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di Beatrice Ferrara

 

Quand’è che il futuro è sparito? Che cosa c’è dietro l’ossessione contemporanea per le forme e gli stili del passato? Ce lo racconta Mark Fisher nelle pagine che seguono, in cui vi presentiamo, in una nostra traduzione inedita, un lungo estratto dal primo capitolo di Ghosts of My Life. Partendo dalla serie tv Sapphire and Steel (vedi Mappe 01 in questo numero), passando per Bifo, Jameson e Derrida, in volata su The Caretaker e Sly Stone, giù in picchiata su Amy Winehouse e gli Arctic Monkeys, e ancora oltre, in questa prima sezione l’autore presenta temi e motivi che attraversano per intero il volume, in una spettrografia della società contemporanea inglese – molto inglese – ma inevitabilmente globale. Accompagna questa traduzione una nostra selezione di immagini dal lavoro di Laura Oldfield Ford, l’artista britannica le cui illustrazioni dedicate alle rovine e ai fantasmi dei centri urbani contemporanei aprono ognuna delle macro-sezioni di cui si compone Ghosts of My Life, ovvero Lost Futures, The Return of the 70s, Hauntology e The Stain of Place.

 


 

LA LENTA CANCELLAZIONE DEL FUTURO
(traduzione di Beatrice Ferrara)

 

La tesi di questo libro è che la cultura del XXI secolo sia caratterizzata dallo stesso anacronismo e dalla stessa inerzia esperiti da Sapphire e Steel nella loro avventura finale. Questa stasi è stata però seppellita, interrata, sotto la frenesia superficiale del ‘nuovo’, del movimento perpetuo. Il ‘rimescolamento del tempo’, cioè il montaggio di ere precedenti, non è più degno di nota: è diventato così comune da passare inosservato.
Nel suo libro Dopo il futuro (2013, ndr), Franco Berardi (Bifo) riflette su quella che egli chiama “la lenta cancellazione del futuro”. Come lui stesso spiega,

Quando dico ‘futuro’ non mi riferisco ad una delle direzioni possibili del tempo, ma ad una modalità psicologica, emersa dall’alveo culturale della modernità – la lunga epoca che credeva nella proiezione progressiva del futuro e le cui aspettative culturali raggiunsero il proprio picco massimo durante il secondo dopoguerra. Queste aspettative si erano formate all’interno di una cornice concettuale in cui il futuro faceva tutt’uno con lo sviluppo progressivo – una cornice concettuale che poteva però assumere aspetti diversi a seconda delle differenti metodologie: la mitologia Hegelo-Marxiana dell’Aufhebung e della rifondazione della storia con l’avvento della nuova totalità portata dal Comunismo; la mitologia borghese dello sviluppo lineare del welfare e della democrazia; la mitologia tecnocratica del potere onnipotente della conoscenza scientifica; e così via. La mia generazione è cresciuta proprio durante la fase clou di questa concezione mitologica del tempo ed è molto difficile ora (se non proprio impossibile) per quelli della mia generazione sbarazzarsene e guardare alla realtà senza il filtro di una simile nozione della temporalità. Non sarò mai in grado di vivere in conformità alla nuova realtà – per quanto evidente questa possa essere nelle sue accecanti manifestazioni planetarie.
(La traduzione di questo passaggio, assente dall’edizione italiana, è nostra – ndr).

Bifo è più grande di me di una generazione e nondimeno la percezione di questa spaccatura temporale ci accomuna. Nemmeno io, infatti, potrò mai adattarmi ai paradossi di questa nuova situazione. Di primo acchito si potrebbe essere tentati di riportare ciò che sto dicendo alla vecchia storia, ormai trita e ritrita, dei vecchi che non riescono a scendere a patti con il nuovo, convinti come sono che si stava meglio ai loro tempi. Eppure è esattamente questo quadretto – in cui ai giovani è automaticamente assegnato il ruolo di avanguardia del cambiamento culturale – ad essere diventato fuori moda. 
Infatti, piuttosto che immaginarci dei vecchi che indietreggiano di fronte al ‘nuovo’ per paura e perché incapaci di afferrarne il significato, dobbiamo immaginarci persone le cui aspettative si siano formate in un’epoca precedente e che si trovino oggi spiazzate dalla ostinata persistenza di forme ormai ben riconoscibili. Questo è particolarmente evidente nell’ambito della musica pop e della cultura più generale ad essa collegata. È stato proprio attraverso i cambiamenti nella musica pop che molti di quelli che, come me, sono cresciuti negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, hanno imparato a misurare lo scorrere del tempo culturale. Ascoltando però la musica del XXI secolo, diventa impossibile non percepire che è proprio il senso stesso dello shock del futuro ad essere sparito. Lo si può verificare con un semplice esperimento mentale. Immaginiamoci che un disco qualunque fra quelli usciti negli ultimi due anni sia rispedito indietro nel tempo – diciamo, per esempio, nel 1995 – e trasmesso in radio. Risulta difficile immaginare che possa suscitare alcun sussulto di stupore negli ascoltatori. Al contrario, quello che assai probabilmente scioccherebbe il nostro pubblico del 1995 sarebbe proprio la riconoscibilità immediata dei suoni: ‘è mai possibile’ – si chiederebbero questi ascoltatori del passato – ‘che in diciassette anni la musica sia cambiata così poco?’ Ora confrontiamo questa situazione con quella degli anni Sessanta e Novanta, in cui gli stili musicali si sono avvicendati con grande rapidità. Immaginiamo di far ascoltare un disco jungle del 1993 a qualcuno nel 1989: a questo ascoltatore, il disco sembrerebbe qualcosa di talmente nuovo da spingerlo a chiedersi cosa davvero sia la musica e cosa questa possa ancora diventare. Mentre la cultura sperimentale del XX secolo era in preda a un delirio ricombinante, che dava la sensazione che il bacino del ‘nuovo’ fosse infinitamente inesauribile, il XXI secolo è oppresso da una schiacciante impressione di finitudine ed esaurimento delle risorse. Non dà, insomma, la sensazione di essere ‘il futuro’ – o, per dirla diversamente, la sensazione è che il XXI secolo non sia mai nemmeno cominciato: restiamo intrappolati nel XX secolo, proprio come Sapphire e Steel restavano intrappolati in quel caffè lungo la strada.

