LETTURE / LA POLITICA DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO


di Anthony Giddens / il Saggiatore, Milano, 2015 / pp. 287, € 20,00


 

La guerra calda per raffreddare il pianeta 


di Roberto Paura

 

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All’inizio del 2015 il Bulletin of the Atomic Scientists, eminente organo nato all’indomani delle bombe su Hiroshima e Nagasaki su iniziativa degli scienziati atomici, preoccupati per le conseguenze di una guerra nucleare su scala globale, ha portato avanti di due minuti le lancette del Doomsday Clock, l’orologio dell’apocalisse. Oggi ci troviamo ad appena tre minuti dalla fine del mondo. Simbolo della guerra fredda, il Doomsday Clock sembrava ormai appartenere al passato. Aveva raggiunto il momento di maggiore vicinanza alla mezzanotte dell’umanità nel 1953, quando l’Urss sperimentò la sua prima bomba all’idrogeno, appena un anno dopo l’analogo primo test americano. Poi, dopo la fine dell’Unione sovietica, l’ombra dell’apocalisse si era allontanata di parecchio, le lancette erano arrivate a segnare ben 19 minuti alla mezzanotte. Come mai, nel 2015, ci siamo improvvisamente risvegliati in un mondo sull’orlo della catastrofe? Secondo gli scienziati del Bulletin – che oggi non comprende più solo scienziati atomici ma in generale membri della comunità scientifica preoccupati delle conseguenze di un uso politicamente improprio della scienza e della tecnologia – ciò dipende principalmente dal fatto che “nonostante alcuni modesti sviluppi positivi nell’arena del cambiamento climatico, gli sforzi attuali sono del tutto insufficienti per prevenire un riscaldamento catastrofico della Terra”. Improvvisamente, la minaccia del cambiamento climatico ha assunto una consistenza ben maggiore di quella della “guerra termonucleare globale”.

Nel suo saggio La politica del cambiamento climatico, il sociologo e politologo Anthony Giddens si aggiunge alla serie di importanti personalità, come l’ex vicepresidente americano Al Gore, che hanno deciso di impegnarsi decisamente sul fronte della lotta al riscaldamento globale, che dal 1990 a questa parte ha ormai sostituito decisamente la guerra nucleare come “scenario apocalittico” per antonomasia. Gli elementi in comune tra i due scenari, del resto, non sono pochi. In entrambi i casi ci troviamo di fronte alla capacità della tecnologia sviluppata dall’uomo di trasformare il pianeta stesso, rendendolo alla lunga inabitabile dall’uomo. Una capacità, questa, a cui la civiltà ha avuto accesso solo a partire dal 1945, con la bomba atomica, e che nel corso degli anni ha visto significativamente ampliare il suo ventaglio di strumenti: dai CFC, i famosi clorofluorocarburi che hanno aperto il buco nello strato d’ozono, e che hanno costretto la civiltà occidentale a confrontarsi con la scomoda verità che anche il semplice gesto di spruzzare un po’ di deodorante sotto le braccia può compromettere la nostra esistenza sulla Terra; fino alle ipotesi più estreme, dai virus modificati in laboratorio a nanotecnologie fuori controllo che, secondo realtà che si occupano di “rischi esistenziali”, potrebbero produrre scenari apocalittici.

Il cambiamento climatico è senza dubbio lo scenario apocalittico più concreto e vicino. Ce lo ricorda non solo il Bulletin, ma anche l’Ipcc, il panel intergovernativo sul cambiamento climatico voluto dall’Onu, i cui rapporti periodici – uno ogni sei anni – sono autentici gridi d’allarme, non a caso anche molto criticati, come racconta Giddens. Lo scrittore Michael Crichton lo chiamò “stato di paura” in uno dei suoi romanzi forse meno noti ma più discussi (Crichton, 2005): la retorica apocalittica che realtà come l’Ipcc usano per sollecitare i decisori politici a intervenire alimenta senza dubbio un generale sentimento d’inquietudine nei confronti del nostro futuro. Giddens, che non è certo uno scettico sul tema, ricorda lo scandalo che si diffuse in merito allo scambio di mail tra alcuni degli estensori del rapporto Ipcc del 2007, che rivelavano l’esistenza di un uso consapevole di linguaggi catastrofisti, in alcuni casi a scapito dell’esattezza scientifica, nella redazione del rapporto. Tant’è vero che una delle ipotesi più spaventose presenti in quel documento, lo scioglimento completo dei ghiacciai dell’Himalaya entro il 2035, ripresa dai media di tutto il mondo, è stata smentita da analisi indipendenti successive.

