VISIONI / SYNECDOCHE, NEW YORK


di Charlie Kaufman / BiM Distribuzione, 2014


 

La vertigine del sé

di Chiara Ribaldo

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Il parigino Jules Cotard è un neurologo. Nel 1880 durante una lezione a Parigi descrive come “le délire de négation” un grave disturbo psichico che porta chi ne è affetto a credere di essere morto. La “delusione di Cotard” è l’assenza di ogni emozione, dolore, gioia, rabbia, è il buio del sentire, la convinzione che il corpo, assieme all’anima, stia svanendo o che sia già, irrimediabilmente, perduto.

Caden Cotard è un drammaturgo newyorchese di successo, schiacciato dalla paura di morire, di restare intrappolato in un corpo che marcisce, invecchia, trema, si sgretola, che non guarisce. “Soma-sema”, dicevano i greci, il corpo come prigione dell’anima. Incatenato alle proprie angosce, rinchiuso dentro relazioni umane fallimentari, Caden trascina se stesso dentro la vita, il passo lento, la schiena sempre più curva, lo sguardo stanco di chi aspetta una fine. La fine. Tutti attorno a lui svaniscono come in un’allucinazione psichedelica la moglie Adele, la figlia Olive, gli anziani genitori, l’amante Hazel. Ogni tassello della sua esistenza si perde o si crede smarrito. Chi soffre del delirio di negazione è convinto di perdere i propri organi vitali, il sangue persino. Si è morti, in qualche modo, senza morire davvero.

La radio è accesa, si lamenta, chiacchiera, suona, annuncia al mondo l’avvento dell’equinozio di autunno. Il momento esatto in cui il giorno e la notte hanno la medesima durata. Un tempo, rito di passaggio, di meditazione, quando il dio che aveva fecondato la terra e l’aveva colorata di frutti e fiori moriva, inghiottito dalle tenebre. Caden ascolta da sotto le coperte e sa che quella voce gracchiante sta parlando a lui, sta parlando di lui. Non vorrebbe alzarsi dal letto, non vorrebbe che proprio quella fosse la prima mattina di una stagione nuova, più buia e lunga, in cui finirà per essere inghiottito nelle viscere del mondo.

Inizia così Synecdoche, New York, debutto alla regia del talentuoso e cervellotico sceneggiatore Charlie Kaufman, antropologo, poeta, psicologo, cantastorie, folle. Non esiste una sua opera che non abbia indagato la psiche umana, i suoi labirinti emotivi, tutte le ossessioni e le bizzarrie, le possibilità e le speranze, la coscienza dolorosa della caducità e il desiderio bruciante dell’immortalità. Non può che essere un cinema profondamente metafisico il suo, iperreale, soprattutto quando lavora a fianco di autori visionari e surrealisti come Spike Jonze e Michel Gondry. Essere John Malkovich (Jonze, 1999), Il ladro di orchidee (Jonze, 2002), Se mi lasci ti cancello (Gondry, 2004) già da soli valgono un trattato filosofico sul tema complesso dell’identità e della rappresentazione del sé. Chi siamo e cosa ci spinge avanti.

Ma Synecdoche è di più. È una letteralizzazione per immagini, è metafora visiva dell’esistenza, il rovesciamento di un guanto, in cui è l’interno ad essere visibile, tangibile, in cui il soggetto della narrazione diviene oggetto. Ogni singolo aspetto della storia è in realtà un aspetto dell’animo. La parte per il tutto. La sineddoche. A pronunciarla ha quasi il medesimo suono di Schenectady, la città americana dove la storia è ambientata e con la quale gioca il titolo stesso della pellicola. Tutto non è che un rimando compulsivo, patologico, a qualcos’altro. È un riflesso infinito di pensieri che diventano parole e gesti e poi cose fisiche, giornali, tatuaggi, quadri minuscoli, feci, strade, pillole, bicchieri di vino. Comprimono lo spazio, il tempo, lo dilatano, lo annullano, come in un’altalena impazzita che mai si ferma.

Ci sono cognomi come Capgras, Lack, Cotard ad indicarci che dietro quei personaggi c’è un intricato groviglio emotivo, la mancanza, la sostituzione, lo sdoppiamento, la malattia. Ci sono case che bruciano, proprio come nei romanzi di Tennessee Williams, con il fumo a soffocare i polmoni, mentre chiusi dentro si guarda fuori, consapevoli che nessuno mai verrà in soccorso. Il significato, come un gigantesco blob, fagocita progressivamente il significante. Forma e contenuto, come categorie semiotiche distinte, non esistono più. Quello che vediamo per tutto il film è solo senso.

Come il Charlie di Il ladro di orchidee, anche Caden si trasforma in personaggio. Sceglie di mettere in scena la propria vita, di trasformarla in un ipertrofico spettacolo teatrale. “La tragedia è la celebrazione della verità”, scriveva il drammaturgo David Mamet in un suo saggio (Mamet, 1998). La rassegnazione alla verità è l’unico possibile finale. Ne esistono forse degli altri? “Non accetterò nient’altro se non la brutale verità”, dice Caden agli attori chiamati a rappresentare la sua vita in un enorme hangar di Manhattan. “Io sto morendo e così anche voi”, questa è la brutale, spietata verità. La tragedia. L’azione che muove l’uomo e lo spinge ad essere.

Lo spettacolo, però, non finirà mai, si ripeterà all’infinito, con attori che interpretano attori che interpretano attori che interpretano attori, mentre il palcoscenico prenderà la forma del mondo intero; ci saranno palazzi, briciole sul tavolo, stanze di albergo, letti stropicciati, ascensori, panchine su cui aspettare, fermate d’autobus, lapidi, marciapiedi.

