VISIONI / MAD MAX: FURY ROAD


 di George Miller / Warner Home Video, 2015


 

Alti ottani e storytelling postumano


di Valerio Pellegrini

 

 

imageAvevamo lasciato l’ex-poliziotto Max Rockatansky a vagabondare nel deserto post apocalittico intorno a Bartertown (Mad Max - Oltre la sfera del tuono). Lo ritroviamo trent’anni dopo in Mad Max: Fury Road, quarto capitolo della saga cult concepita dal regista australiano George Miller. A settant’anni suonati, il cineasta non solo ha conservato inalterata la sua integrità artistica ma è riuscito, con furia giovanilistica, a divertirsi sul terreno delle trovateaction. Come ha scritto in un tweet Joe Dante, qui ci vorrebbe il sottotitolo: “70-year-old director shows those young whippersnappers how it's done!” Insomma George Miller ha messo in riga una o due leve di cineasti bamboccioni.

Altri veterani di Hollywood hanno provato a rilanciare le gloriose saghe che hanno inaugurato la stagione dei blockbuster anni Settanta e Ottanta: George Lucas con Star Wars, Ridley Scott con Alien, Steven Spielberg con Indiana Jones. Tutti tentativi che non hanno convinto del tutto. Tra l’altro con Fury Road George Miller ha rifondato la sua saga cult senza nemmeno appoggiarsi sulla fama dell’interprete originario, Mel Gibson.

Torniamo in quel mondo nichilista e violento caratterizzato dalle conseguenze della catastrofe globale: scarsità di risorse, mutazioni genetiche e lotte per la sopravvivenza e/o il potere. Tom Hardy è un Mad Max legittimamente monolitico: la sua inespressività riflette un mondo pazzo dove è difficile trovare motivazioni per vivere. È un vagabondo, un outsider soggiogato da una violenta scissione psichica, forse la stessa che vivrebbe l’intero genere umano dopo un’apocalisse termonucleare: vorrebbe lasciarsi morire ma non ci riesce. La soggettiva psicologica di Max è un continuo bilico tra passato e presente, tormentato da violenti flashback sulle sue tragedie familiari, dai suoi sensi di colpa e dalle sue allucinazioni che gli impediscono il suicidio. Incrocia la rotta della camionista Imperator Furiosa e delle Mogli. Queste ultime sono giovani donne ridotte a proprietà privata a fini riproduttivi e stanno scappando da Immortan Joe, il violento capo-clan che le teneva segregate. Max si unisce al gruppo dei fuggitivi.

Mad Max non è un eroe, non lo è mai stato in nessuno degli episodi precedenti della saga. Egli è più che altro un testimone o un ingranaggio che spinge a trovare soluzioni al fine di far sopravvivere qualcuno che vale la pena far sopravvivere. Charlize Theron è Imperator Furiosa, l'eroina mutilata, vulnerabile e allo stesso tempo irriducibile nel perseguire il suo obiettivo: è lei il vero motore dell'azione. Rasata a zero e con la faccia dipinta di grasso da motore confeziona un personaggio memorabile. Un compendio di guerrieri actioncinematografici tra Arnold Schwarzenegger in Predator, Sigourney Weaver in Aliens - Scontro finale e Linda Hamilton in Terminator 2. La sceneggiatura è di George Miller, Nick Lathouris e Brendan McCarthy: curata e mai prevedibile. Ad esempio a proposito di eroismo e di rapporto tra i sessi. Max e Furiosa: come due divinità postmoderne l’elemento maschile e quello femminile si completano e si alleano per cercare di superare quel nichilismo (tutto maschile?) che un giorno potrebbe riportare l’umanità a una nuova catastrofe. La donna ruba continuamente la scena all’eroe maschile. Il confronto tra matriarcato e patriarcato è nei simboli. Cisterne piene di latte materno contro carichi di benzina: liquidi commerciabili entrambi, ma che rappresentano due sistemi di valori molto diversi. Da una parte la cura affettuosa con la quale la vecchia motociclista custodisce la sua borsa di semi “tutta roba naturale”, simbolo concreto di una possibile rinascita futura; dall’altra la furia nichilista con la quale il guerriero di Immortan Joe si trucca il volto per somigliare a un teschio. Da una parte l’indignazione tutta al femminile osservando lo scempio di una terra sempre più lontana dal sogno verde che era; dall’altra l’accumulo di ottani e di possedimenti di un culto petrolifero che corteggia la morte.

