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I fisici teorici sono spesso provocatori e anche un po’ arroganti. Uno dei loro più famosi esponenti viventi, Stephen Hawking, nella prima pagina del suo discusso Il grande disegno, scrive ad esempio:

“Vivendo in questo mondo sconfinato che può essere ora amichevole ora crudele, e volgendo lo sguardo a cieli immensi che ci sovrastano, gli uomini si sono sempre posti una moltitudine di interrogativi… Per secoli questi interrogativi sono stati di pertinenza della filosofia, ma la filosofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza, e in particolare della fisica. Così sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola della nostra ricerca della conoscenza” (Hawking e Mlodinow, 2011).

Analogamente, l’italiano Carlo Rovelli, tra i massimi esperti mondiali di gravità quantistica, ha scritto recentemente un articolo pubblicato su Il Sole 24 ore dal provocatorio titolo Non possiamo non dirci naturalisti, facendo il verso al famoso pamphlet di Benedetto Croce. Per Rovelli, il naturalismo è l’unica filosofia possibile: la natura dev’essere l’unico oggetto dell’indagine sia scientifica che filosofica e qualsiasi tentazione trascendente dev’essere rifuggita. Questa presunzione di molti scienziati teorici contemporanei poggia, bisogna ammetterlo, su solide basi. I trionfi della scienza nella comprensione dei fondamenti ultimi della realtà sono sotto gli occhi di tutti: né la religione né la filosofia, a cui per secoli è spettato il diritto di spiegare il mondo, sono riuscite a dimostrare che l’universo è iniziato 13,7 miliardi di anni fa da una singolarità che definiamo “Big Bang”, a ricostruire tutto il percorso che ha portato alla nascita delle stelle, delle galassie, dei pianeti, a scoprire le forze fondamentali che regolano l’universo, i costituenti di base della materia, persino a riprodurre in laboratorio particelle che sono esistite solo per pochi istanti subito dopo il Big Bang. E tuttavia, a questo quadro così rassicurante mancano ancora alcune risposte. Ci sono infatti perlomeno due grandi domande fondamentali che chiedono una spiegazione: perché esiste qualcosa anziché il tutto e in che modo è nata la vita.