 

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La lenta cancellazione del futuro è stata accompagnata da una deflazione delle aspettative. Quasi nessuno potrebbe ritenere probabile, ad esempio, che nel corso dell’anno prossimo possa uscire un disco straordinario quanto lo erano – per esempio – Funhouse degli Stooges (1970, ndr) o There’s a Riot Goin’ On di Sly Stone (1971, ndr). E ancor meno ci aspettiamo che possa aver luogo di nuovo, oggi, una frattura epocale come quella portata dai Beatles o dalla disco music. La sensazione di essere in perenne ritardo, di vivere dopo la corsa all’oro, è tanto onnipresente quanto disconosciuta. Provate a confrontare la landa brulla del presente con la fecondità dei periodi precedenti e immediatamente vi si accuserà di ‘nostalgia’. Più precisamente, però, la fiducia che gli artisti del momento ripongono negli stili del passato suggerisce che il presente è stretto nella morsa di una nostalgia formale – di cui a breve dirò di più. 
Non si può certo dire che non sia accaduto nulla da quando la lenta cancellazione del futuro ha avuto inizio. Al contrario, questi ultimi trent’anni sono stati anni di cambiamento profondo e traumatico. Nel Regno Unito, l’elezione di Margaret Thatcher metteva fine ai deboli compromessi del cosiddetto consenso sociale post-bellico. Il programma politico neo-liberale della Thatcher veniva consolidato da una ristrutturazione transnazionale dell’economia capitalistica. Il passaggio al cosiddetto post-Fordismo – cioè ad una fase segnata dalla globalizzazione, dalla computerizzazione e dalla precarizzazione del lavoro – portava così, in quel periodo, ad una completa trasformazione dei rapporti fra lavoro e tempo libero. Negli ultimi dieci, quindici anni, poi, internet e le tecnologie della telecomunicazione hanno stravolto totalmente la struttura stessa dell’esperienza quotidiana. Ma ciò nonostante – anzi, forse, proprio per questo – è sempre più forte la sensazione che la cultura abbia perso la propria capacità di afferrare e articolare il presente. Oppure può anche darsi che, significativamente, non ci sia più alcun presente da afferrare e articolare.
Prendiamo ad esempio il concetto di musica ‘futuristica’. ‘Futuristico’ in musica ha smesso ormai da tempo di rimandare ad una dimensione del futuro che ci immaginiamo essere totalmente differente dal presente; piuttosto, quello di ‘futuristico’ è uno stile ormai consolidato, quasi una sorta di carattere tipografico speciale. Quando proviamo a pensare al ‘futuristico’, ci vengono sempre in mente riferimenti come, ad esempio, la musica dei Kraftwerk – sebbene sappiamo che sia ormai antica come lo era la musica jazz dell’ensemble di Glenn Miller quando il gruppo tedesco iniziava a sperimentare i sintetizzatori nei primi anni Settanta. 
Dove sono i Kraftwerk del XXI secolo? Laddove la musica dei Kraftwerk era l’espressione di una certa insofferenza verso il già noto, il momento attuale è invece caratterizzato da una straordinaria capacità di conformarsi agilmente al passato. Anzi, più precisamente ancora, è la stessa distinzione fra passato e presente che sta andando in frantumi. Nel 1981, il 1960 sembrava più lontano di quanto non sembri oggi. Da allora, il tempo culturale si è ripiegato su se stesso e l’idea dello sviluppo lineare ha ceduto il passo ad una strana simultaneità. 

Farò due esempi per illustrare meglio questa particolare temporalità cui mi riferisco. Quando ho visto per la prima volta il video del singolo degli Arctic Monkeys I Bet You Look Good on the Dancefloor del 2005, ho creduto davvero che fosse un qualche artefatto perduto risalente agli anni Ottanta. Tutto nel video – le luci, le acconciature, i vestiti – era stato assemblato per dare l’impressione che si trattasse di una performance trasmessa nel corso del programma di “rock serio” The Old Grey Whistle Test della BBC2. Inoltre, non c’era alcuna incongruenza tra l’aspetto visivo e il suono, nel senso che, almeno ad un ascolto superficiale, si sarebbe potuto credere che si trattasse di un qualche gruppo post-punk dei primi anni Ottanta. Certamente, se si provasse a fare di nuovo quell’esperimento mentale di cui scrivevo poco sopra, sarebbe facile immaginarsi I Bet You Look Good on the Dancefloor che viene trasmesso a The Old Grey Whistle Test nel 1980 e non suscita alcun senso di disorientamento nel pubblico. Proprio come è capitato a me, anche quegli spettatori del 1980 avrebbero pensato che i riferimenti al 1984 presenti nel testo della canzone si riferissero al futuro.
C’è qualcosa di straordinariamente impressionante in tutto ciò. Tornate indietro di altri venticinque anni dal 1980 e vi ritroverete agli esordi del rock and roll. Nel 1980, un disco che suonasse in modo simile a uno di Buddy Holly o di Elvis sarebbe sembrato fuori tempo. Naturalmente, dischi del genere uscirono realmente nel 1980, ma rientravano nel genere del ‘retro rock’. Se invece gli Arctic Monkeys non sono classificati come un gruppo ‘retrò’ ciò è in parte dovuto al fatto che, nel 2005, non c’è ormai più alcun ‘ora’ rispetto a cui stabilire cosa sia ‘retrò’.  Nel 1990 era ancora possibile parlare di revivalismo Britpop, confrontandolo con lo sperimentalismo che allora caratterizzava la scena underground dell’elettronica da ballo britannica o l’R&B negli Stati Uniti. Nel 2005, invece, i ritmi di innovazione in entrambe queste scene musicali risultano ormai molto rallentati. L’elettronica da ballo britannica è ancora assai vitale se confrontata con il rock; eppure i cambiamenti che avvengono sono minuscoli, quasi incrementali, al punto che riescono a captarli solo gli iniziati. Non c’è più, cioè, quella dislocazione della sensazione che si sentiva nel passaggio dalla musica Rave alla Jungle e dalla Jungle allo stile Garage negli anni Novanta. Mentre scrivo queste righe, uno dei suoni più diffusi nel pop (cioè la musica da discoteca che ha rimpiazzato l’R&B a livello globale) somiglia molto all’Eurotrance, un cocktail molto blando creato negli anni Novanta mescolando insieme gli elementi più insipidi della House e della Techno.

 

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Secondo esempio. La prima volta che ho sentito la versione di Valerie di Amy Winehouse (contenuta nell’album di Mark Ronson Version, 2007, ndr) stavo passeggiando in un centro commerciale – forse il posto ideale in cui consumare l’ascolto di un brano del genere. Fino ad allora, avevo sempre creduto che Valerie fosse stata incisa per la prima volta dagli Zutons, pedante gruppo indie rock britannico (2006, ndr). Eppure, per un momento, il suono soul anticato del disco, in stile anni Sessanta, e la voce (che ad un primo ascolto non avevo riconosciuto essere quella di Winehouse) mi facevano riesaminare questa mia convinzione: “Sicuramente” – pensai in quel momento – “la versione degli Zutons deve essere una cover di questa versione qui, a quanto pare più ‘vecchia’, che non avevo mai sentito prima…” Ovviamente, non mi ci volle molto per rendermi conto che quel ‘suono soul anni Sessanta’ era in realtà una simulazione: era questa versione ad essere una cover di quella degli Zutons, realizzata nello stile retro truccato in cui si è specializzato il produttore del pezzo, Mark Ronson. 
Le produzioni di Ronson sembrano fatte apposta per esemplificare quello che Fredric Jameson ha definito “la modalità nostalgica”. Jameson descrive questa tendenza nei suoi scritti straordinariamente profetici sul postmodernismo, a partire dagli anni Ottanta. Ciò che rende Valerie e gli Arctic Monkeys casi emblematici del retrò postmoderno è il modo in cui performano l’anacronismo. Anche se entrambi suonano sufficientemente storicamente ‘fedeli’ all’epoca che scimmiottano, tanto da passare realmente per pezzi d’epoca ad un primo ascolto, pur tuttavia c’è in essi qualcosa che non quadra. Incongruenze nella trama sonora – risultato delle tecniche di studio e di registrazione contemporanee – indicano che si tratta di pezzi che non appartengono né al presente né al passato, ma ad una qualche era ‘senza tempo’, un eterno mondo-anni-Sessanta o anni-Ottanta. Il suono ‘classico’, i cui elementi sono stati ormai serenamente liberati dalle pressioni del divenire storico, può ora essere ciclicamente rispolverato e tirato a lucido grazie alle nuove tecnologie. 
È importante essere chiari sul senso preciso che Jameson attribuisce all’espressione “maniera nostalgica”. L’autore non si riferisce infatti alla nostalgia psicologica; anzi, la maniera nostalgica così come la teorizza Jameson si potrebbe dire che precluda la nostalgia psicologica, poiché emerge soltanto allorquando il senso coerente del tempo storico va in frantumi. Figure capaci di mostrare ed esprimere un anelito verso il passato sono infatti riconducibili ai paradigmi dell’epoca modernista; basti pensare, ad esempio, agli sforzi d’ingegno di Proust e Joyce per ritrovare il tempo perduto. La maniera nostalgica di Jameson, invece, è più precisamente un attaccamento formale alle tecniche e alle formule del passato, conseguenza di un abbandono di quella sfida tipicamente modernista che animava il continuo rinnovamento delle forme culturali affinché queste fossero adeguate a descrivere l’esperienza contemporanea. L’esempio chiave che fa Jameson è quello del film (ormai quasi dimenticato) Body Heat (tr. it. Brivido caldo, ndr), di Lawrence Kasdan (1981); film che, sebbene fosse ufficialmente ambientato negli anni Ottanta, dava la sensazione di essere un film degli anni Trenta. Scrive Jameson,

