VISIONI / THE WALKING DEAD


di Frank Darabont / AMC / Quinta stagione, 2015


 

Polisemia dello zombie (post)moderno


di Giulia Iannuzzi

 

image

Non importa quanto certi tropi siano noti, usati e riusati: restano incredibilmente vitali, e in taluni momenti tornano di moda, per parlare ai loro fruitori di costanti umane e di mutamenti storici, beneficiando dell'inventiva dei nuovi autori che vi si cimentano. Lo zombie è certamente tra queste immagini. Se parte della fortuna del "morto vivente" deriva senz'altro dal nostro rapporto con la morte, che continua a fungere da inesauribile e terrificante motore dell'immaginario umano, lo zombie ha di recente vissuto un revival interessante, principalmente ma non solo ad opera di produzioni per il piccolo schermo, e si è caricato di una serie di significati e risvolti diversificati, diventando veicolo espressivo di un'ampia serie di timori e fascinazioni tipiche del tardo capitalismo nordamericano ed europeo.

La serie televisiva The Walking Dead, sviluppata da Frank Darabont per la AMC (network americano noto prima del 2002 come American Movie Classics), è esemplare di questo fenomeno, nonché di altre dinamiche produttive tipiche del sistema mediale contemporaneo. Iniziata nel 2010 e giunta nel 2015 alla sua quinta stagione, The Walking Dead è a suo modo parte della nuova età dell'oro della fiction televisiva americana ed è nata sotto lo stesso tetto - quello della AMC - dove hanno visto la luce Mad Men di Matthew Weiner (2007-2015) e Breaking Bad di Vince Gilligan (2008-2013). Serie che, spaziando dal dramma all'ironia, dall'ambientazione storica al politicamente scorretto, sono già state consacrate dai premi, dal pubblico e soprattutto dalla critica come classici contemporanei del piccolo schermo. Non a caso in Italia l'editore Mimesis ha di recente scelto di lanciare la sua nuova collana, Narrazioni seriali - dedicata ai Television Studies - con un saggio di Chiara Checcaglini che verte proprio su Breaking bad. La chimica del male: storia, temi, stile.

Con altre serie del fantastico, The Walking Dead ha invece in comune il fatto di trovarsi al centro di un fitto reticolo di adattamenti trans-mediali, di fungere da centro di un franchise, in cui l'universo finzionale della serie si compone e sovrappone con i segmenti ospitati da prodotti diversi. In primo luogo la serie è basata sugli albi a fumetti creati da Robert Kirkman nel 2003, per i disegni di Tony Moore (a cui è subentrato Charlie Adlard nel 2007); assieme alla seconda stagione della serie, la AMC ha rilasciato un lungometraggio animato basato sul primo albo; nel 2012 sono usciti cinque capitoli di un videogioco creato dalla Telltale Games, cui sono seguiti nuovi capitoli nel 2013 e nel 2014; e si potrebbe continuare con i romanzi scritti da Kirkman e Jay Bonansinga, un gioco da tavola, per non menzionare il – meno narrativo ma non meno lucrativo – merchandising (action figures e gadget vari); piuttosto che il talk show presentato da Chris Hardwick, dedicato a commentare gli episodi – The Talking Dead (2011-), e così via. Gli universi narrativi di successo, oggigiorno, proliferano più che mai, all'interno di produzioni i cui risvolti ambigui – a mezza strada tra espressione artistica e marketing – sarebbero da soli sufficiente motivo di interesse critico.

La mid-season premiere del 10 febbraio 2013 (The Suicide King, nono episodio della terza stagione), ha registrato negli Usa 10,8 milioni di spettatori. Il dato è citato nell'interessante antologia critica Thinking Dead, curata da Murali Balaji nel 2013, e secondo altre fonti andrebbe portato addirittura a 12 milioni; si tratta in ogni caso di un record storico per una serie trasmessa via cavo, battuto pochi mesi fa dal nuovo record stabilito dalla premiere della quinta stagione (No Sanctuary, 12 ottobre 2014, più di 17 milioni di spettatori secondo i siti di informazione TV by the Numbers e TV Fanatic). Accanto ai dati sugli ascolti e agli studi critici, a misura del successo della serie e di quello più generale del tema dell'apocalisse zombie, si potrebbero citare i numerosi panel a tema nell'ultima World Science Fiction Convention (Loncon 3, Londra, 14-18 agosto 2014; quattro panel centrati sullo zombie, altri sette su temi che lo coinvolgono direttamente), nonché i più svariati fenomeni di costume: convention ed eventi dedicati, blog e siti amatoriali, guide alla sopravvivenza compilate da appassionati o perfino da istituzioni (si veda la guida Preparedness 101: Zombie Pandemic, vademecum educativo in forma di graphic novel distribuito dall'Office of Public Health Preparedness and Response del Dipartimento per la salute pubblica statunitense nel 2014).