Di questo Mad Max: Fury Road colpisce la presenza di tante suggestioni innestate su una trama di fondo molto semplice, quasi primitiva: una fuga, un inseguimento, una caccia al tesoro. Emerge come un’illuminazione rivoluzionaria la soppressione metodica di battute inutili, di didascalie, di “spiegoni”. L’inseguimento è il pretesto per un big carnival immaginifico e creativamente esplosivo: mezzi di trasporto dalle forme deliranti; mutanti deformati dal fall out atomico che accompagnano la battuta di caccia con tamburi e schitarrate death metal; guerrieri che vivono la battaglia come una liturgia religiosa e si esaltano spruzzandosi la bocca con bombolette di vernice spray. Mad Max: Fury Road propone uno sguardo che va oltre i generi, oltre le formule, oltre le trame.

Farebbe sorridere la lettura del copione crudo (infatti c’è stata più di una polemica con gli attori durante la lavorazione). Dialoghi che spesso si risolvono in versi tipo “mmmm” e mugugni vari. Il cinema mainstream contemporaneo ci ha abituati a sceneggiature ricchissime con plot e sub plot che si aggrovigliano incrociando personaggi e contesti a velocità folli e in spazi ridicolmente ristretti. La ricetta di Mad Max:Fury Road è facile e maliziosa: riproporre oggi, anche ad un pubblico in sala molto giovane, un’arte cinematica quasi dimenticata. Sguardi, costumi, tatuaggi, oggetti di scena: dettagli strettissimi che catturano essenze che non richiedono sottotitoli. L’estrema parsimonia dei dialoghi si muove di pari passo con la scoperta del rudimentale lessico dei sopravvissuti, una sorta di neolingua. Non servono sfibranti conversazioni per spiegarci, ad esempio, la casta dei guerrieri, i “figli della guerra” che ci vengono presentati arrivando direttamente al punto: come vivono, le loro azioni, i loro riti, le loro debolezze genetiche. La sceneggiatura mantiene il focus sulle azioni, lasciando crescere e respirare le possibili suggestioni metaforiche.

Per esempio il potente dualismo visivo costruito con i colori. A curare la fotografia c’è un altro veterano: John Seale (Rain Man, L'attimo fuggente, Mosquito Coast). Con l’aiuto del fotografo australiano, George Miller ha catturato i contrasti cromatici della natura in Namibia (le location di quasi tutti gli esterni) utilizzandoli per far dialogare la terra umiliata dall’apocalisse ecologica e gli incredibili cieli azzurri di un possibile riscatto futuro. Per questa via Mad Max: Fury Road riesce anche a riproporre un assaggio della dimensione cosmica dei western epici di John Ford, nume tutelare di una generazione di registi avventurosi che si sono interessati al legame natura/cultura: oltre a Miller ricordiamo autori come Steven Spielberg, George Lucas, John Milius, Sam Peckinpah.

Il tocco di George Miller è dunque semplicemente nella dialettica del racconto audiovisivo, nel ritmo del découpage: la cura dei grandi dettagli significativi montati ad arte per comporre un discorso fatto di collegamenti. Mentre le serie tv diventano sempre più ricche e innovative conquistando una ferma centralità nell’immaginario, oggi chi produce cinema per le sale (blockbuster o aspiranti tali in particolare) appare spesso rintronato, impaurito e finisce con il desertificare la varietà delle tecniche audiovisive possibili.