Sul piano tecnico, Body Heat non è un film nostalgico, dal momento che è ambientato in uno scenario contemporaneo, in un piccolo insediamento in Florida vicino Miami. D’altra parte, tale contemporaneità tecnica è veramente ambigua. […] Tecnicamente […] i suoi oggetti (le sue automobili, per esempio) sono prodotti degli anni Ottanta, ma tutto il resto cospira, nel film, ad annichilire tale immediato riferimento al contemporaneo e a far sì che lo si possa percepire anch’esso come fatto nostalgico – come fatto narrativo all’interno di un passato nostalgico indefinibile, un eterno mondo-anni-Trenta, al di là della storia. Mi sembra un’ipotesi supportata da sintomi sin troppo evidenti quella per la quale proprio lo stile dei film nostalgici stia invadendo e colonizzando anche quei film che hanno un’ambientazione contemporanea: come se, per qualche strana ragione, non fossimo in grado, oggi, di mettere a fuoco il nostro presente, come se fossimo divenuti incapaci di produrre delle rappresentazioni estetiche della nostra esperienza attuale. Ma se è così, allora è un atto d’accusa terribile contro lo stesso capitalismo consumistico – o almeno un sintomo allarmante e patologico di una società divenuta incapace di affrontare il tempo e la storia.

Se Body Heat non può essere considerato né un artefatto d’epoca né un film nostalgico cioè è dovuto principalmente al fatto che nel film viene negato qualunque riferimento diretto al passato; da ciò, l’anacronismo della pellicola. E il paradosso, qui, è che questo “annichilimento della contemporaneità ufficiale”, questa “scomparsa della storicità”, diventano sempre più i tratti tipici della nostra esperienza dei prodotti culturali. Un altro degli esempi di maniera nostalgica che Jameson riporta è quello di Star Wars (tr. it. Guerre Stellari, 1977-1983, ndr).

Una delle esperienze culturali più importanti delle generazioni cresciute tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta era la serie televisiva del sabato pomeriggio di Buck Rogers – extra-terrestri da strapaese, veri eroi americani, eroine in preda all’angoscia, il raggio della morte o la scatola del giudizio universale, e l’impiccagione alla fine alla cui miracolosa risoluzione non si poteva mancare di assistere il sabato successivo. Guerre Stellari reinventa questa esperienza nella forma del pastiche: e cioè, non esiste più ragion d’essere per una parodia di queste serie dal momento che esse sono estinte ormai da lungo tempo. Lungi dall’essere una satira senza tempo di tali forme oggi defunte, Guerre stellari soddisfa una profonda (potrei forse aggiungere repressa?) voglia di ripeterne l’esperienza; è un oggetto complesso nel quale ad un primo livello i bambini e gli adolescenti possono assumere le avventure direttamente, mentre il pubblico adulto è in grado di soddisfare un più profondo e più propriamente nostalgico desiderio di ritornare a quel periodo precedente e di vivere ancora una volta i suoi vecchi e strani manufatti estetici.

Qui non c’è alcuna nostalgia per un periodo storico in particolare (o, se c’è, è soltanto indiretta): piuttosto, il desiderio che Jameson descrive in queste righe è quello di una forma. Star Wars è un esempio particolarmente significativo di anacronismo postmoderno, per il modo in cui usa la tecnologia per camuffare la forma arcaica. Celando le proprie origini all’interno della forma ormai stantia di una serie d’avventura, Star Wars potrebbe sembrare nuovo per mezzo di tutti gli effetti speciali senza precedenti che impiega, ottenuti attraverso le più recenti tecnologie. Se, in una maniera tipicamente modernista, i Kraftwerk usavano la tecnologia per fare emergere delle forme nuove, la maniera nostalgica invece ha relegato la tecnologia alla funzione di elemento tramite cui mettere a nuovo ciò che è ormai vecchio. L’effetto è stato quello di camuffare la sparizione del futuro nel suo contrario. 
Il futuro non è sparito dalla sera alla mattina. L’espressione di Berardi “la lenta cancellazione del futuro” è così appropriata perché cattura esattamente il lento ma inesorabile processo tramite cui il futuro è stato gradualmente eroso nel corso degli ultimi trent’anni. Se è nei tardi anni Settanta e nei primi anni Ottanta che la crisi corrente della temporalità culturale ha iniziato a farsi sentire, è soltanto a partire dalla prima decade del XXI secolo che quella che Simon Reynolds chiama “discronia” è diventata endemica. Questa discronia, questa disgiunzione temporale, avrebbe dovuto essere perturbante; eppure, la predominanza di quella che Reynolds chiama “retromania” indica che essa ha perso ogni tratto unheimlich: l’anacronismo, ora, è dato per scontato. Il postmodernismo di Jameson – con la sua inclinazione verso la retrospezione e il pastiche – è stato naturalizzato. Pensate, per esempio, ad Adele, che ha un successo assolutamente straordinario: sebbene la sua musica, sul mercato, non rientri nel genere ‘retro’, non c’è niente nei suoi dischi che possa caratterizzarli pienamente come prodotti del XXI secolo. Come tanti prodotti culturali contemporanei, i dischi di Adele sono impregnati di un vago ma persistente feeling di passato, senza pur tuttavia rimandare specificamente ad alcuna epoca storica.