Se a oggi gli sforzi per mitigare il cambiamento climatico si sono rivelati del tutto insufficienti, è proprio a causa della reazione negativa di una parte non irrilevante dalla comunità politica nei confronti di questo “stato di paura”. È notizia recentissima, ad esempio, che in Florida il governatore repubblicano Rick Scott ha vietato l’utilizzo dei termini “cambiamento climatico” e “riscaldamento globale” nei rapporti del dipartimento per l’ambiente, condannando l’allarmismo eccessivo che ruota intorno a questi due concetti. Gli Stati Uniti, è noto, sono stati tra i più restii ad allinearsi alle convenzioni internazionali sul tema, come il protocollo di Kyoto. L’amministrazione di George W. Bush non firmò l’accordo, riducendone così significativamente gli effetti, dato che gli Usa restano a oggi la nazione con il più alto tasso pro-capite di emissioni di anidride carbonica e altri gas serra, responsabili del riscaldamento globale. Bush non firmò l’accordo perché temeva gli effetti negativi sullo sviluppo economico degli Stati Uniti rispetto alla crescita di competitor in pericolosa ascesa, prima di tutti la Cina. Nel vecchio ma sempre attuale “grande gioco” della politica di potenza – su cui Giddens si concentra nell’ultima parte del suo libro, quella più politica – il cambiamento climatico diventa un tema come tutti gli altri: se gli Usa devono ridurre le loro emissioni, allora anche gli altri devono adeguarsi, per evitare che l’equilibrio internazionale venga compromesso. Se invece, come proponeva il protocollo di Kyoto, i paesi in via di sviluppo sono esentati dalla riduzione delle emissioni, grandi potenze interessate a mantenere il loro primato mondiale – gli Usa ma anche la Cina e la Russia – non ci staranno. La logica è la stessa dei negoziati sulla riduzione degli armamenti nucleari: se gli Usa devono ridurre le bombe atomiche in loro possesso, stessa cosa deve fare la Russia, altrimenti l’equilibrio viene compromesso. È su queste basi che paesi come Iran e Corea del Nord a lungo non hanno voluto sedersi ai tavoli del negoziato: perché loro dovrebbero rinunciare alla possibilità di possedere un arsenale nucleare, mentre gli Stati Uniti (che possono colpire in qualsiasi momento in tutto il mondo) no?

Alla base di questi ragionamenti c’è un’altra forma di “stato di paura”, più atavica di quella prodotta dal cambiamento climatico, e che negli anni della guerra fredda abbiamo imparato a conoscere con il termine “equilibrio del terrore”. L’intelligenza del saggio di Giddens sta nel riportare il dibattito sul cambiamento climatico all’interno di questa cornice, più consona ai modi di ragionare degli stati nazionali. D’altronde, avverte Giddens, gli esempi dimostrano che tutti i tentativi di risolvere il problema attraverso il consenso internazionale, sotto forma di accordi presi in grandi consessi annuali (Rio, Kyoto, Copenaghen, Cancun, quest’anno toccherà a Parigi), o pressioni esercitate nell’ambito delle Nazioni Unite, sono destinati a fallire o a dispiegare effetti troppo blandi per impedire lo scenario peggiore. “Non voglio negare che raggiungere accordi internazionali sia essenziale o che molte altre agenzie, incluse le Ong e le imprese private, avranno un ruolo fondamentale. Tuttavia, nel bene e nel male, lo stato mantiene molti dei poteri che serve mobilitare se si vuole ottenere un impatto serio sul riscaldamento globale”, ragiona il politologo britannico. E, verso la fine del libro, precisa: “È del tutto inutile analizzare ciò che potrebbe accadere grazie alla cooperazione internazionale per fermare il cambiamento climatico senza porre l’analisi nel contesto delle rivalità che mettono i bastoni tra le ruote agli sforzi di collaborare. Perché saranno queste rivalità a determinare le reali opportunità esistenti, i punti sui quali si può davvero far leva”.