Quella del découpage consapevole sembra oggi un’arte in via di estinzione perché un’intera generazione di registi tende sempre più spesso a confondere velocità con ritmo visivo. Probabilmente ciò è dovuto alle attuali modalità di consumo: la programmazione in sala deve incrociare i gusti del pubblico dei grandi centri commerciali; troppo spazio al marketing finalizzato agli incassi della prima settimana; generali esigenze finanziarie che hanno portato alla quasi scomparsa della figura del grande regista che difende con i denti l’integrità della propria visione. Insomma, le modalità di fruizione odierne creano una pressione tale per cui le pellicole tendono ad essere inutilmente dense così da abbracciare vari profili di spettatore. Largo dunque alla velocità e alla densità senza ritmo. Fantastiche scene d’azione troppo spesso modellano le emozioni di film che sembrano collane di perle prive di filo. Film facilmente dimenticabili.

Come altri grandi innovatori contemporanei quali Quentin Tarantino e Michael Mann, George Miller ha dimostrato di essere in grado di mantenere viva la speranza di una regione verde sulla mappa di Hollywood. Questo Mad Max: Fury Road si presenta come una paradossale e cocciuta ricerca di qualcosa di nuovo ritornando alle origini, cercando il sentiero giusto per attraversare l’oceano di quanto già visto e narrato in passato.

La violenza, le logiche tribali, i colori, i costumi e gli oggetti di scena: molto ci parla dei western classici. Nella fantascienza come nel western il paesaggio etico e biologico è segnato da violenti rivolgimenti: la Natura segue il suo corso e la Cultura (per esempio il potere tribale) fronteggia le privazioni instaurando regole più o meno violente. In una scena cogliamo il lato umano del dittatore Immortan Joe: intona un canto funebre esattamente come farebbe un nativo americano per salutare un caro defunto. Ecco il western. Ecco Sentieri selvaggi di John Ford. Il tormentato reduce di guerra Ethan Edwards (interpretato da John Wayne) riporta a casa Debbie affrontando un capo indiano particolarmente determinato a proteggere quella che considera una parte della sua comunità. La ragazza è l’unica superstite di una famiglia trucidata dagli indiani e vive ormai da anni con la tribù di bellicosi Comanche che la rapì. In Mad Max: Fury Road fugge Imperator Furiosa, rapita e strappata dalla sua famiglia quando era bambina. E fuggono le Mogli dal terribile Immortan Joe.

La saga di Mad Max è sempre stata un laboratorio di ricerca e immaginazione di nuovi canoni politici e mitopoietici. Il tema stesso di una post-apocalisse nucleare costringe a una revisione etica sul versante del dominio umano sulla natura. La frontiera e il concetto moderno di crescita infinita sono miti non più credibili o perlomeno da riattualizzare.

Miller ci propone due ore di adrenalina e macchine lanciate in corsa che ci fanno conoscere (o riassaporare a seconda dei punti di vista) quell’immaginario anni Settanta e Ottanta da cui traeva linfa vitale la prima trilogia di Mad Max. La saga ideata da George Miller nasce proprio in quella stagione seminale per la seconda parte della storia del cinema. Un momento in cui era ancora molto forte la paura della bomba atomica e la fantascienza cinematografica cominciava a entrare in territori mainstream. Nello stesso tempo irrompeva con furia, in molti film di successo, l’automobile. Sullo sfondo il grande tema sociale delle risorse energetiche. In quegli anni cominciano ad acquisire visibilità i computer, in primis attraverso i sistemi automatizzati di circolazione del denaro. Poi la nascita dell’industria videoludica. Ma come testimonia anche la saga di Mad Max, in quel particolare momento il cuore dell’immaginazione tecnologica batteva per l’automobile: si pensi anzitutto a quanto è confluito in Star Wars delle passioni automobilistiche di quel George Lucas ex meccanico di hot rod californiani. Sono anni importanti per l’industria dell’auto: il toyotismo e l’automazione stavano rivoltando le grandi catene produttive; e si pensi al petrolio e agli equilibri geopolitici che gli Usa hanno costruito intorno ad esso.

