di usare i sintetizzatori analogici e naturalmente anche il computer.
Io ho fatto anche il liceo artistico e mi è sempre apparso naturale di pensare allo spettacolo multimediale, fin dall’inizio usavamo i proiettori di diapositive dato che ai tempi non c’erano i video. Facevo dei disegni, li fotografavo e poi li usavo come fondale. Quando poi è arrivato il computer ho fatto subito un video Simbol, scritto in basic con mesi di lavoro, dato che ai tempi non c’erano certo programmi di grafica. Quindi con Correnti Magnetiche mi sono messo a lavorare con Mario Canali che curava la parte visiva, facendo concerti live sempre insieme a Gabin in una ideale continuità con l’esperienza di Futuro Antico.

 

Alla luce degli ottimi rapporti che avete sempre mantenuto in questi anni e della inaspettata reunion del 2005 con Intonazioni Archetipe, come si evolverà e cosa ci riserverà per il domani il vostro progetto Futuro Antico?

Spero che si possa continuare a creare insieme, purtroppo siamo geograficamente lontani e ciò rende complicato trovarsi per provare. Però sento sempre vicini Walter e Gabin.

 


Walter Maioli

 

A trentacinque anni di distanza dall’ideologia concettuale introdotta da Futuro Antico e sulla base di tutto il tuo percorso artistico, che sembra non essersi mai distaccato da quelle stesse finalità esplorative e di ricerca, che cosa intendi per suono archetipo?

Suoni che sin dalle origini hanno formato il nostro orecchio e che costituiscono la colonna sonora del nostro più profondo paesaggio interiore relegato nel remoto più inconscio.

Innanzi tutto i suoni della natura e dei primi strumenti musicali, così come tutte quelle vocalizzazioni arcaiche che ricreavano le medesime frequenze sonore. 

Strumenti musicali atavici, come ad esempio il flauto, possono definirsi manifestazione concreta del soffio vitale che rappresenta l’energia cosmica, capace di armonizzare il corpo e la mente come ci rivela la flautoterapia. Basta semplicemente pensare che l’archetipo sonoro del flautato lo troviamo nel canto degli uccelli (considerato dagli antichi voce divina). Sia esso prodotto con un flauto metallico classico, con un organo, o meglio con un semplice e universale flauto di canna, legno od osso, riconduce sempre il nostro immaginario al pastorale, al campestre, alla natura selvaggia, al mistero, all’esotico, all’erotismo o al misticismo. In pratica, ancora ai nostri giorni, il solo suono del flauto ci ricorda l’Arcadia, il virginale, bucolico paradiso perduto, popolato appunto, da uccelli canori. Il canto degli uccelli riproduce la stessa frequenza del flauto e a questo si lega la simbologia del ritorno, basta pensare al suono che incanta della favola del pifferaio magico, la via del ritorno è tracciata dalla memoria di un suono, così è per i canti degli Aborigeni australiani; un ritrovare sempre il centro acustico dell’esistenza, da dove noi tutti proveniamo e da cui fatalmente siamo attratti.

 

Esiste e può veramente essere indagato quel filo conduttore che unisce idealmente la sensibilità primitiva e quella post moderna – completamente succube e meno spesso compartecipe dell’ondata tecnologica in atto – nella loro espressività creativa? Tu hai parlato di un diapason universale, di una accordatura perfetta capace di colmare le distanze tra linguaggi artistici. Come è possibile eliminare i confini strutturali portati dalle varie culture e dalle varie scuole di pensiero e allo stesso tempo muoversi sempre nell’ambito dell’originalità, della connotazione identitaria, dell’innovazione e evoluzione proprie della specificità mediatica legata alla musica e alla produzione sonora? In altre parole, superare il confine tra ciò che dovrebbe accomunare e rispecchiare una popolarità e un antropico comune (world music), e ciò che si ascrive all’estro e alla fantasia astratta e insindacabile dell’idea, del concepimento creativo (avanguardia)? In questo senso dove ti hanno condotto le tue numerose esperienze in Oriente, in Tibet, e l’approfondimento dell’archeoacustica, lo studio delle antiche usanze in fatto di musica?

Ciò che più caratterizza l’Homo Sapiens è la comunicazione, di cui il suono è la componente fondamentale. Il suono giunge anche al buio ed è l’attivatore del meccanismo di allerta più potente: l’ascolto. I suoni sono anche le prime informazioni esterne che giungono al feto, e con cui si forma il più profondo archetipo immaginario. Il paesaggio sonoro forma l’orecchio, il modo di udire, di cantare e parlare di un popolo. Con i suoni e il linguaggio comunichiamo a distanza, con alcuni suoni possiamo spaventare, con altri, radunare, incitare, esaltare, incantare, oppure favorire lo stato ipnotico e la trance. Indubbiamente il linguaggio sonoro musicale, che ritroviamo anche negli uccelli e nei cetacei, precede ed è la base del linguaggio parlato.