La stragrande maggioranza degli scienziati, naturalmente, non si pone mai queste domande per tutto l’arco della propria carriera; ma qualcuno lo fa. Alle grandi domande ha dedicato la propria carriera, per esempio, John Brockman, che di mestiere fa l’agente letterario e anni fa ha capito che facendo ai grandi scienziati e intellettuali delle “grandi domande” è possibile ingenerare riflessioni che di norma non sono all’ordine del giorno delle loro preoccupazioni. “Che cosa cambierà tutto?”, “Qual è la spiegazione più elegante, bella o profonda che preferisci?” e “Quali idee scientifiche sono destinate ad essere archiviate?” sono solo alcune delle domande impegnative che Brockman ha posto a un altissimo numero di scienziati e pensatori negli ultimi anni, traendo dalle loro risposte autentici best-seller prodotti dalla sua Edge Foundation. Iniziativa analoga, pensata per il mondo del web, è “Big Think”, fondato da due imprenditori di Harvard come “una versione di YouTube per le idee”, che ha intervistato a oggi oltre 3.000  pensatori sulle grandi domande, condensando le loro idee in video brevi ed efficaci (www.bigthink.com).
Le grandi domande, insomma, fanno audience. Ad esse sono dedicati non solo i principali best-seller della divulgazione scientifica, ma anche i generosi finanziamenti di magnati americani interessati ad alimentare con il loro denaro la ricerca sulle verità ultime. Una tradizione, questa, tipicamente made in Usa: nel 1930 i fratelli Bamberger, che avevano fatto fortuna con un grande magazzino a Newark e avevano salvato i loro guadagni ritirandoli dalla borsa prima del crollo del 1929, decisero di finanziare quello che sarebbe diventato l’Institute for Advanced Study di Princeton, il tempio della “ricerca astratta”, dove andranno a rifugiarsi nei loro ultimi anni uomini come Albert Einstein e Kurt Gödel. Nel 1934 Alfred P. Sloan, magnate della General Motors, fondò l’omonima fondazione che da allora ha finanziato borse di studio in tutti gli ambiti della ricerca scientifica, dalla lotta contro il cancro alla cartografia degli oggetti dell’universo. Paul Allen, il co-fondatore della Microsoft, a partire dalla fine degli anni Ottanta ha finanziato grandi centri di ricerca che portano il suo nome, per la ricerca sul cervello, sull’intelligenza artificiale e le scienza di base, oltre a una serie di radiotelescopi impiegati dal SETI per la ricerca di segnali di civiltà extraterrestri. Nel 1999 è stato inaugurato il Perimeter Institute di Waterloo, in Canada, grazie a una donazione di 150 milioni da parte dal leader di BlackBerry Mike Lazardis ed esclusivamente dedicato alla fisica teorica di frontiera. Oppure, ancora, i 16 Kavli Institute fondati dal 2000 in tutto il mondo per opera della fondazione creata dal magnate norvegese Fred Kavli, dedicati all’astrofisica, alla cosmologia, alle scienze cognitive e alla fisica teorica. 
La passione di Kavli per le grandi domande è tale che dal 2008 ha fondato un premio annuale di un milione di dollari da destinare ai principali studiosi di queste materie. La differenza rispetto al Premio Nobel svedese non sta solo nel fatto il Premio Kavli è norvegese, ma che premia grandi lavori teorici che magari non riceveranno mai un Nobel, riconoscimento che viene attribuito solo ed esclusivamente a scoperte dimostrate empiricamente. Il problema delle grandi domande sta proprio in questo. La maggior parte delle risposte elaborate dagli scienziati teorici non è immediatamente verificabile. Per tale motivo, in un sistema di ricerca pubblico che premia i risultati, non c’è spazio per la speculazione teorica sulle domande fondamentali: sono i capitali privati a dover compensare, in America, questa mancanza.
Per molti anni, subito dopo la Seconda guerra mondiale, l’attenzione per la filosofia all’interno della ricerca scientifica scomparve del tutto. Il “nuovo corso” colpì in particolare la fisica quantistica, la più recente e sorprendente delle aree di ricerca della fisica. Se negli anni Venti e Trenta, nel corso dei quali erano stati scoperti i principi di base della meccanica dei quanti, uomini come Werner Heisenberg, Niels Bohr o Erwin Schrödinger affiancavano alle scoperte nei laboratori un’imponente riflessione filosofica sulla natura ambigua della realtà quantistica (lo dimostrano i titoli di alcune delle loro opere più tarde: Fisica e filosofia di Heisenberg, del 1961; L’immagine del mondo di Schrödinger, pubblicato nello stesso anno; I quanti e la vita di Bohr, del 1965), la Guerra Fredda impose un radicale cambio di rotta, come racconta efficacemente David Kaiser:

“C’era chi lamentava lo «sforzo profuso per analizzare paradossi e strane questioni logiche del tutto inutili ai fini dell’esame» e chi denunciava il fatto che le domande non riguardassero affatto questioni di interpretazione, focalizzandosi invece su una gamma assai ristretta di problemi di routine (dimenticatevi la filosofia e snocciolate la «solita tiritera», disse uno studente a chi veniva dopo di lui in un esame). Le domande aperte (che richiedevano una dissertazione) sugli aspetti interpretativo-filosofici scomparvero dagli esami scritti in tutto il Paese, sostituite da puri problemi di calcolo. I recensori dei libri di testo negli Stati Uniti cominciarono a lodare i volumi sulla meccanica quantistica che «evitavano la discussione filosofica» o omettevano «domande contaminate dalla filosofia»” (Kaiser, 2012).


