ASCOLTI / ECM RE: SOLUTIONS


di Autori Vari / Ecm, 2014


 

La strana coppia: il suono e il silenzio

di Gennaro Fucile

 

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I buoni e i cattivi. L’antagonismo è senza tempo e ovunque si fronteggiano i buoni e i cattivi: chi parteggia e chi è avverso. Lo sport ne cattura l’essenza, ma la faziosità non è un’esclusiva del tifoso. Anche le arti, tutte, hanno sempre visto scendere in campo partigiani dell’una o dell’altra parte, schierati in bell’ordine, puntuali nel sostenere o nell’osteggiare una corrente, un genere, una scuola, una qualsivoglia deviazione dalla norma. Si consideri la musica del Novecento, dalla prima parigina della Sagra della primavera e dalle esibizioni dell’intonarumori russoliano, il pubblico si è sempre spaccato in sostenitori e avversari di qualsiasi cosa, del nuovo, del vecchio, del colto, del popolare, della cultura alta e di quella bassa, del rumore, del silenzio, del ritmo, della ripetizione e così via. Un manicheismo sonoro che ha raggiunto con il pop il suo apogeo, grazie prima alla sua turbolenta crescita, con il fiorire quotidiano di filoni musicali inediti e successivamente per la capacita di generare sotto generi di ogni sorta, moltiplicando le fedi e i fan. Anche il jazz ha vissuto tremendi conflitti che infinite diatribe hanno generato tra gli appassionati. Basterebbe pensare alla fiera opposizione fatta al rivoluzionario be bop, al bis concesso ai tempi dell’irruzione del free jazz, allo scandalo scatenato dal tradimento di quanti passarono al jazz elettrico, oppure all’irritazione scatenata dalla musica improvvisata. Qualcosa di analogo a quanto si registra da sempre nel mondo del fandom della fantascienza, altra merce culturale tutta made in Usa. 

Di questo affannarsi,viene naturale chiedersi: perché? La risposta è molto più banale di quanto lo siano le innumerevoli questioni poste dai numerosi schieramenti scesi in campo da un secolo a questa parte: perché è divertente, è un gioco, non costa nulla, alimenta passioni e quindi è segno di vitalità. 

Negli ultimi tempi però le diatribe intorno al jazz si sono piuttosto sopite, molto si è stemperato, l’ascoltatore di questa tarda modernità è più allenato alla rivoluzione permanente dei confini musicali (e a ben più tragiche flessibilità); si è più smaliziati e al tempo stesso meno inclini alla sorpresa, giudicando di frequente il nuovo come apparente. Qualcosa di quelle antiche polemiche, però, resiste ancora, inalterata, continuando a dividere da almeno un quarto di secolo i jazzofili in due partiti irriducibili: i pro e i contro l’Ecm (www.ecmrecords.com), la casa discografica tedesca fondata nel 1969 da Manfred Eicher. C’è chi la ama, o quasi e chi la odia o quasi e in effetti nei confronti dell’Ecm le vie di mezzo sono impraticabili, o quasi. Tant’è che si stava appena concludendo il primo decennio d’attività dell’etichetta e già si sottolineava quanto segue: “Una delle accuse più frequenti rivolte alla Ecm è che i suoi dischi tendono tutti a assomigliarsi: ciò non corrisponde a verità per quanto concerne i primi dischi, ma è senz’altro vero se riferito alle emissioni prodotte man mano che l’etichetta assumeva una sua fisionomia, una personalità ben definita” (Gualberto, 1980). Quindici anni dopo, nel disegnare un efficace ritratto dell’etichetta, Libero Farnè doveva comunque prendere atto della r/esistenza di due schieramenti, poiché Ecm “per molti è diventata sinonimo di un’estetica riconoscibile, a volte talmente caratterizzata da essere accettata o respinta in toto; il dibattito che ne è sorto non è stato sempre produttivo e la foga con cui talvolta si sono contrapposte la schiera dei detrattori e la fazione dei sostenitori è stata francamente eccessiva e aprioristica” (Farnè, 1994). Vecchie beghe? Macché. Gli anni non hanno scalfito la polarizzazione del dibattito, solo che oggi è la rete più che la carta stampata ad alimentarlo. Ecco che cosa scrive un blogger battezzatosi Negrodeath poco più di un anno fa: “Non metto in dubbio l’onestà intellettuale di Eicher, perché è evidente che a lui piaccia dare questo indirizzo alle sue produzioni. Volente o nolente, però, la sua visione rende la musica Ecm ideale per tutti coloro che vogliono sentirsi «colti» e «al passo coi tempi» ma non hanno il tempo, la voglia, i mezzi per acculturarsi davvero. L’Ecm dà loro un surrogato di complessità: i suoi dischi richiamano in maniera esplicita alcuni tratti estetici (omogeneità di suono, ritmo regolare, sobrietà) superficialmente associati alla musica classica europea pre-900, richiamano il passato ancestrale della Vecchia Europa, e gettano un ponte, più fittizio che altro, verso il presente con una dose omeopatica di  jazz” (freefalljazz.altervista.org/blog).