L’oggetto inanimato diventa sempre più centrale nelle vite umane. Ciò è tanto più vero in società altamente industrializzate e al contempo caratterizzate da geografie enormi come quella statunitense e quella australiana. La morbosità e il feticismo intorno all’automobile rilanciano nell’immaginario una fissazione di massa. Ecco il ragazzino che sogna l’automobile perché ne ha bisogno per rimorchiare. Quello stesso ragazzino finisce con l’innamorarsi dell’automobile stessa e delle sue forme. Ed ecco il padre di quel ragazzino che ha bisogno dell’automobile per andare al lavoro, ma non un’automobile qualsiasi. Con l’automobile anni Settanta e Ottanta, comincia l’era degli status symbol paradossali: prodotti industriali molto amati ma che non sono certo tesori rari o irriproducibili.

Gli anni Settanta e Ottanta sono seminali perché vivono una interessante scissione: la civiltà delle macchine continua a essere vista con diffidenza, ma i segnali lanciati dalla narrativa popolare dimostrano un atteggiamento nuovo, più aperto. Da una parte l’uomo dipende sempre più dalla tecnologia; dall’altra la tecnologia comincia a spostare mano d’opera e a modificare il mondo del lavoro sempre più violentemente. Forse proprio questa frenesia ha spinto molti artisti del secondo Novecento a interpretare la fascinazione verso l’automobile in termini di amore e morte.

Se prendiamo Duel (Steven Spielberg, 1971) e American Graffiti (George Lucas, 1974) come punti di riferimento di una carsploitation cinematografica possiamo citare una striscia di cult movie distopici e paradossali tra cui spiccano La macchina nera (1977, regia di Elliot Silverstein), Christine - La macchina infernale (1983, regia di   John Carpenter), Brivido - Maximum Overdrive (l’unica regia cinematografica di Stephen King datata 1986). E non dimentichiamo quanto è importante l’automobile nella saga di Ritorno al futuro lanciata da Robert Zemeckis nel 1985. Ma tra tutti i piccoli o grandi film di culto presenti nella lista merita una menzione d’onore quel Peter Weir del 1974: Le macchine che distrussero Parigi (cfr. recensione su "I 400 calci”, 20/05/2015). Meglio noto come The Cars That Ate Paris, è un piccolo horror grottesco pieno di spostati che guidano macchine ricoperte di picche metalliche (omaggiate dal clan dei porcospini in Mad Max: Fury Road). In pratica tutti gli abitanti di Paris, una fantomatica cittadina australiana, amano usare violenza sui turisti di passaggio utilizzando automobili appositamente accessoriate. Il pretesto è quello di rivendere parti delle auto conquistate e pezzi dei corpi delle vittime alla ricerca scientifica. Lo scopo recondito sembra essere semplicemente la messa in scena di un grande rituale basato su quella estetica della morte e quel nichilismo che preconizza l’universo cinematografico di Mad Max. Le carcasse d’auto che punteggiano i boschi intorno a Paris non sono altro che l’anticipazione del mondo desolato di Mad Max: Fury Road, dove la speranza e la vegetazione appaiono ormai in netta minoranza.