 

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Jameson identifica la “sparizione della storicità” con la “logica culturale del tardo capitalismo”, senza però spiegare nei dettagli perché le due espressioni siano l’una sinonimo dell’altra. Perché l’arrivo del capitalismo neo-liberale post-Fordista ha portato alla cultura della retrospezione e del pastiche? Possiamo forse azzardare un paio di ipotesi. La prima riguarda il consumo. Potrebbe essere che la distruzione della solidarietà e della sicurezza introdotte dal capitalismo neoliberale abbiano generato una fame compensatoria di cose certe e già ben familiari? Paul Virilio ha proposto il concetto di “inerzia polare”, che sarebbe una sorta di effetto collaterale della e contrappeso alla straordinaria accelerazione della comunicazione. L’esempio chiave di Virilio è quello di Howard Hughes, che passò quindici anni della propria vita in una stanza d’hotel, guardando e riguardando a ripetizione Ice Station Zebra (tr. it. Base artica Zebra, 1968, ndr). Hughes, un tempo un pioniere dell’aeronautica, fu tra i primi esploratori del terreno esistenziale che sarebbe stato spalancato dal ciberspazio, in cui non è più necessario spostarsi fisicamente per avere accesso all’intera storia della cultura. O per dirla diversamente, seguendo le argomentazioni di Berardi, l’intensità e la precarietà della cultura del lavoro tardo capitalista ci gettano in una condizione che è simultaneamente di esaurimento e di iper-stimolazione. La combinazione di lavoro precario e comunicazioni digitali mette sotto assedio l’attenzione. In questo stato insonne, soffocante – sostiene Berardi – la cultura viene de-erotizzata. L’arte della seduzione richiede troppo tempo e, secondo l’autore, anche il Viagra non è che una risposta ad un deficit culturale più che biologico: disperatamente privi di tempo, energie e attenzione, chiediamo con forza soluzioni immediate. Lo stesso discorso vale per il retrò che, come un altro degli esempi riportati da Berardi, cioè la pornografia, promette la soluzione rapida e semplice di una soddisfazione già nota con il minimo della variazione possibile. 
L’altra spiegazione del nesso fra tardo capitalismo e retrospezione ha a che vedere con la produzione. Nonostante tutta la retorica della novità e dell’innovazione, il capitale neoliberale ha gradualmente ma sistematicamente privato gli artisti delle risorse necessarie per produrre il nuovo. Nel Regno Unito, lo stato sociale del dopoguerra e le borse di mantenimento agli studenti (l’autore si riferisce alla quota a fondo perduto concessa nel Regno Unito sul prestito d’onore che può essere richiesto per il finanziamento dei propri studi universitari - ndr) più alte di quelle di oggi rappresentarono una forma di finanziamento indiretto alla maggior parte degli esperimenti che ebbero luogo nell’ambito della cultura pop tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. Tuttavia, il successivo attacco ideologico e pratico ai servizi pubblici portò ad una situazione in cui anche questo spazio, che era uno di quelli dove gli artisti potevano sentirsi al sicuro dalla pressione di produrre qualcosa che avesse immediato successo, venne drasticamente circoscritto. Mentre il servizio pubblico radiotelevisivo diventava sempre più ‘marketised’ (una possibile traduzione italiana del termine è ‘marchetizzato’, ndr), crebbe anche la tendenza a produrre un tipo di cultura che somigliasse a quella già esistente e già di successo. Conseguenza di tutto ciò fu che il tempo a disposizione per sottrarsi dal lavoro ed immergersi nella produzione culturale si ridusse drasticamente. Se c’è un fattore che più di ogni altro contribuisce al conservatorismo culturale, questo è l’aumento dell’inflazione sul canone di locazione e sulle ipoteche. Non è un caso, infatti, che l’effervescenza culturale di Londra e di New York nei tardi anni Settanta e nei primi anni Ottanta (nelle scene punk e post-punk) abbia coinciso con la disponibilità di immobili occupati abusivamente o a basso prezzo. Da allora, il declino dell’edilizia popolare, l’attacco all’occupazione abusiva e il folle aumento dei prezzi degli immobili hanno portato ad una massiccia diminuzione del tempo e delle energie spendibili nella produzione culturale. Ma forse è stato solo con l’arrivo del capitalismo comunicativo digitale che questo processo ha raggiunto il picco massimo di crisi. Naturalmente la cattura dell’attenzione di cui scrive Berardi riguarda tanto i produttori quanto i consumatori. La possibilità di produrre il nuovo dipende dalla possibilità di sottrarsi da una serie di cose, quali ad esempio la socialità o forme culturali preesistenti. Ma la forma di socialità dominante oggi – quella del ciberspazio delle reti sociali, con le sue infinite opportunità di micro-contatto e la sua valanga di link su YouTube – ha reso la possibilità di sottrarsi da qualunque cosa più difficile che mai. Per riprendere Simon Reynolds, che spiega questo processo in maniera assai precisa, negli ultimi anni la vita quotidiana si è accelerata, ma la cultura ha rallentato. 
Al di là di quali siano le cause di questa patologia temporale, è chiaro che nessuna area della cultura occidentale ne sia immune. I vecchi avamposti del futurismo, come la musica elettronica, non offrono più una via di fuga dalla nostalgia formale. La cultura musicale è sotto vari punti di vista paradigmatica del fato dell’intera cultura sotto il capitalismo post-fordista. A livello della forma, la musica è bloccata tra il pastiche e la ripetizione, sebbene la sua infrastruttura abbia subito un cambiamento massiccio ed imprevedibile: i vecchi paradigmi di consumo, vendita al dettaglio e distribuzione si stanno disintegrando, mentre il download eclissa l’oggetto fisico, i negozi di dischi chiudono e le copertine degli album spariscono.

 