Un linguaggio, quello sonoro-musicale, che ha innalzato l’uomo sino ad ascoltare “la musica delle sfere”, il “mantra”, o la “radiazione” di fondo dell’Universo, così i suoni delle Galassie.

Emmanuel Anati ci dice: “Anche il linguaggio musicale rivela una matrice dai canoni universali. Basterà, per rendersene conto, verificare la diffusione globale di certi strumenti come il rombo, il megafono, il corno, il flauto, il tamburo, i raschiatori, l’arco musicale. Come nell’arte visuale, anche nella musica, l’Homo Sapiens era portatore di consuetudini precise” (Anati, 1992).

Se analizziamo le frequenze prodotte dai fischietti e flauti in osso rinvenuti tra gli scavi archeologici del Paleolitico superiore, ci accorgiamo subito che vanno oltre quelle dei flauti standardizzati dell’orchestra classica e della musica popolare folcloristica. Suoni acuti e super acuti, come quelli prodotti dalle sonagliere di conchiglie, così come i tintinnabuli dell’antichità. L’antichità era tutta un tintinnare di campanelli, campanellini, sistri e cimbali, e questo per l’alto livello frizzante, ricostituente e terapeutico delle sonorità acute armoniose, come i moderni studi di audiologia hanno confermato. Questa la ragione per cui l’uomo preistorico ricercava le conchiglie e le appendeva sul corpo, con la doppia funzionalità ornamentale e sonora.

Anche se strumenti come il violino e il pianoforte possono produrre suoni molto acuti, i suoni acuti sono stati esclusi dalle musiche tradizionali, soprattutto le fasce sonore come quelle scintillanti create dai campanellini, sistri e cymbali, grandi produttori di frequenze armoniose ed energetiche. Pure la musica dalle frequenze gravi, nonostante contrabbassi e fagotti, non è stata approfondita dalle musiche occidentali. Gli strumenti musicali occidentali si sono standardizzati negli ultimi secoli, sembra proprio che gli oboe, i fagotti, i flauti e così via, siano strumenti che producono suoni convenzionalmente pacati, resi quasi inoffensivi, rispetto alle tibiae e i flauti dell’antichità e soprattutto della preistoria, capaci di generare suoni potenti, psicoattivi, dalle vibrazioni effervescenti per l’orecchio moderno, e ora sempre più, perché educato e assuefatto a sonorità elettroniche troppo standardizzate. Per comprendere gli archetipi di Pan e il suo flauto, che ne rappresenta l’essenza, basta leggere le parole di James Hillman  riportate sul suo libro Saggio su Pan: “Per afferrare Pan come natura dobbiamo prima essere afferrati dalla natura, sia «là fuori» in una campagna deserta che parla con suoni e non con parole, sia «dentro di noi», in una reazione improvvisa – e ancora – per specificare quella che è la natura di Pan, dobbiamo vedere in che modo Pan la personifica, sia nella sua figura sia nel suo ambiente, che è nel contempo un paesaggio interiore e una metafora, e non semplice geografia. Il suo luogo originario, l’Arcadia, è una località tanto fisica che psichica. Le «oscure caverne» dove lo si poteva incontrare (si pensi all’Inno orfico a Pan) furono dilatate dai neoplatonici fino ad indicare i recessi materiali in cui risiede l’impulso, gli oscuri fori della psiche da cui nascono desideri e panico” (Hillman, 2015).

 

In cosa credi sia stato davvero precursore il progetto Futuro Antico riletto nei nostri giorni e alla luce delle nuove tendenze?