 

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Arruolarsi nell’una o l’altra parte dunque è ancora possibile, ma al neofita che intendesse farlo con scrupolo converrà dare una breve ripassata alla storia stessa dell’etichetta, divagando all’indietro come fa da tempo la stessa Ecm, quasi a sottolineare la continuità delle proprie scelte – che in effetti esiste – grazie alle quali ha edificato un piccolo grande impero discografico. Un processo di musealizzazione, in un certo senso, iniziato nell’ottobre 1984 in occasione del quindicesimo anniversario dell’Ecm. È allora che viene inaugurata la collana Works, primo atto celebrativo di una casa discografica che ha oramai alle spalle la fase di lancio e di consolidamento. Vengono schierati tutti pezzi da novanta: Pat Metheny, Bill Frisell, Ian Garbarek, John Abercrombie, Gary Burton, Ralph Towner, Keith Jarrett, Chick Corea, Egberto Gismonti e così via. 

Nel 2002, parte una nuova collana, :rarum, che vanta la veste grafica più raffinata realizzata da Ecm, che pure ha sempre esibito confezioni esteticamente impeccabili. Di nuovo scendono in campo i maggiori autori in catalogo, ma questa volta curano in prima persona la selezione dei brani. I volumi coprono un arco temporale che va dal 1974 al 2000. 

Infine, nel 2008, in occasione dei quarant’anni, Ecm ha ripubblicato una quarantina di album nella serie Touchstones, in formato digipack. Nella collezione riappaiono titoli storici come Full Force dell’Art Ensemble of Chicago, Gnu High del trombettista Kenny Wheeler (affiancato da Jarrett) e Conception Vessel del batterista Paul Motian, il primo album a suo nome, sebbene già quarantenne all’epoca (nel 1972) e con un’infinità di collaborazioni, in primis quella in uno degli storici trii di Bill Evans. Ci sono anche due album fondanti, come vedremo in seguito: Open to Love di Paul Bley, Facing You di Jarrett.

L’ultimo ritorno al futuro dell’etichetta è costituito dalla pubblicazione quest’anno di sette album di una neonata collana, Re:solutions. I dischi sono: Seven Songs For Quartet And Chamber Orchestra di Gary Burton, l’album omonimo del Miroslav Vitous Group, Arbour Zena e Ritual di Keith Jarrett, Contrasts di Sam Rivers, Five Years Later del duo composto da John Abercrombie e Ralph Towner e African Piano di Dollar Brand (il nome di Abdullah Ibrahim nel 1973, l’anno in cui uscì il disco). 