Il libro di Kaiser, intitolato Come gli hippie hanno salvato la fisica, racconta la rinascita della speculazione filosofica riguardo la meccanica quantistica nel corso degli anni Settanta e come questa rinascita abbia salvato la fisica dalla stasi. Di fatto, sono state le grandi domande ad aver fatto avanzare la ricerca in alcuni settori di frontiera della scienza, e non l’approccio “zitto e calcola!” imperante tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Naturalmente, poiché c’erano anche gli hippie di mezzo, un po’ di problemi ci sono stati e ci sono tutt’ora. Quando si tratta di elaborare teorie astratte sulla natura ultima della realtà, il rischio di attirare persone un po’ eccentriche è sempre presente. Ciò spiega il boom che negli ultimi anni sta vivendo il cosiddetto “misticismo quantistico”, portato avanti da sedicenti guru dall’autoguarigione, della ricerca olistica e della meditazione trascendentale che sostengono di poggiarsi – in modo per la verità a dir poco traballante – sui fondamenti della fisica quantistica. Ogni giorno molti fisici in tutto il mondo ricevono lettere da parte di bizzarri personaggi che credono di aver scoperto la teoria del tutto, come ha raccontato Margaret Wertheim nel suo Tutti pazzi per la fisica
Anche al netto di tutto ciò, quando un fisico teorico inizia a trattare dei problemi interpretativi o delle grandi domande sulla realtà ultima, finisce spesso per essere guardato con sospetto. Lo racconta perfettamente Max Tegmark nel suo libro L’universo matematico, opera a lungo attesa per lo spessore del personaggio. Tegmark, infatti, è il fondatore del Foundational Questions Institute, un istituto americano che si occupa proprio delle domande fondamentali. Attirando ingenti capitali di donatori privati, il FQXI (acronimo usato dall’istituto di Tegmark) finanzia ogni anno con generose borse ricerche su temi di frontiera che non riuscirebbero a essere finanziate dai canali standard delle università proprio per il loro elevato grado di speculazione filosofica.
Tegmark è il prototipo di quella categoria di fisici che attribuisce grande importanza alla “ricerca sulla natura ultima della realtà” (così il sottotitolo del suo libro) e, se si gira il volume per leggere le recensioni stampate sulla quarta di copertina, si scopre che è in buona compagnia: Brian Greene, Michio Kaku, Edward Witten, Mario Livio, Julian Barbour e David Deutsch, tutti fisici e matematici eminenti, sono anche celebri per i loro libri tradotti in tutto il mondo. In un paragrafo di L’universo matematico, Tegmark racconta di quando, all’indomani della pubblicazione di un suo articolo, ricevette la mail di un collega: “Caro Max, i tuoi articoli stravaganti non ti stanno affatto aiutando”, esordiva la mail. “La questione potrà sembrarti priva di importanza, se non fosse che i colleghi vedono in questo aspetto della tua personalità un cattivo presagio per gli sviluppi futuri… devi capire che se non riuscirai a mantenere pienamente separate tali attività dalle tue ricerche serie – magari eliminandole del tutto – e confinarle al pub o in altri posti del genere – il futuro potrebbe riservarti qualche sorpresa sgradita” (Tegmark, 2014). 
Cosa aveva spinto il collega di Tegmark a mandargli quell’avvertimento? Certamente le teorie alquanto bizzarre del fisico. Ne L’universo matematico, l’autore tratta in modo divulgativo (fino a un certo punto) della sua risposta a una delle più recenti domande fondamentali della scienza: perché la matematica funziona? Domanda oziosa, si potrebbe pensare a una prima valutazione. Galileo diceva che l’universo è scritto in linguaggio matematico e da allora ci siamo sforzati di capirlo attraverso la matematica, con grande profitto. Dov’è il problema? In primo luogo, ci si potrebbe chiedere perché il linguaggio della scienza sia proprio la matematica. Ma, in secondo luogo, emerge una domanda ben più interessante: se la soluzione di un’equazione matematica è corretta, allora è anche reale? Queste domande hanno iniziato a dominare una certa branca della filosofia della scienza dai tempi di Einstein. Applicando la teoria della relatività generale allo studio dell’universo, Einstein scoprì che esistevano numerose soluzioni alle sue equazioni, ciascuna delle quali in grado di descrivere un diverso modello di universo. Quale soluzione è quella reale? Forse lo sono tutte quante? Si racconta che John Wheeler, uno dei più grandi studiosi della gravità, forse l’unico oltre Einstein ad aver compreso fino in fondo la teoria della relatività, quando finiva di scrivere un’equazione cosmologica sulla lavagna la guardava e diceva: “Ora batterò le mani e nascerà un universo” (Smolin, 2014). A ciò si lega la fondamentale domanda che si poneva Stephen Hawking: “Che cos’è che insuffla il fuoco nelle equazioni, dando loro un universo da governare?” (Hawking, 2000). Nel suo Il libro degli universi, il matematico John Barrow elenca non meno di cinquanta modelli diversi di universi, molti dei quali potrebbero efficacemente descrivere quello in cui viviamo. Nessuno di questi modelli, se non in casi rarissimi, è emerso dall’osservazione; sono tutti frutto di soluzioni di equazioni matematiche. 
Tale l’importanza “ontologica” che certi scienziati attribuiscono oggi alla matematica, che si è sviluppata una sorta di nuova branca della filosofia, il platonismo matematico, secondo la quale esiste una sorta di iperuranio dove tutti i concetti previsti dalla matematica sono effettivamente reali. Tra i sostenitori di quest’idea c’è Roger Penrose dell’Università di Oxford, che nel suo celebre La mente nuova dell’imperatore scrive:

“La matematica è invenzione o scoperta? Quando un matematico ottiene i suoi risultati sta solo producendo complesse costruzioni mentali che non hanno realtà di fatto, ma la cui potenza ed eleganza sono semplicemente sufficienti a ingannare persino i loro inventori, inducendoli a credere che queste mere costruzioni mentali siano «reali»? Oppure i matematici scoprono davvero verità già «esistenti»: verità la cui esistenza è del tutto indipendente dalle attività del matematico? Io penso che, a questo punto, dovrebbe essere chiaro al lettore che io aderisco alla seconda concezione...” (Penrose, 1991).

Il platonismo di Penrose è portato alle estreme conseguenze da Tegmark. L’idea di base del suo ragionamento è che “la realtà non è semplicemente descritta dalla matematica, ma è matematica… Non solo alcuni suoi aspetti, ma tutta la realtà, compresi voi” (Tegmark, 2014). Da qui deriva l’ipotesi dell’Universo Matematico, secondo cui tutte le strutture che esistono in senso matematico esistono anche in senso fisico. Esiste un multiverso, ipotizza Tegmark, composto da un numero forse infinito di universi ciascuno con proprie strutture matematiche e regolato da proprie equazioni. In tal modo si può rispondere a un’altra domanda fondamentale posta da Wheeler: “Perché queste equazioni, e non altre?”. Le altre sono valide in altri universi.
A ben guardare, il problema della “irragionevole efficacia della matematica” (così è noto oggi, dal titolo di un famoso articolo del 1960 del fisico Eugene Wigner) è alla base di qualsiasi tentativo di comprendere la natura ultima della realtà. Tutte le teorie fondamentali che gli studiosi stanno elaborando in questi anni si basano esclusivamente su equazioni e modelli creati al computer; la maggior parte di queste teorie fa delle predizioni che la scienza sperimentale potrebbe poi confermare o smentire, ma in un lasso di tempo che può essere anche molto lungo. Il bosone di Higgs fu teorizzato negli anni Sessanta, e si è dovuto attendere il 2012 per la sua osservazione empirica all’acceleratore LHC del Cern. Molte delle previsioni che emergono da teorie dominanti nell’ambito della fisica, come la supersimmetria, non sono state ancora confermate. Compito dell’acceleratore di particelle LHC dopo la scoperta del bosone di Higgs è proprio scoprire l’esistenza delle particelle supersimmetriche previste fin dagli anni Settanta. Sono stati spesi miliardi di dollari in esperimenti come quelli del Cern o in altri laboratori in tutto il mondo – alcuni anche nello spazio – per confermare la supersimmetria. Da ciò deriva che i fisici sono davvero convinti della sua validità, nonostante al momento non ci siano prove a suo favore. Come mai? Perché la matematica alla base della supersimmetria è elegante, o bella, due aggettivi che oggi dominano il dibattito sulla natura ultima della realtà. La “teoria del tutto”, la teoria fondamentale della fisica, dovrebbe essere così semplice ed elegante, secondo i fisici, da poter essere stampata su una maglietta, proprio come E=MC2, il prototipo della teoria bella ed elegante. Per la verità, al momento nessuna delle teorie del tutto più in voga tra quelle proposte gode di queste caratteristiche. Quella dominante, la teoria delle stringhe, o meglio una sua estensione, la teoria-M (la “M”, che molti scienziati sostengono stia per “mistero” o per “madre”, si riferisce in realtà alle “membrane”, alla base di tale teoria), è estremamente complicata, al punto da essere  spesso presa in giro da sit-com nerd come The Big Bang Theory. Ma poiché la complicatissima matematica che c’è alla base sembra corretta, allora – affermano i suoi sostenitori – dev’essere anche vera. Poco importa che la teoria funzioni solo prevedendo l’esistenza di dieci dimensioni spaziali al posto delle tre che sperimentiamo quotidianamente, o ipotizzando che esistano particelle mai viste (quelle supersimmetriche), o che tutte le particelle che compongono la materia non siano altro che diverse configurazioni di un’unità fondamentale, le “stringhe”, date dalla loro vibrazione: stringhe le cui dimensioni sarebbero così piccole da renderne impossibile l’osservazione. Secondo Brian Greene, il più noto dei sostenitori della teoria delle stringhe come teoria ultima, già solo la matematica ci suggerisce la sua validità: tale teoria, per esempio, ha come sua conseguenza la relatività generale, che quindi può essere descritta mediante questa più grande teoria. Non solo: ha dato già rilevantissimi contributi all’avanzamento della matematica, per cui possiede qualche intrinseca verità. Per accettarla, si tratta solo di superare il nostro senso comune. La teoria-M, che riassume in sé tutte le varianti (circa 10500) della teoria delle stringhe, sostiene che il nostro universo sia semplicemente una membrana tridimensionale, o 3-brana, in un multiverso o bulk a più dimensioni. Ecco perché non ci accorgiamo dell’esistenza delle altre. Solo la forza di gravità si estende sull’intero bulk, per questo ha un’intensità inferiore alle altre tre forze fondamentali (elettromagnetica, nucleare forte e nucleare debole). Un’idea rivoluzionaria che faremmo meno fatica a digerire se leggessimo Flatlandia di Edwin Abbott, un classico – pubblicato per la prima volta nel 1884 – che tutti gli stringhisti hanno per lettura obbligatoria: è il racconto di un mondo a due dimensioni che non ha percezione dell’esistenza di una realtà tridimensionale superiore.
Quella delle stringhe è senza dubbio la teoria mainstream nell’ambito della fisica teorica di frontiera, ma non mancano le voci critiche. Una delle più celebri resta quella di Lee Smolin, che nel 2006 pubblicò un libro che fece molto discutere, L’universo senza stringhe. In esso, Smolin accusava gli stringhisti di aver ostracizzato i ricercatori in altri ambiti (lo stesso Smolin è stato “costretto” a portare avanti le sue ricerche sulla gravità quantistica fuori dagli Usa, al Perimeter Institute in Canada, divenuto poi una sorta di “centro di raccolta” degli scissionisti anti-stringhe) e metteva in luce tutte le manchevolezze della teoria: 