Quanto sia vera quest’affermazione, lo si capisce se si legge un libro di Richard Muller, a lungo consulente scientifico del governo americano: Energia per i presidenti del futuro (Muller, 2013). Muller, fisico all’università della California a Berkeley, tratta il tema del cambiamento climatico da una chiara prospettiva americano-centrica, dal momento che nel suo libro intende fornire consigli sul tema a un pubblico composto da futuri, potenziali presidenti degli Stati Uniti. Muller si concentra proprio sulla Cina e sostiene, tra le righe, che gli Usa non dovrebbero impegnarsi nel taglio alle emissioni di gas serra se la Cina non volesse adeguarsi a sua volta. “Se foste il presidente della Cina mettereste in pericolo il progresso del vostro paese per evitare un aumento di qualche grado della temperatura?”, chiede Muller. Una considerazione che può applicarsi anche al caso americano, naturalmente, tant’è vero che lo scienziato arriva alla conclusione prospettata da Giddens: “Dare il buon esempio non servirà a nulla se le economie emergenti vorranno raggiungere un pieno sviluppo prima di ridurre le emissioni di anidride carbonica. Entro il 2040 quella cinese potrebbe diventare l’economia più potente sulla faccia della terra. L’Occidente può discutere o adulare, ma non sarà in grado di imporre sanzioni o misure più restrittive; le temperature saranno alla mercé della parte del mondo diventata ricca per ultima”.

Proprio sulla scorta di questi ragionamenti di realpolitik, nel suo libro Giddens sostiene che il movimento dei Verdi abbia fatto più male che bene alla causa del contrasto al cambiamento climatico. Ai Verdi va sicuramente riconosciuto il merito di avere tra i primi fatto aprire gli occhi sul problema all’opinione pubblica, di aver portato il riscaldamento globale all’attenzione mondiale. Ma negli anni la commistione tra istanze ambientaliste e teorie politiche di sinistra ha reso i Verdi sospetti alle forze politiche più moderate e conservatrici, con il risultato che l’agenda dei Verdi è stata rifiutata in toto dalla maggior parte dei paesi occidentali senza separare il grano dall’oglio, senza cioè distinguere tra agenda politica e agenda ambientalista. Il cambiamento climatico, per moltissimi anni, è stato considerato una roba da figli dei fiori cresciuti, una fissazione di realtà considerate estremiste, come Greenpeace. Secondo Giddens: “Il movimento verde perderà (o ha già perso) la propria identità mano a mano che la politica ambientale entrerà a far parte del mainstream. Benché i gruppi e i partiti verdi che credono in queste idee, ovviamente, continuano a esistere, l’assimilazione dei verdi nella politica istituzionale comporta l’abbandono di quegli aspetti delle teorie «verdi» dell’azione che intrinsecamente non hanno nulla a che fare con i valori «verdi»”.

Nel grande gioco della politica del cambiamento climatico, insomma, sarà il realismo, ancora una volta, a dettare le regole. La contesa sui fondali del Circolo Polare Artico, che il riscaldamento globale sta gradualmente liberando dai ghiacci, lo dimostra: Russia, Stati Uniti, Norvegia, Danimarca e altri paesi più o meno vicini all’area stanno scaldando i muscoli e si preparano a rivendicare lo sfruttamento dei giacimenti di gas e petrolio offshore. Invece di angosciarsi di fronte all’immagine icastica dell’orso polare alla deriva su un piccolo lastrone di ghiaccio, gli stati nazionali pensano innanzitutto a ottenere il massimo vantaggio dalle conseguenze del riscaldamento globale. La ragione è molto semplice: non farlo vuol dire permettere alla nazione rivale di acquisire un pericoloso vantaggio. Giddens lo ha capito e il suo libro permette di fare un grande passo in avanti nella discussione sul cambiamento climatico. L’allarmismo destinato all’opinione pubblica e ai decisori politici non è la strategia vincente: lo “stato di paura” deve prima fare i conti con la coda lunga dell’equilibrio del terrore tra gli stati nazionali. Se vogliamo vincere la sfida, dobbiamo tornare a ragionare come ai tempi della guerra fredda, con la differenza che questa volta sarà molto più calda.

 


 

LETTURE

 Michael Crichton, Stato di paura, Garzanti, Milano, 2005.
Richard Muller, Energia per i presidenti del futuro, Codice edizioni, Torino, 2013.