Si tratta discograficamente parlando di una serie di novità, poiché tutti e sette i titoli vengono proposti contemporaneamente in tre formati: vinile da 180 grammi, compact disc e files liquidi. “Gli lp si presentano inappuntabili: ottimi il vinile pesante e lo stampaggio (realizzato dalla Pallas di Dierpholz), buste interne a doppio strato, copertine che – pur se non del tipo apribile – recano riproduzioni fotografiche di qualità identica alle originali […] I cd sono invece confezionati in una bustina apribile del tipo mini lp […] I files audio ad alta risoluzione non sono venduti direttamente da Ecm, bensì attraverso quattro siti specializzati: il tedesco Highresaudio, il norvegese Gubemusic, il francese Qobuz e lo statunitense Hdtracks” (Cerini, 2014).

Coprono l’arco temporale compreso tra il 1973 e il 1982, gli anni in cui prese progressivamente forma la cosiddetta estetica Ecm, anche se meglio sarebbe dire il sound Ecm, perché a tenere insieme lavori spesso molto diversi tra di loro è proprio la qualità omogenea delle registrazioni, algide, per alcuni asettiche, innaturali (ma il suono registrato non è mai naturale, tantomeno quello di un artefatto come uno strumento musicale). Una resa sonora che è rimasta inalterata anche quando gli studi si sono moltiplicati. Intorno al 1973, infatti, iniziò a farsi maturo e definito il progetto, partito con un investimento di 16.000 marchi e iniziato quasi per caso il 24 novembre 1969, quando il pianista Mal Waldrom entrò in sala d’incisione per realizzare l’album Free at Last, primo di oltre mille album prodotti fino a oggi da Eicher. Questi, allora ventiseienne, aveva solo qualche esperienza come contrabbassista. Lo ha ricordato in una recente intervista video alla televisione svizzera: “Quando avevo sei anni mia madre pensò che dovevo suonare uno strumento e mi comprò un violino. Così iniziai a studiarlo. In seguito sentii la musica del trio di Bill Evans e di Miles Davis e decisi di suonare il contrabbasso. Avevo quattordici anni. Così sono cresciuto con la musica, è ciò che ho imparato e che so fare. Quindi sono sempre occupato solo di musica e sono diventato un produttore, questa è la mia vita. Il mio centro è la musica” (la1.rsi.ch).

Fare il musicista però non era evidentemente il suo destino. Prese a lavorare alla Deutsche Grammophone come assistente di produzione, lavorando anche con Albert von Karajan e si può immaginare, ma non provare, che l’idea di direzione totale sia nata proprio da questa esperienza, insieme alla cura maniacale di ogni dettaglio sonoro. 

La nascita dell’Ecm, si è detto, è concomitante con la fine degli anni Sessanta, un decennio musicale che era stato inaugurato con l’irruzione della free music e quasi contemporaneamente delle nuove musiche giovanili in seguito all’esplosione della beatlemania. Gli anni Settanta non sarebbero stati da meno, anzi. L’onda lunga del free era arrivata in Europa, sia fisicamente con lo stabilirsi soprattutto a Parigi di nuovi e vecchi esponenti della New Thing, in particolare una pattuglia di chicagoani, sia con l’emergere di musicisti europei radicali, che avrebbero presto assunto una precisa identità, autonoma, emancipata dai maestri statunitensi. Inoltre, da Miles Davis ai Nucleus, sulle due sponde dell’Atlantico si avviò nei primi mesi del 1970 la svolta elettrica originando il jazz-rock, che avrebbe condotto anche a discutibili operazioni fusion, segnando nel bene e nel male il decennio. 