Che cosa ha reso The Walking Dead una serie di successo? Il successo di pubblico è un tema sempre complesso e interessante su cui riflettere; costringe a considerare nell'oggetto artistico una pluralità di fattori, a vari livelli artistici e produttivi, a cui andrebbero aggiunte riflessioni sulle dinamiche proprie della ricezione, dalla fruizione del singolo spettatore al piano sociologico del passaparola e dell'immaginario collettivo.

Guardando al primo fronte non si può fare a meno di notare, nel caso della nostra serie, una contaminazione di generi precipua, che associa l'horror al film di ambientazione post-apocalittica e al survival movie. The Walking Dead si ambienta in un'America del nord in cui un'epidemia planetaria ha mutato in zombie migliaia di morti, radendo letteralmente al suolo la civiltà. Rick Grimes, vice-sceriffo di una contea vicino ad Atlanta (Georgia), scopre tutto ciò risvegliandosi dopo alcune settimane di coma a seguito di un incidente. Ritrovati la moglie e il figlio, dovrà lottare per la sopravvivenza in questo nuovo barbaro mondo, assieme a un manipolo di sopravvissuti.

Qui l'horror è inteso sia come formulario ideale della suspense sia nella sua declinazione più spensieratamente gore. La dinamica emozionale portante che conduce il fruitore è, in ciascun episodio e nei cliffhangers perfetti, l'onda continua della tensione che cresce e viene rilasciata: quante volte, in ciascuna puntata, uno dei protagonisti rischia il morso fatale? Non importa la ripetizione: se la scena è ben costruita – e lo è – lo spettatore viene tenuto immancabilmente con il fiato sospeso.

Sembra poi che sceneggiatori e registi facciano quasi un punto d'onore dell'inventare continuamente nuovi modi di fare a pezzi gli zombi e spargerne o usarne le membra con sempre nuova inventiva (e lo zombie fatto bersaglio sente forse l'influenza di fortunati videogiochi come Resident Evil). Il secondo episodio della prima stagione – Guts (titolo che in inglese gioca sul doppio senso di “viscere” e di “fegato” inteso come “coraggio”, tradotto in Italia con Una via d'uscita) – contiene una scena emblematica: per sfuggire da un edificio assediato dagli zombie in Atlanta, Rick e il compagno Glenn si cospargono di sangue e interiora, in modo da poter raggiungere, non percepiti dagli zombie, un mezzo di trasporto. La scena dei protagonisti che fanno a pezzi un cadavere marcio e si spalmano addosso il contenuto (con il commento ironico della tessera da donatore d'organi rinvenuta nelle tasche del corpo) sintetizza il gusto per l'aspetto splatter e prefigura simbolicamente la catabasi dei personaggi in un mondo in cui gli zombie sembrano aver preso il sopravvento e la violenza è diventata il più ordinario dei linguaggi.

Il casting suggerisce un'ulteriore osservazione sulla localizzazione della vicenda. L'attore londinese Andrew Lincoln (al secolo Andrew James Clutterbuck) nel ruolo di Rick, recita, stagione dopo stagione, con un marcato accento degli Stati Uniti del sud. Una parlata che rimanda al discreto quid americano della serie e non cessa di ricordarci, assieme ad altri elementi, l'ambientazione statunitense della vicenda. Il cappello a tesa larga e il distintivo di Rick sono vestigia di uno stato di cose scomparso, e non di meno emblemi di un qualche mandato morale alla guida nel tentativo di costruire un nuovo ordine. Nella celebre locandina promozionale della prima stagione, un'immagine di Rick con il cappello da sceriffo che si dirige a cavallo sulla strada desolata che porta verso Atlanta traspone un ingrediente tipico del western entro una cornice post-catastrofica e rimanda a una nuova frontiera americana, non più ad ovest, ma piuttosto tutt'attorno all'uomo non meno che al suo interno.