La ‘hauntology’: perché?
Che cosa ha a che vedere con tutto questo il concetto di hauntology? In effetti, è con un po’ di riluttanza che il termine iniziò a venire utilizzato nell’ambito della musica elettronica più o meno intorno alla metà della scorsa decade. […] 
Jacques Derrida ha introdotto per la prima volta il termine ‘hauntology’ nel suo Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale (1993, ndr), in cui scrive: “Hanter non vuol dire essere presente, e bisogna introdurre la hantise nella stessa costruzione di un concetto”. Quello di ‘hauntology’ è infatti un concetto che prende il nome da un gioco di parole tra il termine ‘ontologia’, con cui si designa una branca della filosofia che studia l’essere in quanto tale (e il verbo francese hanter, che indica il frequentare assiduamente un luogo, l’aggirarvisi insistentemente e, nel caso di un fantasma, l’infestare – ndr). La hauntology è il prosieguo di altri concetti di Derrida, quali la traccia e la différance; come gli altri due termini, anche questo si riferisce al fatto che nulla ha un’esistenza puramente positiva: tutto quel che esiste è possibile solo sulla base di una serie di assenze che lo precedono e lo circondano e che gli consentono di possedere la coerenza e l’intellegibilità che esso ha. Come illustrato in un famoso esempio, ogni termine linguistico particolare prende il proprio significato non dalle sue proprie qualità positive ma dalla sua differenza da altri termini. Da qui, le originali decostruzioni di Derrida della “metafisica della presenza” e del “fonocentrismo”, che mettono in luce il modo in cui particolari forme di pensiero dominanti abbiano (incoerentemente) privilegiato la voce rispetto alla scrittura. 
La hauntology però, rispetto ad altri concetti di Derrida ed in particolare alla différance, mette più esplicitamente in gioco la questione del tempo. Una frase che ritorna più volte in Spettri di Marx è infatti “Questo tempo è scardinato” – una frase tratta dall’Amleto. Inoltre, nel suo recente studio Radical Atheism: Derrida and the Time of Life (2008, ndr), Martin Hägglund sostiene che è possibile leggere tutta l’opera di Derrida in relazione a questo concetto del tempo scardinato. “Lo scopo di Derrida”, afferma Hägglund, “è quello di formulare una ‘hauntology’ (hauntologie) generale, contro la tradizionale ‘ontologia’ che pensa l’essere come una presenza che si identifica in sé stessa. L’importanza della figura dello spettro risiede dunque nel fatto che esso non può essere pienamente presente: non ha essere in sé, ma segna una relazione con quel che non è più o quel che non è ancora”.
La hauntology sarebbe dunque semplicemente un tentativo di riportare in vita il sovrannaturale o magari soltanto un modo di dire? Per uscire da questa impasse dicotomica, occorre necessariamente pensare la hauntology come l’agentività del virtuale: lo spettro non è un qualcosa di sovrannaturale, ma ciò che agisce senza esistere (fisicamente). I grandi pensatori della modernità, come Freud e Marx, avevano scoperto diverse modalità di questa causalità spettrale. Il mondo tardo capitalista, governato dalle astrazioni della finanza, è molto chiaramente un mondo in cui le virtualità hanno effetti – e forse il più infausto degli “spettri di Marx” è il capitale stesso. Ma come Derrida sottolinea in una intervista inclusa nel film Ghost Dance (1983, ndr), la psicoanalisi è anche la “scienza dei fantasmi”, uno studio di come gli eventi che si riverberano nella psiche diventino spiriti. 
Ritornando di nuovo alla distinzione di Hägglund fra il non più e il non ancora, possiamo provvisoriamente distinguere due diverse sensi coesistenti nella hauntology. Il primo si riferisce a ciò che non è più (attuale), ma che rimane capace di effetti in quanto virtualità (la “compulsione a ripetere” traumatica: un pattern fatale). Il secondo si riferisce a cioè che non è ancora accaduto (come attuale), ma produce già effetti in quanto virtuale (un attrattore, un’anticipazione che dà forma al comportamento presente). Lo “spettro del comunismo” che Karl Marx ed Friedrich Engels annunciavano in una delle prime righe del Manifesto del Partito Comunista (1948, ndr) era proprio uno spettro di questo tipo: una virtualità il cui avvento, fino ad allora ancora solo annunciato, già giocava un ruolo nel minare lo status quo.

 

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Oltre a segnare uno dei momenti chiave del progetto filosofico decostruzionista di Derrida, Spettri di Marx era anche un tentativo di riflessione sul contesto storico di riferimento, che era quello in cui aveva luogo lo smantellamento dell’impero sovietico. Meglio ancora, il saggio era un tentativo di riflettere sulla presunta fine della storia annunciata con fervore da Francis Fukuyama nel suo La fine della storia e l’ultimo uomo (2003, ndr). Cosa sarebbe accaduto ora che il socialismo realmente esistente era collassato e il capitalismo poteva esprimersi al massimo, non più contrastato dall’esistenza di un altro blocco, ma soltanto da piccole isole di resistenza come Cuba e la Corea del Nord? L’era di ciò che io ho chiamato “realismo capitalista” – la diffusa credenza che non vi sia alcuna alternativa al capitalismo – è stata infestata non dall’apparizione dello spettro del comunismo, ma dalla sua sparizione. Come ha scritto Derrida:

C’è oggi nel mondo un discorso dominante… Questo discorso dominante ha spesso la forma maniacale, giubilatoria e incantatoria che Freud assegnava a una certa fase detta trionfante del lutto. L’incantesimo si ripete e si ritualizza, dipende da e se si attiene a delle formule, come vuole ogni magia animista. È sempre la stessa solfa e lo stesso ritornello. Al ritmo di un passo cadenzato proclama: Marx è morto, il comunismo è morto, davvero morto, con le sue speranze, il suo discorso, le sue teorie e le sue pratiche, viva il capitalismo, viva il mercato, sopravviva il liberalismo economico e politico!

Spettri di Marx rappresentava anche, per Derrida, una riflessione sulle tecnologie mediatiche (o sull’era post-mediatica) che il capitalismo ha istallato sul proprio territorio globale. In questo senso, la hauntology non era per nulla un concetto astratto; piuttosto, si trattava di un qualcosa di totalmente endemico nell’era della “tecno-tele-discorsività, tecno-tele-iconicità”, dei “simulacri” e delle “immagini sintetiche”. Questa discussione sul “tele-” mostra come la hauntology riguardi una crisi dello spazio oltre che del tempo. Come sostengono già da tempo teorici come Virilio e Jean Baudrillard […], le ‘tele-tecnologie’ fanno collassare lo spazio e il tempo. Eventi distanti fra loro nello spazio sono fruibili simultaneamente dal pubblico. Né Baudrillard, né Derrida avrebbero vissuto tanto a lungo da poter vedere i massimi effetti delle ‘tele-tecnologie’ – i massimi effetti fino ad ora, ovviamente – che hanno così radicalmente ristretto lo spazio ed il tempo, il ciberspazio. Ma è certamente qui che diventa evidente il primo motivo per cui la hauntology sarebbe poi diventata un termine per riferirsi alla cultura pop della prima decade del XXI secolo: è stato in questa fase, infatti, che il ciberspazio ha raggiunto il dominio assoluto sulle dinamiche di ricezione, distribuzione e consumo della cultura – specialmente nell’ambito della cultura musicale. 
Quando viene usato per riferirsi alla cultura musicale – nei miei scritti ed in quelli di altri critici come Simon Reynolds e Joseph Stannard – la hauntology è in primo luogo un termine usato per riferirsi ad una particolare confluenza di artisti. Il termine ‘confluenza’ è cruciale qui, poiché questi artisti – e mi riferisco a William Basinski, all’etichetta Ghost Box, a The Caretaker, a Burial, a Mordant Music e a Philip Jeck, tra gli altri – ad un tratto sono venuti a convergere sullo stesso terreno senza influenzarsi direttamente l’un altro: ad accomunarli non è stato tanto un suono, quanto una sensibilità, un orientamento esistenziale. Gli artisti che furono etichettati come appartenenti al genere “hauntological” erano immersi in una formidabile malinconia e a tutti stava a cuore entrare in qualche modo in relazione con il processo tramite cui la tecnologia materializza la memoria; da ciò, una fascinazione per la televisione, per il vinile, per i nastri e per i suoni emessi da queste tecnologie nel momento della loro rottura. Questa fissazione per la memoria materializzata diede origine a quella che è probabilmente la caratteristica sonora principale della hauntology: l’uso del crackle, il particolare crepitìo prodotto dalla superficie del vinile. Il crackle ci fa rendere conto del fatto che stiamo ascoltando un tempo scardinato; non ci permette di cadere nell’illusione della presenza. Inverte l’ordine normale dell’ascolto in cui, per dirla con Ian Penman, ci siamo abituati al fatto che il “ri-” della “riproduzione” venga represso. Non solo ci rendiamo quindi conto così che i suoni che stiamo ascoltando sono registrati, ma diventiamo anche consapevoli della presenza dei sistemi di riproduzione sonora che utilizziamo per ascoltare le registrazioni. Inoltre, dietro molta hauntology sonora c’è anche la questione della differenza tra l’analogico e il digitale: tantissime tracce hauntological sono infatti incentrate sulla rivisitazione della fisicità dei media analogici nell’era dell’etere digitale. I file MP3, infatti, sono certamente materiali, ma la loro materialità è occultata, ci è nascosta, a differenza di quanto avveniva con la materialità tattile del vinile o anche dei CD. 
Questo desiderio di far rivivere un regime di materialità più antico gioca un ruolo importante nel creare la malinconia di cui è piena la musica hauntological. E, volendo indagare sulle cause di questa malinconia, l’indizio chiave ce lo fornisce il titolo di un album di Leyland Kirby: Sadly, The Future Is No Longer What It Was (2009, ndr). Nella musica hauntological c’è un’implicita presa di coscienza che le speranze inaugurate dall’elettronica del dopoguerra o dall’euforia della dance music degli anni Novanta siano evaporate: non solo il futuro non è mai arrivato, ma anzi non sembra più nemmeno possibile. Eppure, allo stesso tempo, la musica è in sé un modo di rifiutarsi di abbandonare per sempre il desiderio di futuro. Questo rifiuto conferisce alla malinconia una dimensione politica, perché in definitiva indica l’incapacità di adattarsi all’orizzonte chiuso del realismo capitalista.