Il filone della carsploitation, con la saga di Mad Max in testa, sfonda in più di un punto il guard rail della questione filosofico-antropologica del cosa è umano. Partendo da Marshall McLuhan, David Cronenberg ha già coltivato, sempre nell’ultimo quarto del Novecento, le audiovisioni più sagaci e morbose per raccontare la condizione postumana. Ma solo con lo storytelling dell'automobile nel cinema mainstream anni Settanta e Ottanta si è imposta a livello popolare la questione di una nuova relazione dell’uomo con i suoi artefatti. Nasce un sistema-uomo nel quale l’oggetto inanimato acquisisce uno statuto quasi “naturale” arrivando a condizionare le categorie dell'affettività. Si comincia a familiarizzare con la condizione postumana intesa come svolta del pensiero contemporaneo. Nascono lì, in quelle storie, le prime anticipazioni concrete delle sfide della biopolitica, della cibernetica e della tecnocrazia. Si avvia al tramonto la dicotomia cartesiana che, come una forbice, aveva diviso cose e pensieri (cfr. Marchesini, 2002).

In Mad Max: Fury Road il genere umano è fortemente legato ad un universo di oggetti e dispositivi inanimati. Indizi di condizione postumana vi sono praticamente in tutti i personaggi. Furiosa non ha un braccio e deve fare uso di una protesi meccanica per guidare il suo automezzo. Le giovani donne di Immortan Joe sono inizialmente bardate con cinture di castità dentate di cui solo il capo tribù possiede le chiavi. Lo stesso Immortan Joe e i suoi figli sono caratterizzati da menomazioni e malattie che obbligano all’utilizzo di congegni per sopravvivere. Altre figure evocative sono le gigantesche nutrici, donnoni legati a una perversa apparecchiatura progettata per mungerne i seni al fine di produrre il cosiddetto “latte di madre”. Nonostante il dopo bomba, il genere umano cerca morbosamente il contatto con gli oggetti e le protesi accrescitive. Del resto le circostanze spingono alla regressione tribale ma non cambia l’orizzonte antropologico dell’uomo postmoderno.

Teschi, volani di automobili e copertine di dischi metallari come oggetti di culto. Nella società del dopobomba i significati condivisi lasciano trapelare un sapere archeologico capace di dar voce alle cose. La mentalità e i processi cognitivi degli umani sopravvissuti continuano ad abbracciare la materialità degli oggetti esattamente come prima dell'apocalisse: in una prospettiva postmoderna l'inanimato e l'invisibile non sono più semplici riflessi della cultura. Per questa via, George Miller ci fa entrare in quello spazio apparentemente immateriale che è la mente o l'immaginazione di questi uomini che, ancora fasciati da un’armatura cognitiva postmoderna, sono costretti a vivere, di fatto, in una società tribale. Ne scaturisce uno scenario inedito che non può contare sulle tecnologie comunicative, ma che è comunque molto lontano da una società pre-moderna. I processi di trasmissione culturale dovrebbero essere affermati dall'oralità ma, di fatto, anche gli oggetti inanimati e il loro design hanno un ruolo fondamentale.

Torna in mente Tempo di leggere (1959), ottavo episodio della prima stagione di Ai confini della realtà, scritto da Rod Serling. L'ometto con gli occhiali voleva solo un po’ di tempo per sé, per coltivare la sua grande passione ovvero la lettura. Di libri e di tempo per leggerli ne avrà quanto ne vuole dopo un conflitto totale che rade al suolo la civiltà. Si trascina da solo, apparentemente unico superstite, in una landa desolata, Ma non soffre la solitudine: capisce che ha finalmente il tempo di leggere. Ma cosa accade quando si rompono gli occhiali? Che succede quando vengono meno le interfacce culturali e sensoriali che siamo abituati a dare per scontate? L'ometto con gli occhiali farà presto a rendersi conto di quanto sia sottile e delicato il filo che lega pubblico, narratore e oggetto della narrazione. L’uomo civilizzato che volta le spalle alla cultura orale paga il conto con la sua dipendenza da interfacce, tecnologie e produzioni industriali.