La “tabula rasa” creata da un evento apocalittico è parte di un immaginario diffuso che turba e affascina insieme. Apparente paradiso libertario, disponibile per la costruzione di una società nuova e migliore, lo spazio fisico e sociale post-apocalittico si rivela, a un secondo sguardo, un contesto in cui le capacità professionali che detengono una posizione di forza nella nostra epoca – pensiamo ai lavori della conoscenza, dell'amministrazione, e così via – perdono ogni valore, in favore di un ritorno in auge della forza e delle abilità manuali che garantiscono la mera sopravvivenza fisica (si veda, per qualche esempio e spunto di analisi su questo, il saggio di Jennifer Proffitt e Rich Templin nel già citato Thinking Dead). Dell'aspetto liberatorio insito nel crollo degli apparati di potere costituiti si scorge, in The Walking Dead, solo qualche traccia in quanto di positivo è suggerito nelle dinamiche di “tribalizzazione” e nella vistosa estraneità alla tecno-scienza che caratterizzano la vita dei sopravvissuti. La tecno-scienza contemporanea è per altro obliterata come responsabile della catastrofe virale; un'occhiata alle figure e ai luoghi legati alla scienza nella serie sarà rivelatrice: il pieno fallimento del Center for Disease Control nel proteggere i sopravvissuti e portare avanti la ricerca, fallimento che culmina nel simbolico suicidio dell'unico ricercatore sopravvissuto (durante la prima stagione); la frode rappresentata dal sedicente scienziato Eugene Porter (nella quarta e parte della quinta stagione); l'opportunismo e i doppi giochi del medico Steven Edwards (nella quinta stagione).

D'altronde il “nuovo inizio” che la catastrofe sembrerebbe offrire perde presto tutto il suo fascino davanti al ritorno della legge del più forte. Se la violenza splatter declinata contro lo zombie non è priva di un che di “giocoso” e liberatorio nel suo eccesso, la violenza che caratterizza gli sparuti sopravvissuti umani, nel quadro di una società ormai andata allo sfascio costituisce forse l'aspetto più drammatico della serie e senz'altro uno dei più interessanti. Qui subentrano, accanto all'horror, il repertorio e le riflessioni tipiche del survival movie, che nei primi anni Duemila hanno fatto la fortuna di Lost (2004-2010). Come sempre, le radici possono essere ripercorse fino a ben più indietro nel tempo. Per fermarci in epoca contemporanea possiamo menzionare almeno l'inquietante e seminale Lord of the Flies di William Golding (1954), inevitabile riferimento quanto all'organizzazione sociale di sopravvissuti isolati. Si pensi al tema dell'autorità e della leadership: come in Lost, anche in The Walking Dead vari personaggi protagonisti e comprimari rappresentano in fondo diversi modelli di leadership concorrenti. E questo non ci stupisce: come la comunità umana si organizza, come sceglie di farsi guidare e verso dove sono domande che oggi come ieri non ci si smette di porre e che toccano il cuore del nostro vivere civile e personale. Così in The Walking Dead la vicenda personale di Rick – vice-sceriffo prima dell'apocalisse e protagonista della storia, seppure all'interno di una vicenda corale – coincide con la sua vicenda “pubblica” di ascesa, compromessi, cambiamenti, in qualità di leader di un piccolo gruppo di sopravvissuti.