Negli ultimi decenni e tuttora oggi, sta avvenendo una grande presa di coscienza ecologica, animalista. Un ritorno alla natura come avevo pronosticato nei primi anni Settanta, seguendo la più pura delle filosofie dei figli dei fiori. Si assiste anche a un rinato interesse per la cultura dei popoli primitivi, pensiamo infatti alla ri-scoperta/ri-valutazione, supportata dalla tecnologia, dei poteri delle piante che prima sembravano nelle mani di “stupidi, ingenui, stregoni” e che invece ora si rivelano principi di botanica e farmacopea. Questo avviene anche con i suoni e la musica, con la riscoperta appunto dei suoni archetipi e dei loro poteri. L’elettronica si affianca ai suoni acustici, li esplora, con Futuro Antico si è potuto dare vita ad una fusione armonica che genera un paesaggio arcadico proiettato nel futuro, ora sempre più attuale e ricercato, dove abitazioni a spirale e cupole super moderne bio si integrano perfettamente con alberi, cascate di verde, fiori e fontane, il tutto sprofondato o sopraelevato in una jungla. Non a caso Riccardo Sinigaglia è anche un architetto, Gabin trasporta l’Africa con sé e io mi occupo di piante e foreste da sempre (mia figlia Luce è nata nel 1976 in una casa nel bosco raggiungibile solo a piedi, era la sede degli Aktuala).

Dai primi anni Settanta ho iniziato a viaggiare in Oriente tra il Marocco e l’India, passando dall’Egitto, l’Anatolia, la Persia e l’Afghanistan, dove ho studiato le musiche legate alla trance e al potere vibratorio e simpatico dei suoni. Nel 1976 ho iniziato un soggiorno di lunghi anni in Himalaya, in Kashmir, dove ho suonato anche alla radio, incontrando e studiando le fondamenta della musica Sufi. In Nepal, sono stato tra i primi a occuparmi dello sciamanesimo, dei Jackri, in particolare lo studio del tamburo jankro, per accordare i ritmi cardiaci e delle campane e campanelli produttori di frequenze acute armonizzanti. 

Soprattutto ho compiuto ricerche sulle origini degli strumenti musicali, ovvero la paleorganologia, tra l’altro recuperando un antichissimo flauto realizzato con un’ulna di aquila. Al mio ritorno in Italia questi studi orientali hanno aperto delle porte per una maggior comprensione dei suoni e delle musiche della preistoria e dell’antichità classica, rivelando come nella Roma imperiale multietnica confluirono e circolarono, e in certi casi si perfezionarono, strumenti musicali giunti da tutto il mondo allora conosciuto, che si affiancarono a strumenti già presenti sin dalla preistoria; dalle origini africane, egizie, mesopotamiche, orientali, etrusche, greche. La cultura musicale della Roma imperiale, rivelata dal suo strumentario, l’iconografia e i testi antichi, costituiscono le radici della cultura musicale europea. Gli italici impiegavano i flauti in osso d’aquila sin dal paleolitico superiore e i cimbali, sacri alla dea Cibele, probabilmente ancor prima dei tibetani, così come campane, coppe, trombe, ance. Le prime raffigurazioni del flauto di Pan, strumento diffuso a livello mondiale, si trovano nel Mediterraneo ed è a Crotone, sulle sponde italiche, che Pitagora fondò la sua scuola, che oltre alla musica e alla contemplazione, suggeriva il vegetarianismo, tutto ciò accadeva contemporaneamente al buddismo in Asia. In pratica una grande entusiasmante riscoperta del nostro passato, della nostra più profonda cultura, precedente il cristianesimo.

 


Gabin Dabiré

 

Gabin, leggendo nel tuo ricchissimo curriculum, appare di estremo interesse la parte che fa riferimento alla riscoperta e valorizzazione del patrimonio musicale africano. In effetti l’Africa ha avuto un ruolo centrale nell’affermazione della world e nella cosiddetta etnica, ma non solo. Anche maestri della composizione di scuola classica e legati alla tradizione occidentale (su tutti Piero Umiliani) hanno per così dire voluto inserire l’elemento esotico nelle loro proposte. Ma cosa è veramente l’Africa per te in fatto di identità e intuizione musicale?

Questa domanda aprirebbe un raggio di risposte talmente ampio che qui posso solo tracciarne, per brevi cenni, una minima parte. L’Africa è il cuore con il quale ascolto sia me stesso (tra echi d’origini e sintonie di contaminazioni), sia quello che incontro lungo il mio viaggio tra le strade del mondo. L’Africa non è un continente ma un pianeta a parte, se vogliamo considerare le diversità culturali, etniche, sociali, tradizionali, geografiche… 

Le sue identità sono così molteplici che anche le fonti d’ispirazione vestono i più variegati colori, in una Babele di ritmi e polifonie, che però conservano sempre una riconoscibilità originaria. Potremmo cercare una continuità identificando le principali correnti musicali e accorgerci che scorrono in varie zone del mondo, intrecciandosi con la storia stessa dei vari popoli e dei loro movimenti (di danze come di guerre, o transumanze…). In Africa la musica è parte integrante di ogni momento sociale, è storia, tradizione, ritualità, ma soprattutto scandisce ogni momento anche delle private esistenze quotidiane, dal lavoro al riposo. Sono nato in città, dunque cresciuto in un ambiente musicale moderno, ovvero non legato alle tradizioni autoctone. Poi da autodidatta sono tornato alla ricerca del grande patrimonio culturale africano, ancora largamente sconosciuto e sottovalutato.