Si sente ovunque in questo Mad Max: Fury Road l’urgenza di cercare una rotta, di esplorare una mappa. Dove si va? Di là un deserto di sale, di qua morte sicura tra le bande di predoni, dall’altra parte una delle tante cittadelle fortificate e meccanizzate, condannate a vivere per sempre gli schemi del circuito potere-risorse. A ben vedere qui abbiamo gli elementi essenziali del viaggio dell'Eroe (cfr. Campbell, 2012). Origini misteriose e perse nel tempo (Furiosa rapita); relazione complicata con la famiglia (Furiosa scappa dalla violenza della Cittadella e dal crudele Immortan Joe); ritiro dalla società e apprendimento di una lezione con l'aiuto di una guida soprannaturale (l'avventura con Mad Max alla ricerca del luogo verde); ritorno alla società con nuova consapevolezza.

In questo viaggio la posta in palio è la vita in tanti sensi diversi. Proviamo ora a sovrapporre moderno e post-moderno con una delle mappe più famose della narrativa: il romanzo L’Isola del Tesoro (Stevenson, 2014), uno degli archetipi dell'industria culturale basata sui generi. Robert Louis Stevenson anticipa molti aspetti del futuro immaginario fantavventuroso spingendo il tasto della paura con situazioni insolite, la diffidenza nei confronti del diverso. Soprattutto ci sbatte in faccia la menomazione fisica e le forze diaboliche che ne conseguono. Arti amputati, guance tranciate e ricucite, vecchi ciechi infuriati, strane forme tumorali che sembrano vivere autonomamente sottopelle: tutti elementi che avvicinano il film di Miller al capolavoro di Stevenson sul piano della tensione emotiva. Ma Mad Max: Fury Road è un racconto postmoderno: la mutazione e la menomazione sono in tutti, buoni e cattivi. L’altra differenza è che il bottino è la sopravvivenza della specie, non l’accumulo di capitale.

Immortan Joe coltiva una violenta estetica della morte, sapendo bene però quanto sia centrale il preservare la vita (i giardini pensili della Cittadella, l’estrazione dell’acqua-cola, le Mogli). Incoraggia un culto basato sul design di strumenti di caccia sempre più creativi e micidiali e, nello stesso tempo, tiene chiuse in cassaforte le sue donne.

Con il terzo capitolo della saga Mad Max - Oltre la sfera del tuono George Miller aveva raccontato una sostanziale sovrapposizione tra potere e società dello spettacolo. L’intrattenimento a Bartertown si chiamava Thunderdome, la sfera del tuono dove “due uomini entrano, un uomo esce”. L'arena dei gladiatori blandisce i gusti di un pubblico assuefatto alla violenza più brutale e meccanica trasformandola in rito. Il discorso, dal 1985 al 2015, acquisisce ulteriori sfumature. In Mad Max: Fury Road il potere gioca con l’invisibile in maniera ancora più spinta.

Immortan Joe è il capo della Cittadella, la brutale comunità da dove parte la storia. La base sociale più ampia della piramide sociale è costituita da un popolo umiliato da fame e malattie genetiche invalidanti. Il popolo viene tenuto buono dalla carità del governatore-sciamano il quale occasionalmente apre i giganteschi idranti che distribuiscono acqua (Joe la chiama “acqua-cola”) spruzzandola sulle teste senza complimenti. La casta dei guerrieri, i “figli della guerra”, viene gestita tramite un armamentario rituale particolarmente curato dal governatore. Le ispirazioni sembrano venire da vecchie copertine di dischi heavy metal miracolosamente scampati alle deflagrazioni nucleari. Man mano che la civilizzazione arretra ecco emergere modelli e subculture dall’insospettabile valore mitopoietico.