Ogni stagione è a suo modo segnata dalle tappe che Rick compie su questo piano: la riconquista del proprio ruolo al risveglio dal coma nella prima stagione – in cui non casualmente il posizionamento nella collettività sociale e quello nella famiglia “di sangue” (genitoriale e maritale) si sovrappongono – via via attraverso abdicazioni e ritorni, fasi democratiche e autocratiche. Rick impersona la ricerca di un difficilissimo equilibrio tra valori etici e sopravvivenza, tra legge morale e necessità di lotta, e sembrerebbe giungere (almeno temporaneamente), nell'apicale sedicesimo episodio della quarta stagione, ad abbracciare il monopolio della violenza come base dell'autorità che presiede all'organizzazione collettiva. Nella fattispecie, quando il figlio Carl è esposto alla minaccia di un abuso sessuale, Rick sconfigge gli antagonisti con un gesto di violenza tra i più animaleschi e brutali che si possano concepire: azzannando la giugulare dell'assalitore. Tanto più significativa dopo una scena del genere è la spietata sicurezza con cui, subito dopo, riprende la guida dei suoi, fatti prigionieri nella sinistra comunità di Terminus.

Opportunismo, sciacallaggio, prevaricazione pongono Rick e i suoi compagni, nel corso della serie, davanti a modelli di comando alternativi e terribili, via via assimilati (si pensi al ruolo di guide etico-culturale e spirituale rivestito rispettivamente da Dale Horvath nella prima stagione ed Hershel Greene dalla seconda, portati ottimamente sullo schermo da Jeffrey DeMunn e Scott Wilson) o sconfitti ed espulsi (il letale Governor – David Morrissey – nella terza e quarta stagione). Così ciascuna comunità antagonista incontrata dai nostri “eroi” rappresenta un diverso esperimento sociale, dalla dittatura e violenza armata che rendono prosperosa Woodbury, la cittadina dominata dal Governatore, alla bruta spoliazione fatta regola dai claimers; dal cannibalismo che si cela sotto l'immagine spiritualeggiante di Terminus, ai compromessi e alla manipolazione che rendono il Grady Memorial Hospital un sistema pressoché concentrazionario.

Se nel repertorio horror c'è una figura che ben si presta a “reagire” a contatto del tema della collettività è d'altronde proprio lo zombie. Più di altre creature soprannaturali, l'umano contagiato che si rivolta contro il suo consimile si presta a dare (deforme) corpo alla proiezione di un'alterità i cui confini minacciano costantemente di sparire e risucchiarci. È naturale che questa declinazione moderna dello zombie, a partire da Night of the Living Dead di George A. Romero (1968), sia stata veicolo sul grande schermo per riflessioni di cogente interesse anche politico e socio-politico (si veda su questo il recente contributo di un maestro come Danilo Arona, affiancato da Selene Pascarella e Giuliano Santoro in L'alba degli zombie, 2011). Dall'eloquente centro commerciale di Dawn of the Dead di Romero (1978), gli zombi hanno fatto moltissima strada, barcollando o – adeguandosi al velocizzarsi dei ritmi cinematografici degli ultimi anni – persino correndo. Dopo la declinazione d'azione proposta dal franchise di Resident Evil (1996-2015) e il rilancio d'autore segnato da 28 Days Later di Danny Boyle nel 2002 (direttamente ripreso e omaggiato nel pilota della nostra The Walking Dead), vale la pena segnalare almeno il recente World War Z (2013). Di quest'ultimo, già definito il primo colossal zombie mainstream (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 46), si notano le icastiche, disperate scene di massa, come quella in cui una fiumana di zombi travalica il muro entro cui si è chiuso lo Stato di Israele.

Anche sul piccolo schermo non sono mancate declinazioni differenti del tema. Una serie d'autore spregiudicatamente camp come American Horror Story di Ryan Murphy e Brad Falchuk (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 52) ha optato per una ripresa filologica della figura tradizionale dello zombie del folklore haitiano: nella terza stagione, Coven (2013-2014), gli zombie sono cadaveri richiamati in vita e schiavizzati da una potente strega voodoo (si pensi qui al precedente storico di White Zombie - L'isola degli zombies del 1932, diretto da Victor Halperin e interpretato da Bela Lugosi).