Sono anni anche di fioritura per le etichette discografiche autogestite dagli stessi musicisti. Pionieri erano stati gli improvvisatori olandesi, Misha Mengelberg, Han Bennink e Willem Breuker, che avevano dato vita nel 1967 all’Instant Composer Pool (Fucile, 2013). Due anni dopo, pochi mesi prima della seduta di registrazione di Waldrom, proprio in Germania, a Berlino, un nucleo di agguerriti e radicali improvvisatori crearono la Free Music Production (FMP) e nel 1971 sarebbe poi sorta in Inghilterra la più oltranzista Incus, voluta da Derek Bailey (www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero35) e Tony Oxley. A fare da apripista era stata un’associazione nata a Chicago nel 1965, l’AACM (Association for the Advancement of Creative Musicians), studio/laboratorio il cui fine era la valorizzazione della cultura musicale del Black People. Molti dei suoi esponenti avrebbero poi dati vita ad auto produzioni. Analogamente funzionava il BAG (Black Artist’s Group) di Saint Louis.

Tutti insieme poi, esponenti del free jazz del rock-jazz, hard bopper influenzati dal free, rock e pop band, finanche gli improvvisatori più radicali in qualche caso, tutti guardavano da anni a Oriente, soprattutto all’India, alle suggestioni della musica del continente asiatico.

 

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In questo variegato scenario, qui riprodotto in scala, faceva quindi il suo ingresso alla fine del 1969 l’Ecm di Manfred Eicher, che forse oltre a von Karajan deve qualcosa, almeno oggettivamente, a un altro suo connazionale, Joachim-Ernst Berendt. Intellettuale, scrittore, musicista, creatori di eventi, organizzatore di concerti e produttore, Berendt è stato un visionario che anzitempo in Europa ha cercato di costruire dei ponti tra le culture musicali dei quattro angoli del mondo, come testimonia ad esempio la produzione di una collana inventata al tempo in cui si occupava delle produzioni jazzistiche per l’etichetta discografica Mps. Si chiamava Jazz Meets the World. Berendt produsse nove album tra il 1965 e il 1971, ben cinque solo nel 1967. Dischi non sempre riusciti, ma tutti pervasi da un’urgenza di modificare lo stato di cose esistenti, come era nello spirito utopico di quegl’anni. Era l’aria che respirava Eicher. Le mosse iniziali dell’Ecm si svolgono in questo scenario e le contraddizioni ne sono parte integrante. I primi titoli vedono in campo giovani musicisti alle prese con la materia ancora bollente del free, come il sassofonista tedesco Alfred 23 Hart, titolare del secondo disco targato Ecm, Just Music, un album in pratica cancellato dal catalogo, così come è del tutto sparito quello firmato dal multistrumentista Robin Kenyatta, Girl from Martinique, oppure quello del tastierista Wolgang Dauner, Output. Sembrano quasi delle prove d’orchestra di Eicher, che ha in mente un jazz cameristico, ibrido. 

Ecm, va ricordato, è l’acronimo di Editions of Contemporary Music, non è un segreto, ma forse il fronte dei detrattori – di cui si è detto in partenza – non ci si è mai soffermato a sufficienza. Eppure, una tale definizione programmatica dovrebbe sgomberare il campo dalle varie accuse di tradimento del jazz, poiché questo è sì stato il grande amore giovanile di Eicher, ma trasfigurato nel tempo presente. Bene? Male? Questo non cambia la coerenza del progetto e ribadisce la non pertinenza di qualsiasi contestazione nel nome di una purezza del jazz di cui, inoltre, non si capisce chi si farebbe garante, dal momento che gli stessi jazzisti ingaggiati da Eicher sembrano poco turbati da questo tradimento.