“La sensazione era che potesse esistere soltanto una teoria coerente per unificare la fisica e, dato che la teoria delle stringhe sembrava farlo, doveva essere corretta. Non si doveva più dipendere dagli esperimenti per verificare le teorie! Quella era roba di Galileo. Oramai bastava la matematica per esplorare le leggi di natura. Eravamo entrati nell’era della fisica postmoderna” (Smolin, 2007).

Probabilmente siamo ancora nell’era fisica postmoderna, e ci rimarremo per un po’. Il ritorno in auge della ricerca sulle grandi domande ha rimesso di nuovo in discussione gli assunti di base della scienza, tra cui la validità stessa del vecchio concetto popperiano di falsificazione per discernere ciò che è scientificamente vero da ciò che non lo è, e questo perché, proseguendo nella ricerca, ci si immerge sempre più nelle profondità della speculazione teorica. 
Prendiamo in considerazione il multiverso. Ormai quasi tutti i cosmologi, fisici e matematici convivono con quest’idea, non ancora assorbita dalla maggior parte dell’opinione pubblica. Ma perché è necessario presupporre l’esistenza di un multiverso, ossia di una cornice all’interno del quale convivono infiniti universi? Per una serie incredibilmente alta di ragioni, alcune delle quali le abbiamo già citate: la teoria-M presuppone un multiverso composto da 3-brane e brane con dimensioni superiori alle nostre 3. Il multiverso è inoltre la risposta alla domanda di Wheeler “perché queste equazioni, e non altre”. In generale, il multiverso è più o meno la risposta a tutte le domande più difficili. Per esempio, sposta in avanti il problema di cosa c’era prima del Big Bang (esisteva, ed esiste, il multiverso) o se l’universo sia infinito (il nostro non lo è, ma il multiverso sì). E risolve anche uno più grandi problemi posti dalla fisica, quello delle costanti fondamentali. Un problema di cui si sente poco parlare, per la verità, perché infastidisce molto gli scienziati e porta spesso all’elaborazione di spiegazioni poco apprezzate, come quella del “principio antropico” (così disprezzata come spiegazione che Tegmark racconta nel suo libro che a un convegno un relatore dovette citare l’aggettivo “antropico” parlando di “quella parola che inizia per A”, suscitando nondimeno una salva di fischi). 
Il problema è essenzialmente posto dal fatto che esistono delle costanti fondamentali della natura dotate di certi valori che non solo non siamo in grado di spiegare (perché questi valori, e non altri?), ma che se variassero anche solo di qualche decimale renderebbero impossibile l’esistenza di vita nell’universo. Se mettiamo insieme tutte queste costanti – la massa degli elettroni e dei protoni, la costante gravitazionale, la velocità della luce, la costante di struttura fine, solo per citare le più famose, ma ce ne sono molte altre – e fissiamo per ciascuna di esse il range di variabilità oltre il quale il loro valore renderebbe impossibile l’emergere della vita, scopriremmo che la nostra esistenza è davvero un incredibile caso, come se qualcuno avesse appositamente sintonizzato le manopole di una grande macchina su determinati valori per far uscire il nostro universo così com’è, adatto per la nascita della vita come la conosciamo. Il mistero del fine tuning (“sintonia fine”) puzza di metafisica, naturalmente, perché alimenta pretese mistiche sull’origine dell’universo, oppure conduce a soluzioni radicali e teleologiche, come il principio antropico appunto, che nella sua accezione forte sostiene che le costanti hanno questi valori perché l’emergere della vita è l’obiettivo ultimo dell’universo stesso.