Quanto a The Walking Dead, la serie propone uno zombie rappresentato come nemesi dell'umano, e al contempo con un confine di separazione eloquentemente sottile: non solo il pericolo interno alla comunità umana è spesso maggiore o uguale a quello esterno, ma il tema stesso del contagio – qualcosa in grado di mutare l'essere umano dal suo stesso interno – rimanda a una possibilità di trapasso costante e cogente nella trama, oltre che, fonte reale dell'immaginario, alla minaccia che la malattia costituisce nella vita dell'essere umano contemporaneo. Spicca in The Walking Dead una certa auto-consapevolezza postmoderna e ammiccante nelle scelte lessicali: gli zombi nella serie non sono mai menzionati con questo nome; si parla invece, come alluso anche nel titolo, di walkers (“coloro che camminano”) o piuttosto di biters (“coloro che mordono”). Non sono mancati tentativi di problematizzare in maniera ancor più radicale il confine tra uomo e zombie, facilitati dal quel poco di base scientifico-speculativa che si può rinvenire nell'idea del contagio e da quel molto di arbitrarietà che si trova nella medicina moderna e nelle pratiche di ospedalizzazione. Pensiamo qui a In the Flesh, creata per la BBC da Dominic Mitchell (2013-2014). Il tema della segregazione razziale e dei diritti civili degli esseri soprannaturali al centro della serie britannica è ripreso forse da True Blood (2008-2014) una serie d'autore, creata da Alan Ball per la HBO. A proposito della riflessione sui diritti delle minoranze e sulle componenti della società contemporanea, a The Walking Dead è stata invece rimproverata una certa mancanza di problematizzazione: se è vero che non mancano personaggi femminili importanti nel gruppo dei comprimari (la magnifica Michonne interpretata da Danai Gurira, per fare solo un esempio), così come rappresentanti di componenti etniche non wasp, è anche vero che la protezione e la guida del gruppo infine è affidata a un maschio bianco, e che la preferenza per un'opzione tradizionalmente patriarcale riaffiora spesso nel corso della serie.

Per una rassegna più esaustiva di morti viventi sul piccolo e grande schermo possiamo rimandare a quella compilata da Francesco Lomuscio in Zombi, 2013 (a proposito v. anche "Quaderni d'Altri Tempi" n. 47), mentre speriamo che gli esempi portati sin qui bastino a dimostrare la ricchezza di significati che lo zombie è venuto assumendo, negli ultimi anni, nella cultura contemporanea, o, in altre parole, la sua sostanziale polisemia (in questa direzione critica si può vedere anche il recente Piccola filosofia dello zombie di Coulombe Maxime, 2014).

Sarebbe interessante proporre (ma in lingua inglese è già stato, almeno in parte, fatto) un'analisi più dettagliata non solo degli aspetti linguistici, tematici e produttivi della serie, ma anche delle relazioni tra rappresentazione televisiva, graphic novels e videogiochi. Le graphic novels in particolar modo intrattengono con la versione per il piccolo schermo un rapporto molto stretto, al punto tale che per qualche episodio la graphic novel corrispondente costituisce non solo la base di un adattamento, ma un vero e proprio story board (Kirkman, il creatore del fumetto partecipa alla serie come produttore esecutivo e sceneggiatore a più riprese). Conterremo però queste righe entro più modeste pretese, e ci limiteremo a segnalare il fondamentale contributo alla serie di alcune figure professionali di spicco. Il compositore Bear McCreary (già all'opera in Battlestar Galactica), firma la sigla e la parca colonna sonora musicale extra-diegetica, che lascia volentieri il campo libero, soprattutto nelle scene d'azione, ai rumori diegetici di scena, affidati al sound editing supervisionato da Jerry Ross; una scelta felice quanto inconsueta nel genere horror, dove le musiche hanno spesso un ruolo centrale nella costruzione della tensione. La sigla di apertura è visivamente opera di Kyle Cooper (che ha firmato di recente i titoli di apertura per American Horror Story e Dawn of the Dead, per citare solo due titoli in tema).

