di Gennaro Fucile

 

Siamo i migliori medici di noi stessi è un adagio sopravvissuto alla stagione più ostile al pre-industriale per trovare un’eco tuttora crescente, grazie anche alla riscoperta e diffusione di terapie che attingono da saperi antichi. Cure a base di farmaci naturali, rimedi tradizionali confortati dal know-how medico più aggiornato; medicine alternative impiegate tanto cum grano salis quanto con faciloneria. Non solo, la centralità del corpo in tutte le dimensioni del quotidiano, la sua progressiva liberazione, emancipazione raccontata in tutte le arti e osannata in tutte le forme di comunicazione commerciale, hanno fornito la base solida e sempre più estesa su cui si sostiene l’antico adagio: siamo i migliori medici di noi stessi. In generale, siamo i migliori giudici di qualsiasi cosa, in tutte le vesti che indossiamo, nei molteplici ruoli che rivestiamo nella società complessa e gelatinosa in cui abitiamo. Siamo nel bel mezzo del cammino che ci conduce dall’essere parte di un’anonima opinione pubblica a soggetto critico dell’esistente, o quantomeno a individuo avente diritto di esprimere anche il più autorevole dei pareri generici esprimibili in qualsivoglia campo del sapere. È un bene certo, è quella “democratizzazione delle competenze” che Patrice Flichy esplora in La società degli amatori (se ne parla in questo numero). Peccato, però, che con un inelegante e altrettanto esteso movimento contrario, il cittadino, il consumatore, il turista, il genitore, il giovane e tutti gli altri soggetti del molteplice io contemporaneo si ritrovino sempre in deficit, a essere non più soggetto, bensì oggetto di cure amorevoli, tutte volte a insegnare qualcosa che altrimenti resterebbe fuori dalla portata del comune, tradizionale sapere, quello di cui possiamo venire a conoscenza con i nostri soli mezzi, limitati per via della nostra stessa natura (essere parte della massa originaria). Ecco, per esempio che al tempo stesso siamo i migliori medici di noi stessi, ma se ricorriamo a un dispositivo tecnologico lo siamo di più e meglio, e più il congegno si fa sofisticato più noi siamo in grado di esprimere la conoscenza di noi stessi, della nostra salute. Emblematico di questa contraddizione tutta tardo moderna è il braccialetto Jawbone Up.

 

È arrivato in Italia già lo scorso anno, creando subito eccitazione tra i tecnognostici di serie B nostrani (leggi: Wired Italia), al punto da far scrivere: “Se lo provi non lo molli più. Perché si prende cura di te, dal fisico all’umore, persino quando dormi. Meglio di una relazione”. Per essere ancora più chiari, Jawbone Up è un personal trainer, che non è pensato per chi pratica sport, ma per chi al massimo fa una capatina in palestra. Monitora l’attività del nostro corpo, trasferendo i dati su cellulare o tablet: come dormiamo, come ci muoviamo e come mangiamo. Ci fornisce i dati di questo luminoso scrutare, dandoci l’opportunità di operare modifiche mirate ai nostri comportamenti. Ogni giorno. Ci racconta quante ore di sonno leggero dormiamo, quante di sonno profondo, quante di dormiveglia, ci indica quante calorie bruciamo, annota tutti i cibi e le bevande che consumiamo, ne stila un report. Tutti i giorni. Incrocia i dati delle attività diurne e notturne, è presto in grado di svegliarci quando ritiene che abbiamo dormito il sonno del giusto, traccia i micromovimenti che effettuiamo nel sonno, ci guida, ovviamente, se facciamo sport, anche solo un minimo di attività fisica, fosse anche portare fuori il cane. Tutti i giorni, e l’elenco potrebbe continuare. Limitiamoci a segnalare che la novità 2014 è la versione Jawbone Up24, che oltre a essere compatibile con iPhone e iPad e ora anche gestibile su piattaforma Android, è wireless, più morbido e in nuovi colori. Non manca la dimensione social, sin dal primo modello, ovvero è possibile aggiungere i propri amici (che si trasformano così in una sorta di team) e vedere tutti i progressi nello stream. Si possono anche commentare le singole azioni con un emoticon per esprimere lo stato d’animo a riguardo. Ogni giorno. Rieccoci alla fantascienza disciolta nella realtà come nell’acido e per questo non più distinguibile dal resto, laddove la sf altro non è, come sosteneva James Ballard, “che il sogno del corpo di diventare una macchina”.

Siamo i migliori medici di noi stessi, forse. Di sicuro non siamo ancora in grado di sviluppare anticorpi davvero validi per bilanciare l’overdose di tecnologia che assumiamo quotidianamente e di gestire la schizofrenia (malattia di tutte le età del capitalismo) che ci vede al centro delle cure di tutti, target molteplice, e al tempo stesso vede tutti pendere dalle nostre labbra, depositarie del giudizio finale sull’intera realtà, dalla propria salute all’ultimo gadget lanciato sul mercato. Il braccialetto, meglio non dimenticarlo, un tempo indicava lo stato di schiavitù, non l’unica ma una delle sue valenze simboliche, così come manifestava forza (quindi salute). Fornitevi di apposita app e interrogatela su quale mix simbolico presenta il Jawbone Up24 e i tanti device ormai di uso quotidiano. In alternativa, fategli fare ginnastica calpestandolo per bene fino a frantumarlo e poi monitorate il suo stato di salute. Giusto per praticare un po’ di luddismo 2.qualcosa.

Non occorre farlo tutti i giorni.

 

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