 

In Futuro Antico e Dai primitivi all’Elettronica è percepibile fortemente un tuo ruolo, per così dire, di “coloritura”, nel senso che si sentiva molto il tuo tocco strumentale che improvvisava ed elaborava in straordinarie divagazioni psichedeliche le linee e gli schemi base tracciati dalla tastiera o dal flauto traverso. Un modo davvero stupefacente di conferire spessore e di strutturare ciascun brano con originalità. Ma davvero era tutto affidato al caso e al sentire estemporaneo? Puoi spiegarci meglio questa dinamica, il vostro approccio seguito in questi due dischi.

Futuro Antico nasce in un momento culturale di grandi fermenti: ogni ambito artistico-creativo ne risente e, tra pittura, letteratura, teatro, musica, cinema, si affermano nuovi linguaggi all’insegna della libera sperimentazione. Per quanto mi riguarda, la presenza costante della musica ha aperto la prospettiva con la quale ho accolto le mie intuizioni e le suggestioni che mi arrivavano da altri linguaggi, altri strumenti, altre storie… Così nella vita e in particolar modo nella musica, attraverso l’incontro con gli altri. La sintonia si modula infatti sulla contaminazione e la permeabilità, in complesse dinamiche nelle quali ciascuno segue e guida, ascolta ed esprime. Così è stato per Futuro Antico e nel progetto continuativo di Correnti Magnetiche. Questo significa “sentire estemporaneo”: la chiave delle nostre improvvisazioni più libere! Un modo, se vuoi, di stare nel presente con l’attenzione aperta sia al passato sia al futuro, sia musicalmente che a livello esistenziale. La base creativa di Futuro Antico era sì l’improvvisazione, ma su una trama nella quale la ricerca musicale e la scelta degli strumenti non erano affatto casuali, seguivano le linee di un discorso condiviso, nei suoi vari momenti.

 

Cosa hai fatto di interessante in questi anni, cosa ci hai messo di tuo per trascinare dentro la tua Africa in un pol pot di generi spesso stridenti, in una globalizzazione spesso colpevole di livellare le identità di ciascuno?  Che progetti ci sono per il tuo futuro?

Quando a metà degli anni Settanta sono arrivato in Italia, non avrei mai immaginato la ricchezza del percorso che da lì ho poi intrapreso. Nel 1976 al Parco Lambro il progetto era dichiaratamente di radice afro-pop, con un gruppo composto da soli africani. Ho fatto della musica il mio campo d’azione, e proprio come in un orto, ho cercato di coltivarne diverse piante, sia direttamente come musicista, che come promotore della cultura africana, fino dal Centro di Promozione creato a Milano con questi scopi. Il mio stesso iter parla linguaggi musicali diversi, essendosi nutrito di incontri e collaborazioni con tanti altri, ma sempre conservando quella certa “tipicità” archetipa che mi “suona” e che è fondamento della musicalità africana. I miei progetti futuri cercheranno quindi di approfondire e diffondere quanto tracciato in passato: l’identità dei singoli si lascia livellare dalla globalizzazione solo quando si perde in essa.

 

 


 

ASCOLTI

  Albergo Intergalattico Spaziale, Albergo Intergalattico Spaziale, Markuee, 2011.
  Futuro Antico, Intonazioni Archetipe, Hi!Sound, CD-LP, 2005,
  info download digitale on www.soundcentershop.eu/cd-futuro-antico-intonazioni-archetipe-detail.html
  Lino ‘Capra’ Vaccina, Antico Adagio, Die Schachtel, 2014.

 


 

LETTURE

  Emmanuel Anati, Le radici della cultura, Jaca Book, Milano, 1992.
  AA.VV., Franco Evangelisti (testi di Domenico Guaccero, Antonino Titone, Gottfried Michael Koenig, Paolo Emilio Carapezza,
  Claudio Annibaldi), Nuova Consonanza, Roma 1980.
  James Hillman, Saggio su Pan, Adelphi, Milano, 2015.

 


 

VISIONI

  Riccardo Sinigaglia, Simbol, Openfilm, Made in MSX Basic, 1984, www.riccardosinigaglia.com/sini/simbol.html.