Per molto tempo la comunità scientifica ha liquidato la questione parlando di mera casualità, ma in tempi più recenti il multiverso è apparso ai più come la migliore soluzione. In un multiverso in cui convivono, separati tra loro, infiniti universi, le costanti fondamentali assumono valori diversi in ciascuno di essi e quindi esisteranno universi adatti alla vita (come il nostro) e altri – la maggior parte – in cui la vita non può svilupparsi. Va da sé che anche quella del multiverso è una teoria di difficile dimostrazione, anzi forse la più difficile da dimostrare, dal momento che postula che gli universi non debbano comunicare tra loro, per cui non potremmo mai avere prove dell’esistenza di altri universi. Tegmark arriva a sostenere l’esistenza di ben quattro livelli del multiverso: il primo sarebbe formato da regioni al di là del nostro orizzonte cosmico, che condividono quindi le nostre stesse leggi ma che non possiamo vedere perché la luce da loro emessa non arriva fino a noi (per via dell’espansione dell’universo); il secondo livello è quello che definiremmo “classico”, ossia un numero infinito di universi separati tra loro, ciascuno con proprie leggi, continuamente prodotti da un meccanismo di inflazione eterna; il livello III è quello previsto dalla “teoria dei molti mondi” della meccanica quantistica, una particolare interpretazione secondo cui l’universo si scinderebbe ogni volta che viene compiuta un’osservazione, dando vita a universi paralleli coesistenti (un classico topos della fantascienza, come in Assurdo universo di Frederic Brown o nel film Sliding Doors di Peter Howitt); e infine il IV livello, quello delle strutture matematiche che abbiamo visto in precedenza.
Secondo Greene, ci sono diverse speranze di poter un giorno verificare la teoria del multiverso. Le proposte vanno da esperimenti negli acceleratori di particelle alle analisi del fondo cosmico a microonde, l’eco del Big Bang, che secondo alcune ipotesi potrebbe portare le “cicatrici” di scontri primordiali con altri universi (è la proposta, per esempio, di Roger Penrose in Dal Big Bang all’eternità). Lee Smolin ha proposto alcuni anni fa una teoria, la “selezione cosmologica naturale” (Smolin, 1998), che fa delle previsioni verificabili, o meglio falsificabili – che si possono cioè dimostrare sbagliate attraverso l’osservazione – e risponde al problema dei valori delle costanti fondamentali ipotizzando che i buchi neri originino altri universi. Ciascun universo nato da un buco nero sarebbe simile all’universo-madre, ma con una piccola variazione nei valori delle costanti fondamentali. Un principio di selezione naturale simile a quello che regola gli esseri viventi, e che li spinge a fare più figli per avere più possibilità che la propria eredità genetica sopravviva, porterebbe gli universi a generare più buchi neri possibili. Noi saremmo quindi semplicemente il sotto-prodotto di un meccanismo di selezione naturale a livello cosmologico che premia gli universi che hanno più buchi neri in grado, quindi, di generare più figli.
In tutto questo fiorire di ipotesi e teorie ce n’è anche per il tempo, grande assente da tutti i dibattiti su multiversi e dimensioni aggiuntive (anche la teoria delle stringhe prevede un’unica dimensione temporale). Dopotutto, Einstein ha dimostrato che spazio e tempo sono inesorabilmente legati. Non tutti la pensano così. Sulla natura del tempo sono state avanzate tantissime teorie, fino alle più radicali, come quella di Julian Barbour nel suo La fine del tempo, che spiega – in modo abbastanza complicato per un libro di divulgazione – come il tempo sia solo il succedersi di una serie di momenti, gli “Adesso”, e che la sensazione di un suo fluire sia solo un’illusione. Caso estremo di fisico teorico eterodosso, sebbene le sue teorie siano considerate con rispetto nell’ambiente per la loro rigorosità, Barbour non appartiene all’establishment accademico: dopo il dottorato, si è mantenuto facendo il traduttore specialistico e vive in una fattoria alla periferia di Oxford. Nell’ottobre scorso, Barbour ha pubblicato con due colleghi, Tim Koslowski dell’Università del New Brunswick e Flavio Mercati del Perimeter Institute, una prima versione