 

Non rinunciare al fantasma
Secondo Freud, sia il lutto che la malinconia hanno a che vedere con la perdita. Ma laddove il lutto è il lento, doloroso disinvestimento della libido dall’oggetto perduto, nello stato malinconico persiste un attaccamento a ciò che è scomparso. Affinché il lutto possa davvero avere inizio, scrive Derrida in Spettri di Marx, il morto deve essere scongiurato: “Lo scongiuro dovrebbe assicurarsi che il morto non ritornerà: presto, far di tutto perché il suo cadavere resti localizzato, in luogo sicuro, in decomposizione esattamente lì dove è stato inumato, anzi imbalsamato, come si usava fare a Mosca”. Può però anche succedere che non sia concesso interrare il corpo, così come esiste il rischio di esagerare nell’uccidere qualcosa ad un punto tale che questa diventa uno spettro, una pura virtualità. “Le società capitalistiche”, scrive ancora Derrida, “possono sempre tirare un sospiro di sollievo e dirsi: il comunismo è finito dopo il crollo dei totalitarismi del XX secolo, e non solo è finito, ma non ha mai avuto luogo, non è stato che un fantasma. Non possono negare ciò che resta comunque innegabile: che un fantasma non muore mai, ma resta sempre a venire e a rinvenire”.
Lo haunting, allora, può essere considerato una sorta di fallimento del lavoro del lutto. Si tratta, cioè, del rifiuto di rinunciare al fantasma, oppure il rifiuto del fantasma di rinunciare a noi – e qualche volta queste due cose coincidono. Lo spettro cioè non ci permetterà di accontentarci o accettare le mediocri soddisfazioni che vediamo baluginare di tanto intanto dinanzi ai nostri occhi in un mondo governato dal realismo capitalista. 
La hauntology nel XXI secolo non ha a che vedere con la sparizione di un oggetto in particolare: ad essere svanita è una tendenza, una traiettoria virtuale. Uno dei nomi di questa traiettoria è ‘modernismo pop’. L’ecologia culturale cui mi riferivo più sopra, cioè la stampa musicale e le punte più avanzate del servizio pubblico radiotelevisivo, erano parte del modernismo pop britannico – così come lo erano il post-punk, l’architettura brutalista, i tascabili Penguin e la Radiophonic Workshop della BBC. Nel modernismo pop, il progetto elitario del modernismo veniva retrospettivamente rivendicato; contemporaneamente, si stabiliva una volta e per sempre che la cultura pop(olare) non dovesse essere necessariamente populista. Particolari tecniche moderniste erano non solo disseminate nella cultura pop, ma rielaborate collettivamente ed ampliate, appropriandosi di e rinnovando la missione modernista, che era quella di produrre nuove forme che fossero adeguate al presente. Il che vuol dire che, sebbene io allora non me ne rendessi conto (come è ovvio che sia), la cultura che ha dato forma alle mie prime aspettative era essenzialmente una cultura modernista pop. Ghosts of My Life, allora, è esattamente un tentativo di venire a patti con la sparizione delle condizioni che permettevano ad una cultura di questo tipo di esistere.
Vale la pena, a questo punto, soffermarsi un attimo su una delucidazione necessaria: vorrei spiegare le differenze che intercorrono fra la malinconia legata alla hauntology di cui sto scrivendo in queste pagine e altre due forme di malinconia. La prima di queste è quella che Wendy Brown ha definito “malinconia di sinistra”. Apparentemente, infatti, le mie riflessioni potrebbero sembrare espressione di una certa rassegnazione malinconica sinistroide, del tipo “sebbene non fossero perfette, le istituzioni della democrazia sociale di un tempo erano sempre meglio di quanto potremmo sperare di avere oggi – anzi di quanto potremo sperare di avere da qui in avanti…” Nel suo saggio “Resisting Left Melancholy” (1999, ndr), Brown attacca “una Sinistra che agisce senza operare una profonda e radicale critica dello status quo e che non fornisce alcuna valida alternativa all’ordine vigente. Ma forse quel che è peggio è che questa è una Sinistra che si è legata più all’idea della sua stessa impossibilità che a quella della sua potenziale capacità; una Sinistra che si sente più a casa nella propria marginalità e nel fallimento che nella speranza; una Sinistra che è catturata in una dinamica di attaccamento malinconico a certi momenti del proprio passato ormai morto, il cui spirito è ormai una emanazione fantasmatica, la cui struttura del desiderio è passatista e punitiva”. Eppure ciò che rende dannosa la malinconia analizzata da Brown è il suo essere una forma di misconoscimento: la malinconia di sinistra descritta da Brown è quella di un depresso che crede di essere un realista; uno che non nutre più alcuna speranza che il proprio desiderio di trasformazione radicale possa essere realizzato, ma che non si rende conto di avere lui stesso rinunciato a quel desiderio. In una sua riflessione sul saggio di Brown contenuta in The Communist Horizon (2012, ndr), Jodi Dean fa riferimento alla proposizione di Lacan che recita “propongo che l’unica cosa di cui si possa essere colpevoli […] sia di aver ceduto al proprio desiderio”; per Dean, il passaggio che Brown descrive – da una sinistra fiduciosamente convinta che il futuro le appartenga, ad una che si crogiola nella propria incapacità di agire – sembra esemplificare la transizione dal desiderio (che in termini lacaniani è il desiderio di desiderare) alla pulsione (un godimento che passa attraverso il fallimento). Il tipo di malinconia di cui io sto scrivendo, invece, è un rifiuto – per così dire – di adeguarsi a ciò che oggi si chiama “realtà”, anche se il prezzo da pagare per un tale rifiuto è quello di sentirsi degli esiliati nel proprio stesso presente… 
Il secondo tipo di malinconia che occorre distinguere dalla malinconia legata alla hauntology è quella che Paul Gilroy chiama “melanconia postcoloniale” (2006, ndr). Gilroy definisce questa forma di malinconia come un tentativo di sfuggire a qualcosa: un’evasione “dai dolorosi obblighi di elaborare gli squallidi dettagli della storia coloniale e imperiale e di trasformare il senso di colpa paralizzante in una vergogna più produttiva, che faciliti la costruzione di una nazionalità multiculturale non più impaurita dalla prospettiva di esporsi agli stranieri o all’alterità”. Questa malinconia deriva dalla “perdita di una fantasia d’onnipotenza”. Come la malinconia di sinistra di Brown, allora, la “melanconia postcoloniale” è anch’essa una forma di misconoscimento: la sua “caratteristica combinazione”, scrive Gilroy, è fatta di “esaltazione parossistica, miseria, autodisprezzo e ambiguità”. Il malinconico postcoloniale non si rifiuta (semplicemente) di accettare il cambiamento; piuttosto, in un certo qual modo, si rifiuta di accettare l’idea stessa che il cambiamento sia avvenuto. Rimanendo legato in modo del tutto incoerente alla propria fantasia d’onnipotenza, è capace di esperire il cambiamento solo nelle forme del declino e del fallimento, le cui cause attribuisce ovviamente all’‘altro da sè’, il migrante, su cui cade la sua condanna (e qui l’incoerenza è palese: se il malinconico postcoloniale fosse realmente onnipotente, come potrebbe mai l’immigrato rappresentare per lui una minaccia?). A prima vista, si potrebbe considerare la malinconia legata alla hauntology come una variante della malinconia postcoloniale: l’ennesimo piagnisteo del povero ragazzo bianco che si lamenta dei privilegi che ha perduti…  Eppure, se così fosse, allora si tratterebbe soltanto della peggior forma di risentimento possibile per ciò che si è perso: il ressentiment; o ancora ciò che Alex Williams ha chiamato “solidarietà negativa”, ovvero quella in cui siamo invitati a festeggiare non la crescita della libertà, ma il fatto che un altro gruppo sociale sia stato miseramente ridotto in rovina – cosa particolarmente triste quando il gruppo in questione è per lo più quello della working class, la classe lavoratrice.