Grazie a questo universo simbolico Immortan Joe arriva a convincere un esercito di schiavi e kamikaze dell’esistenza di una strada che conduce a un mistico e non meglio precisato Valhalla. Insomma Mad Max: Fury Road riprende quello scenario da fantascienza sociologica dei primi capitoli della saga, ma si muove verso sfumature antropologiche e filosofiche che giocano sul rapporto tra il potere, l’invisibile e la trasmissione dei miti. Tramite oggetti e corpi. Furiosa intuisce che bisogna salvare l’unico vero bene di questa folle società postatomica: le donne in grado di generare figli senza malformazioni genetiche. Il nucleo profondo di questa storia di una società futura passa per un discorso sul corpo umano.

Oggi le reti informatiche estendono il nostro sistema nervoso al di fuori di noi: si viaggia velocemente verso il tracciamento digitale di tutte le connessioni che avvengono all'interno del nostro cervello. Questa mappatura digitale ci indica chiaramente la via di un'uscita dal corpo biologico. Quando microchip e protesi comunicative penetreranno la nostra carne allora sarà caduto anche l'ultimo tabù di questo amplesso con la tecnologia che perdura ormai da decenni. Città, mass-media, sistemi di informazione ultraveloci: ormai postumani, abbiano perso quello che McLuhan chiamava “il mondo interiore dell’uomo orale” (McLuhan, 2008), ovvero quel “groviglio di emozioni e sentimenti complessi che il pratico uomo d’Occidente ha da tempo corroso o eliminato a vantaggio dell’efficienza e della praticità” (ibidem). Il cinema, come la letteratura di genere e tutte le altre forme espressive della narrativa industrializzata, ha dato un robusto contributo a questo processo culturale.

In un mondo privo di tecnologie per comunicare, si sogna un passato che sembra sempre più un miraggio man mano che si succedono le generazioni. Si fantastica di un tempo in cui esisteva una cosa chiamata intrattenimento. “Ognuno aveva il proprio show”: ecco come ricorda lo storytelling la vecchia motociclista mentre scruta il cielo notturno osservando la corsa ormai insensata di un vecchio satellite. Cosa trasmetteva? Canali tv a pagamento? Internet? YouTube?

Allora dove si va? Il fatto che Max sia un tizio sull'orlo della follia la dice lunga sul posizionamento del fattore umano nel perimetro della questione. Coltivare il verde, creando giardini tramite le tecnologie? O cercare un nuovo luogo naturalmente fertile? Auguriamo alle Mogli-Madri-Nonne della banda messa insieme da George Miller tutta la fortuna necessaria per il loro viaggio tra umano e postumano, tra genetica e merci.

Saranno queste le uniche storie che valga la pena raccontare in futuro? E in che modo le racconteremo? Con quali tecniche? Forse sono proprio questi i sentieri selvaggi in cui si sta addentrando il cinema postmoderno: andare avanti o tornare indietro? Il percorso più semplice per la salvezza sembra essere tornare al punto di partenza portando però una nuova consapevolezza

 


 

LETTURE

  Joseph Campbell, L'eroe dai mille volti, Lindau, Torino, 2012.
  Roberto Marchesini, Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.
  Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 2008.
  Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro, Einaudi, Torino, 2014.

 


 

VISIONI

  John Carpenter, Christine - La macchina infernale, Sony Pictures, 2015 (home video).
John Ford, Sentieri Selvaggi, Warner Home Video, 2000 (home video).
Stephen King, Brivido - Maximum Overdrive, Studio Canal/Pulp Video, 2014(home video).
George Lucas, American Graffiti, Universal Pictures, 2014 (home video).
George Miller, Mad Max - Oltre La Sfera Del Tuono, Warner Home Video, 2015 (home video).
Rod Serling, Ai confini della realtà - Stagione 1, Dnc Communications, 2005 (home video).
Elliot Silverstein, La macchina nera, Universal Pictures, 2005 (home video).
Steven Spielberg, Duel, Universal Pictures, 2015 (home video).
Peter Weir, Le macchine che distrussero Parigi, RHV - Ripley's Home Video, 2011 (home video).
Robert Zemeckis, Ritorno al futuro, Universal Pictures, 2010 (home video).