Alcune scelte di casting si possono ricondurre a contatti di Darabond (il già citato DeMunn, Laurie Holden – Andrea e Melissa McBride – Carol erano entrambi presenti nel lungometraggio The Mist del 2007, anticipatore per altro di alcuni temi della serie). Dopo Darabond si sono avvicendati come showrunners Glen Mazzara e Scott M. Gimple (anche a seguito di insanabili disaccordi con il network), mentre tra i registi sfilano una serie di ottimi professionisti del piccolo schermo, tra cui Ernest Dickerson (The Wire, Dexter), Guy Ferland (The Shield, House, M.D., Nip/Tuck, Damages), Gwyneth Horder-Payton (The Shield, Fringe, Battlestar Galactica, Criminal Minds), Michelle MacLaren (X-Files, Breaking Bad), Greg Nicotero. La presenza di Nicotero come regista (e tra i produttori esecutivi dalla terza stagione) merita un cenno, perché Nicotero è noto soprattutto come esperto di effetti speciali. Ha lavorato con registi come Steven Spielberg e Quentin Tarantino, Frank Miller e Robert Rodriguez, in una impressionante carriera che ha incluso gli effetti e animatroni di film come Misery (1990), Pulp Fiction (1994), Scream (1996), Minority Report (2002), Kill Bill (2003, 2004), Sin City (2005) e Jennifer's Body (2009) – per limitarci a una scelta di titoli – e di serie televisive come Masters of Horror (vari episodi tra 2005 e 2007) e Breaking Bad.

Dopo l'Academy Award for Achievement in Makeup vinto nel 2006 per The Chronicles of Narnia: The Lion, the Witch, and the Wardrobe, la cura degli effetti di The Walking Dead gli è valsa due Emmy (Outstanding Prosthetic Makeup nel 2011 e 2012) oltre a varie nominations. Numerosi nomi si potrebbero citare anche per le firme che compaiono in calce alle sceneggiature, dalle collaborazioni di Darabont e Kirkman a Frank Renzulli (come freelance), da Scott Gimple a David Leslie Johnson, anche qui con avvicendamenti in parte voluti dal network e numerosi cambiamenti dell'equipe di stagione in stagione (sui difficili rapporti della AMC con le sue maestranze creative anche in altri casi si veda il primo capitolo – Dietro le quinte – del già citato studio di Checcaglini su Breaking Bad, e in particolare il terzo paragrafo: Caratteri difficili). Questi cenni alle professionalità coinvolte nella creazione delle serie televisive vogliono invitare a soffermarsi, ancora una volta, sulla natura collettiva di queste opere: il processo produttivo, con i suoi numerosi attori e ruoli in gioco e con le relative dinamiche cooperative ma anche conflittuali e di negoziazione, diventa un oggetto meritevole di attenzione critica, indispensabile per comprendere le molte sfaccettature che concorrono a produrre l'esito finale.

 

 


 

LETTURE

 Danilo Arona, Selene Pascarella, Giuliano Santoro, L'alba degli zombie. Voci dell’Apocalisse: il Cinema di George Romero, Gargoyle Books, Roma, 2011.
Murali Balaji (edited by), Thinking Dead: What the Zombie Apocalypse Means, Lexington Books, Lanham, 2013.
Chiara Checcaglini, Breaking bad. La chimica del male: storia, temi, stile, Mimesis, Milano-Udine, 2014.
William Golding, Il signore delle mosche, Mondadori, Milano, 2014.
Francesco Lomuscio, Zombi. Oltre 900 titoli per non riposare in pace, Universitalia, Roma, 2013.
Coulombe Maxime, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l'orrore, Mimesis, Milano-Udine, 2014.

 

VISIONI

 Alan Ball, True Blood, HBO, 2008-2014.
 Danny Boyle, 28 Days Later, DNA Films-British Film Council, 2002.
 Frank Darabont, The Mist, Keyfilms Video, 2013 (home video).
 Marc Forster, World War Z, Paramount, 2013 (home video).
 Vince Gilligan, Breaking Bad, La serie completa, Sony Pictures, 2014 (home video).
 Victor Halperin, White Zombie, Screen Edge, 2011 (home video).
 Jeffrey Lieber, J. J. Abrams, Damon Lindelof, Lost, ABC, 2004-2010.
 Shinji Mikami, Resident Evil, Capcom, 1996 (videogioco).
 Dominic Mitchell, In the Flesh, Serie 1 & 2, 2entertain, 2014 (home video).
 George A. Romero, La notte dei morti viventi, Enjoy Movies, 2011 (home video).
 George A. Romero, Dawn of the Dead, Laurel Group Inc., 1978.
 Matthew Weiner, Mad Men, AMC, 2007-2015.