 

Se non ‘nostalgia’, cos’altro allora?
Tutto ciò ci riporta ancora una volta alla questione della nostalgia: la hauntology è forse, come hanno sostenuto molti critici, semplicemente un altro nome della nostalgia? Si tratta semplicemente di uno struggimento malinconico per la democrazia sociale e le sue istituzioni? Considerata l’onnipresenza della nostalgia formale che ho descritto più sopra, la domanda corretta è però, piuttosto, questa: se non ‘nostalgia’, cos’altro allora? Sembra strano dover sostenere con forza che il fare un confronto tra passato e presente a detrimento del presente non è automaticamente sinonimo di colpevole nostalgia; eppure tale è il potere delle pressioni de-storicizzanti del populismo e delle PR che è bene essere quanto più chiari ed espliciti possibile su questo punto. Le PR e il populismo alimentano l’illusione relativista che l’intensità e l’innovazione siano equamente distribuite in tutte le epoche della cultura. È la tendenza a sovrastimare erroneamente il passato che rende la nostalgia disdicevole. Ma una delle cose che ci ha insegnato When The Lights Went Out (2010, ndr) di Andy Beckett – una storia del Regno Unito negli anni Settanta – è che, sotto diversi punti di vista, sottostimiamo erroneamente un’epoca come gli anni Settanta: Beckett ci mostra infatti come in realtà il realismo capitalista sia stato costruito proprio a partire da una miticizzazione negativa di questa decade. Per contro, le PR onnipresenti ci inducono a sovrastimare altrettanto erroneamente il presente – e quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a vederselo propinato ancora e ancora e ancora come un prodotto di consumo. 
Se gli anni Settanta sono stati per molti aspetti meglio di quanto oggi vorrebbe farci pensare il neoliberismo, dobbiamo allora anche renderci conto di quanto la distopia capitalista della cultura del XXI secolo non ci sia stata semplicemente imposta, ma piuttosto sia stata costruita a partire da una cattura dei nostri desideri. Come ha osservato Jeremy Gilbert, “Tutto quello che più temevo potesse accadere negli ultimi trent’anni è in realtà accaduto. Tutto ciò rispetto a cui mi avevano messo in guardia i miei mentori politici – quando ero ancora un ragazzo delle case popolari di un povero distretto dell’Inghilterra del Nord nei primi anni Ottanta, o quando, pochi anni dopo, da studente delle scuole superiori leggevo le denunce al thatcherismo pubblicate sulla stampa di sinistra – è successo veramente. Eppure io non vorrei affatto vivere all’epoca di quarant’anni fa. Il punto è questo, credo: questo è il mondo che tutti temevamo; ma è anche il mondo che tutti, in un certo qual modo, abbiamo voluto” (2012, ndr). Non dovremmo ciò essere costretti a scegliere fra – per dirne una – internet e la sicurezza sociale. Uno dei modi per capire la hauntology è quello di comprendere come i suoi futuri perduti non ci obblighino a false scelte di questo tipo; al contrario, a perseguitarci è lo spettro di un mondo in cui tutte le meraviglie delle tecnologie della comunicazione convivano con un senso di solidarietà assai più forte di quello che qualunque forma di democrazia sociale avrebbe mai potuto o potrebbe mai garantirci. 
Il modernismo pop non fu affatto un progetto completo, uno zenit assoluto che non necessitava di alcuna ulteriore miglioria. Indubbiamente, negli anni Settanta la cultura era aperta all’inventiva della working class in un modo che oggi è pressoché inimmaginabile; ma gli anni Settanta furono anche un’epoca in cui diverse forme di razzismo, sessismo e omofobia erano all’ordine del giorno nella cultura mainstream. Chiaramente, la lotta al razzismo e all’(etero)sessismo non è ancora conclusa nemmeno oggi, ma ci sono stati progressi significativi a livello egemonico, anche se il neoliberismo ha corroso quell’infrastruttura di democrazia sociale che aveva consentito alla working class una maggiore partecipazione alla produzione culturale. La disarticolazione della classe dalla razza, dal genere e dalla sessualità sono stati in effetti centrali per il successo del progetto neoliberale, al punto da far quasi sembrare, in maniera veramente grottesca, che il neoliberismo stesso fosse la necessaria precondizione per il successo delle lotte anti-razziste, anti-sessiste e anti-(etero)sessiste. 
Nella hauntology non c’è in gioco il desiderio per un’epoca in particolare, ma la ripresa del processo di democratizzazione e pluralismo invocato da Gilroy. Forse è utile ricordarci per un attimo che la democrazia sociale è diventata una totalità completa soltanto retrospettivamente; all’epoca, si trattava di un compromesso che, per la sinistra, rappresentava la testa di ponte per il successo di future rivendicazioni sociali. Ad infestare il nostro presente come un fantasma dovrebbe essere quindi non il fatto che la democrazia sociale non esista più, ma il fatto che i futuri che il modernismo pop ci aveva insegnato ad aspettarci non esistano ancora, non si siano in realtà mai materializzati. Questi spettri – gli spettri dei futuri perduti – vengono a redarguire la nostalgia formale che caratterizza il mondo all’epoca del realismo capitalista. 
La cultura musicale è stata un’area centrale nella proiezioni di quei futuri oggi perduti. Il termine stesso di “cultura musicale” qui è cruciale: la cultura tutta che girava intorno alla musica (la moda, i discorsi, la cura grafica delle copertine) è stata importante quanto la musica in sé per sé nel far apparire dal nulla quei mondi seducenti e al contempo strani. L’addomesticamento del carattere straniante della cultura musicale cui assistiamo nel XXI secolo – ovvero il ritorno di terrificanti magnati dell’industria e ragazzi della porta accanto nel pop mainstream, l’intrattenimento popolare che punta tutto sul premiare la ‘realtà’, la crescente tendenza nella cultura musicale a vestirsi e a sembrare in tutto e per tutto versioni chirurgicamente rivedute e corrette della gente ‘qualunque’, l’enfasi sulle acrobazie emotive nel cantato – tutto questo, insomma, ha giocato un grande ruolo nel condizionarci ad accettare il modello di ‘ordinarietà’ del capitalismo consumistico. Michael Hardt e Antonio Negri hanno ragione quando affermano che le rivendicazioni rivoluzionarie delle lotte sulla razza, il genere e la sessualità vanno ben al di là di una mera richiesta di accoglimento ed inclusione di tutte le identità; piuttosto, in ultima analisi, se c’è un obiettivo ‘finale’ è quello di smantellare l’identità. Essi scrivono, infatti, che “dovremmo tenere bene a mente che il processo rivoluzionario di soppressione dell’identità è un processo mostruoso, violento e traumatico. Non provate a salvare voi stessi – perché in realtà è voi stessi che dovrete sacrificare! Questo non vuol dire che la liberazione ci getta in un mare indifferenziato privo di oggetti di identificazione, ma piuttosto che le identità esistenti non ci potranno più fare da ancora di salvezza” (traduzione nostra, ndr). Oltre a metterci in guardia sugli aspetti traumatici di questa trasformazione, Hardt e Negri sono anche consapevoli che questo processo ha degli aspetti gioiosi. Lungo tutto l’arco del XX secolo, la cultura musicale è stata un banco di prova cruciale nel preparaci tutti a godere di un futuro che non sarebbe stato più bianco, maschile o eterosessuale; un futuro in cui il tramonto delle identità – di quelle misere costruzioni della mente – sarebbe stato un sollievo, una benedizione. Nel XXI secolo, al contrario, la cultura musicale pop è stata ridotta al mero livello di specchio della soggettività capitalista, come testimoniano emblematicamente la fusione del pop e della reality TV
A questo punto, dovrebbe essere ormai chiaro che in Ghosts of My Life il concetto di ‘hauntology’ è utilizzato a più livelli. C’è un primo livello che è quello assunto dal concetto nell’ambito della cultura musicale e che, più genericamente, fa riferimento alle persistenze, alle ripetizioni, alle prefigurazioni. Ci sono poi anche altri livelli meno rassicuranti, versioni meno benigne della hauntology. Il libro si muove fra tutti questi diversi usi del termine. 
Questo libro parla dei fantasmi della mia vita; e quindi c’è inevitabilmente una dimensione personale in quello di cui scrivo. Ma io ho dato una mia propria interpretazione del vecchio concetto che “il personale è politico” ricercando le condizioni (culturali, strutturali, politiche) della soggettività: per me, il modo più produttivo di interpretare la frase “il personale è politico” è infatti quello di leggerlo come “il personale è impersonale”. Per chiunque di noi è infinitamente triste essere null’altro che se stesso (e ancor più lo è essere costretti a vendere se stesso). La cultura – e l’analisi della cultura – hanno valore nella misura in cui ci permettono una via di fuga da noi stessi. 
Queste consapevolezze sono state raggiunte a caro prezzo. La depressione è il più maligno degli spettri che mi abbia mai perseguitato nella mia vita – e qui uso il termine ‘depressione’ per distinguere il tetro solipsismo della patologia psichiatrica dalle desolazioni più liriche (e collettive) della malinconia legata alla hauntology. Ho iniziato a tenere un blog nel 2003, quando ero ancora in uno stato di depressione tale che mi era difficile sostenere anche la vita quotidiana. Alcuni degli scritti che compongono questo libro sono scaturiti dalla elaborazione della patologia e non è un caso che l’esserne venuto fuori (con successo, fino ad ora) abbia coinciso con una certa esternalizzazione della negatività: il problema non ero (soltanto) io, ma la cultura intorno a me. Ai miei occhi è lampante il fatto che il periodo che va più o meno dal 2003 ad oggi sarà considerato, nel tempo, e non in un futuro lontano, ma assai presto, come il periodo peggiore per la cultura (pop) dagli anni Cinquanta in poi. Eppure dire che si è trattato di una cultura fiacca e desolante non vuol dire negare che in essa vi siano state tracce di altre possibilità. Ghosts of My Life è un tentativo di entrare in contatto con alcune di queste tracce.