di una nuova teoria che sostituisce la precedente. Il tempo esiste, spiega Barbour, ma non ha una direzione preferenziale. Sì, è vero che noi percepiamo una direzione inequivocabilmente tesa dal passato al futuro, ma solo perché esiste un altro universo gemello che viaggia in senso inverso. Il Big Bang non sarebbe allora l’origine del tempo, ma solo una fase che inverte la direzione del tempo (è questa la tesi riassunta da Lee Billings nell’articolo Due futuri per spiegare il misterioso passato del tempo, pubblicato da “Le Scienze.it”, 13 dicembre 2014). Nell’universo a noi speculare esisteranno esseri umani che sperimenteranno una vita molto simile a quella che Philip Dick immaginava nel suo romanzo In senso inverso.
Nell’ultimo suo libro, La rinascita del tempo, Lee Smolin sostiene, in disaccordo con Barbour, che non solo il tempo esiste, ma è anche la componente fondamentale della teoria ultima della realtà. In questo senso, nonostante le distanze evidenti tra Smolin e Tegmark (il primo rigetta l’ipotesi del platonismo matematico), il punto in comune tra i due è la convinzione che esista un livello più profondo della realtà di cui le nostre teorie sono solo un’approssimazione. Per Smolin il tempo è fondamentale perché le leggi di natura cambiano nel tempo, come presuppone la sua teoria della selezione naturale cosmologica. Esiste però una metalegge, che agisce direttamente sulle altre leggi e ne regola il funzionamento. Ciò, riconosce Smolin, porterebbe a una nuova grande domanda: “Perché proprio quella metalegge e non un’altra?”. Ma sarebbe, secondo il fisico, l’ultima grande domanda, quella che ci spingerà a trovare finalmente la spiegazione ultima della realtà, l’agognata teoria del tutto.
Non tutti sono così ottimisti. In un recente articolo sulla rivista Nature che ha suscitato molto dibattito, i fisici George Ellis e Joe Silk hanno chiesto di mettere un freno al florilegio di teorie estremamente speculative, a partire da quella delle stringhe: “La fisica teorica rischia di diventare una terra di nessuno al confine tra matematica, fisica e filosofia che non rispetta in realtà i requisiti di nessuna di queste discipline”, scrivono. “A nostro avviso, la questione si riduce a chiarire una questione: quali potenziali evidenze osservative o sperimentali potrebbero convincervi che la vostra teoria è sbagliata e spingervi ad abbandonarla? Se non ce n’è nessuna, non è una teoria scientifica” (Ellis e Silk 2014). Per esempio, quando si è chiesto ai sostenitori della supersimmetria se la mancata scoperta delle loro particelle a LHC comportasse l’invalidità della teoria, seraficamente questi hanno risposto dicendo che probabilmente le particelle hanno una massa maggiore di quella che si può raggiungere in LHC; e se anche nella nuova fase di indagine a più alta energia che inizierà quest’anno non si trovasse niente, significa semplicemente che la loro massa è ancora più alta. Tendenzialmente, potremmo non riuscire a scoprirle mai con i mezzi di cui disponiamo, ma questo non vuol dire che non esistano. È scienza questa? (sul tema cfr. Rovelli, 2011)
Naturalmente non esiste una risposta, ma quest’anno ci sarà un grande convegno internazionale che cercherà di fare delle proposte concrete per risolvere l’impasse. Se ci accontentassimo di dire che non esistono risposte, non saremmo arrivati dove siamo oggi e ci saremmo fermati migliaia di anni fa, lungo il cammino della conoscenza, convinti che il Sole giri ancora intorno alla Terra. D’altro canto, Anassimandro, Talete e Democrito ipotizzarono la natura corpuscolare della realtà migliaia di anni prima che le loro tesi potessero essere sottoposte a verifica. Era scienza, quella? No, era filosofia. Ma allora non è vero che la filosofia è morta, come scrive Hawking: si è solo trasformata ed ora, da ancilla theologiae, com’è stata nel medioevo, è diventata ancilla scientiae, “ancella della scienza”.