I piani di realtà si sovrappongono, dentro e fuori dal copione. L’identità del protagonista implode alla disperata ricerca di sé. Mentre tutti sono insieme interpreti, comparse, autori, personaggi, pubblico. Sembra il compimento perfetto del celebre soliloquio shakesperiano di Iacopo in Come vi piace: “Tutto il mondo è un palcoscenico e gli uomini e le donne non sono che attori” (Shakespeare, 1983).

È un’orgia di Verità, Arte e Vita. È l’uomo, in fondo, e nient’altro. “Muori” ordina la voce fuori campo mentre la luce intorno è diventata quasi cianotica, Caden è ora un personaggio minore, non più autore, regista, protagonista, ma comparsa, ombra sullo sfondo. Non c’è altra soluzione drammaturgica possibile alla rappresentazione della propria vita se non la sua stessa fine. “Muori”, gli sussurra la regista, la donna che un tempo era solo un’attrice del suo immenso show e che ora ne dirige i passi e le battute. Il doppio tra i doppi. Il rovesciamento delle parti, la sostituzione. La sineddoche.

È senza dubbio una pellicola complessa, difficile, indecifrabile. È Kaufman e non potrebbe essere diversamente, ma qui c’è troppa verità, come se ci avesse messo di fronte un enorme specchio magico che ci mostra proprio quello che non vogliamo vedere, quello che più ci difetta e ci spezza il cuore. L’amore inseguito e poi perduto, l’incapacità di essere padri o madri o figli, le ambizioni svanite, la malinconia, il terrore, naturalmente, la solitudine.

 

“È tutto più complicato di quello che pensi. Vedi solo un decimo di ciò che è vero. Ci sono milioni di fili attaccati a ogni scelta che fai; puoi distruggere la tua vita ogni volta che fai una scelta…E dicono che non esiste il fato, ma esiste: è ciò che tu crei. Anche se il mondo va avanti per una frazione di una frazione di secondo. La maggior parte del tempo lo passi da morto o prima di nascere. Ma mentre sei vivo, aspetti invano, sprecando anni, una telefonata o una lettera o uno sguardo da qualcuno o qualcosa che aggiusti tutto. E non arriva mai oppure sembra che arrivi ma non lo fa per davvero. E così spendi il tuo tempo in vaghi rimpianti o più vaghe speranze perché giunga qualcosa di buono, qualcosa che ti faccia sentire connesso, che ti faccia sentire completo, che ti faccia sentire amato. È la verità è che sono così arrabbiato e la verità è che sono così triste, cazzo, e la verità è che ho sofferto, cazzo, per un cazzo di tempo lunghissimo, per quello stesso tempo in cui ho fatto finta di essere ok, giusto per andare avanti, giusto per, non so perché, forse perché nessuno vuole sapere della mia tristezza … Be’, vaffanculo a tutti”.

 

In questo monologo, che un prete attore recita durante le prove di un finto funerale ad una folla contrita, Kaufman racchiude la verità di Caden, forse la sua e la nostra. La parte per il tutto. La storia di un uomo per quella dell’umanità intera. Disattesa è la ricerca ontologica di ciò che siamo o che diventiamo, sospinta in avanti e poi rigettata indietro come il mare scompigliato dal maestrale. Siamo tutti, in verità, dei non-personaggi. Fermi, non andiamo da nessuna parte. È un film lirico e disturbante, uscito troppo tardi in Italia (sei anni dopo la release americana), quando la vita ha già superato la finzione, oltrepassato lo schermo, in modo imprevedibile e sconcertante. Philip Seymour Hoffman, che di Caden Cotard è stato volto e corpo, muore per un’overdose nel suo appartamento di New York in una fredda mattina di febbraio. Una trasfigurazione terribile che porta a totale compimento il metadiscorso filmico. Caden è anche egli un doppio, perché Caden è Philip, è il genio, fiaccato dai mostri insaziabili dei suoi incubi peggiori, è il talento sprecato dietro le paure, è la solitudine di chi non è abbastanza forte da amarla, come scriveva Pasolini, è l’attore che non riesce a fingere nonostante le maschere che è costretto ad indossare.

Caden cammina a fatica, la strada è deserta, ci sono macerie, fogli di giornali, fumo ovunque, forse una guerra, una carestia. Qualcosa di catastrofico ha cancellato ogni cosa.

 

“C’è stato qualcosa, una volta, prima di te, un eccitante e misterioso futuro … ora è dietro di te, vissuto, incompreso, deluso. Hai realizzato che non sei speciale. Hai lottato nella vita e ora stai silenziosamente scivolando fuori da essa. È l’esperienza di tutti, di ognuno di noi. Le specifiche contano poco. Tutti sono tutti. Tu sei Adele, Claire, Olive. È tempo che tu lo capisca … Non provieni da niente. Non arriverai a niente”.

 

Le note commoventi di Jon Brion ci guidano lente verso la fine di una storia imperfetta, bellissima, vera. È la vita, nient’altro.

 

 


 

ASCOLTI

  Jon Brion, Synecdoche, New York OST, Lakeshore Records, 2014.

 

LETTURE

David Mamet, Three Uses of Knife: On the Nature and the Purpose of Drama, Columbia University Press, Usa, 1998.
William Shakespeare, Come vi piace, Rizzoli, Milano, 1983.

 

VISIONI

Michel Gondry, Se mi lasci ti cancello, Eagle Pictures, 2005 (home video).
Spike Jonze, Il ladro di orchidee, Columbia Pictures, 2003 (home video).
Spike Jonze, Essere John Malkovich, Universal Pictures, 2000 (home video).