 

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ASCOLTI

  Arctic Monkeys, Whatever People Say I Am, That's What I'm Not, Domino, 2006.
  Leyland Kirby (aka The Caretaker), Sadly, The Future Is No Longer What It Was, History Always Favours the Winners, 2009.
  Mark Ronson, Version, Columbia, 2007.
  Sly and the Family Stone, There’s a Riot Goin’ On, Epic, 1971.
  Stooges, Funhouse, Elektra, 1970.
  Zutons, Tired of Hanging Around, Deltasonic, 2006.

 


 

LETTURE

  Andy Beckett, When The Lights Went Out, Faber & Faber, Londra, 2010.
  Franco Berardi (aka Bifo), Dopo il futuro. Dal Futurismo al Cyberpunk. L’esaurimento della Modernità,
   DeriveApprodi, Roma, 2013.
  Wendy Brown, Resisting Left Melancholy in boundary, Numero 2 (26:3), 1999.
  Jodi Dean, The Communist Horizon, Verso, Brooklyn, 2012.
  Jacques Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Raffaello Cortina, Milano, 1994.
  Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 2003.
  Jeremy Gilbert, Moving on from the Market Society: Culture (and Cultural Studies) in a Post-Democratic Age,
   www.opendemocracy.net/ourkingdom/jeremy-gilbert/
  Paul Gilroy, Dopo l’impero. Melanconia o cultura conviviale?, Meltemi, Roma, 2006.
  Martin Hägglund, Radical Atheism: Derrida and the Time of Life, Stanford University Press, Redwood City, 2008.
  Michael Hardt e Antonio Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano, 2010.
  Fredric, Jameson Postmoderno e società dei consumi, in Giovanna Borradori (a cura di), Il pensiero post-filosofico:
   percorsi e figure della nuova teoresi americana con un’antologia di testi inediti in Italia, Jaca Book, Milano, 1988.
  Karl Marx Karl e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, Torino, 2014.
  Simon Reynolds, Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, ISBN, Milano, 2011.
  Paul Virilio, L’inertie polaire, Christian Bourgois, Parigi, 2002.

 


 

VISIONI

  George Lucas, Irvin Kershner, Richard Marquand, Guerre Stellari - Trilogia (Guerre Stellari, L’Impero colpisce ancora,
  “ Il ritorno dello Jedi), 20th Century Fox, 2013 (home video).
  Ken McMullen, Ghost Dance, Cornerstone Media, 2006 (home video).
  Lawrence Kasdan, Brivido caldo, Warner, 2006 (home video).
  John Sturges, Base artica Zebra, Warner, 2005 (home video).
  Peter J. Hammond, Sapphire and Steel, Network, 2008 (home video).