 


 

LETTURE

 

  Edwin Abbott, Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni, Adelphi, Milano, 1993.
  Julian Barbour, La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura, Einaudi, Torino, 2003.
  John Barrow, Il libro degli universi, Mondadori, Milano, 2011.
  Lee Billings, Due futuri per spiegare il misterioso passato del tempo,
  “Le Scienze.it”, 13 dicembre 2014, www.lescienze.it/news/2014
  Niels Bohr, I quanti e la vita, Il Saggiatore, Milano, 2012.
  Fredric Brown, Assurdo universo, Meridiano zero, Padova, 2014.
  Philip K. Dick, In senso inverso, Fanucci, Roma, 2003.
  George Ellis e Joe Silk, Scientific method: Defend the integrity of physics, “Nature”, vol. 516 n. 7531,
  16 dicembre 2014, www.nature.com/news
  Brian Greene, La realtà nascosta. Universi paralleli e leggi profonde del cosmo, Einaudi, Torino, 2012.
  Stephen Hawking, Buchi neri e universi neonati. E altri saggi, Rizzoli, Milano, 2000.
  Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, Il grande disegno, Mondadori, Milano, 2011.
  Werner Heisenberg, Fisica e filosofia, Il Saggiatore, Milano, 2013.
  David Kaiser, Come gli hippie hanno salvato la fisica, Castelvecchi, Roma, 2012.
  Roger Penrose, La mente nuova dell’imperatore, Rizzoli, Milano, 1991.
  Roger Penrose, Dal Big Bang all’eternità. I cicli temporali che danno forma all’universo, Rizzoli, Milano, 2011.
  Carlo Rovelli, Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Mondadori Università, Milano, 2011.
  Carlo Rovelli, Non possiamo non dirci naturalisti, Il Sole 24 ore, 14 dicembre 2014.
  Erwin Schrödinger, L’immagine del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1987.
  Lee Smolin, La vita del cosmo, Einaudi, Torino, 1998.
  Lee Smolin, L’universo senza stringhe. Fortuna di una teoria e turbamenti della scienza, Einaudi, Torino, 2007.
  Lee Smolin, La rinascita del tempo. Dalla crisi della fisica al futuro dell’universo, Einaudi, Torino, 2014.
  Max Tegmark, L’universo matematico. La ricerca della natura ultima della realtà, Bollati Margaret Wertheim,
  Tutti pazzi per la fisica. Anelli di fumo, circloni e teorie alternative del tutto, Dedalo, Bari, 2013.
  Boringhieri, Torino, 2014.
  Eugene Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences,
  “Communications on Pure and Applied Mathematics”, vol. 13 n. 1, 1960.

 


 

VISIONI

 

  Peter Howitt, Sliding Doors, Warner Home Video, 2012 (home video).
  Chuck Lorre, Bill Prady, The Big Bang Theory, Warner Home Video, 2013 (home video).