Il jazz che Eicher insegue e cerca di far suo è quello tentato e un po’ pasticciato da quel filone ribattezzato Third Stream (il conio è del compositore Gunther Schuller) teso a costruire una sintesi tra jazz e musica europea colta, ma poi evolutasi grazie ad alcuni visionari musicisti bianchi statunitensi: il pianista Paul Bley, il clarinettista Jimmy Giuffre e il bassista Steve Swallow. Sono gli autori di due album pubblicati nel 1961 dalla Verve (altro esempio di etichetta “diretta” da un produttore di personalità, Norman Granz) a nome del Jimmi Giuffre 3: Fusion e Thesis. Circa trent’anni dopo sarà proprio l’Ecm a ristamparli, traendoli fuori dal mercato del collezionismo e pescando anche degli inediti. Musica di grande rigore, talvolta austera, autorevole e intarsiata da una magistrale perizia strumentale. Soltanto in altri due casi verrà pubblicata della musica registrata prima della nascita dell’etichetta. Il terzo numero del catalogo offre una raccolta di sedute datate 1964 e 1968 intestate al Paul Bley Trio. Il disco viene intitolato Paul Bley with Gary Peacock evidenziando il sostanzioso contributo del contrabbassista Gary Peacock (alla batteria si alternano il sottovalutato Billy Elgart e Paul Motian). Il duo riapparirà in Ballads, numero 10 dell’etichetta, con registrazioni del 1967. È questa la musica che piace di più a Eicher e quelle ristampe probabilmente non hanno nulla di casuale. 

Il canadese Bley, però, è solo uno dei tre pianisti che iniziano a codificare lo stile Ecm, stabilendo i parametri di quella musica che diventerà poi qualcosa di molto simile a un marchio di fabbrica. Gli altri due sono Chick Corea e soprattutto Keith Jarrett. Ognuno di loro incide per Eicher un album di piano solo fondamentale: Piano Improvisations Vol. 1 (Corea, 1971; ne seguirà un secondo l’anno dopo), Facing You (Jarrett, 1971), Open to Love  (Bley, 1972), sopra menzionati. Dischi che mirano a fondere l’eredità della musica occidentale e la tradizione afro-americana e che esprimono a meraviglia il claim che sin dagli esordi indica lo spirito dell’etichetta: “The Most Beautiful Sound Next to Silence”, in realtà preso a prestito e fatto proprio da una recensione del 1971 delle prime produzione Ecm, comparsa su Coda, rivista canadese di jazz

Per fama, meriti artistici e successo di mercato, non è un caso che due dei sette album Re: solutions portino la firma di Jarrett: Arbour Zena e Ritual. Qui sarà solo necessario accennare a una data che cambio la sua carriera e le sorti dell’etichetta tedesca: il concerto tenuto a Colonia il 24 gennaio 1975 all’Opera House e pubblicato nello stesso anno. Oltre tre milioni e mezzo di copie vendute da allora, che ne hanno fatto il disco di jazz più venduto della storia. The Köln Concert si può dire che sta all’Ecm come Tubular Bells sta alla Virgin. Il disco milionario di Mike Oldfield portò parecchi soldi nelle tasche di Richard Branson, dando il via alla sua carriera di miliardario businessman, fatta di aerei, cole, palestre ed evasioni fiscali, abbandonando via via la ricerca musicale. A onore di Eicher, invece, va di aver continuato a coltivare una sua idea di musica, fino a oggi. Dei due album di Jarrett, soltanto Arbour Zena vede il pianista in sala d’incisione, poiché Ritual è una sua composizione dai toni fortemente impressionistici affidata a Dennis Russel Davies, direttore d’orchestra che si rivedrà in diversi dischi Ecm, ad esempio Tabula Rasa del compositore estone Arvo Pärt. In Arbour Zena, l’album che in ordine cronologico segue proprio The Köln Concert, il pianista della Pennsylvania si alterna con il sassofonista Ian Garbarek nei dialoghi che vengono intrecciati con un’orchestra d’archi costituita da membri della Radio Symphony Orchestra di Stoccarda. Frasi romantiche, spesso in assenza di gravità, ma che un sontuoso Charlie Haden al contrabbasso riporta sulla Terra.

Negli anni della formazione, però, l’etichetta tedesca, data l’età, è ondivaga e affianca, oltre ai citati, anche altri musicisti in prima linea sul fronte del free e dell’improvvisazione, come Marion Brown e Derek Bailey. Inizia anche a dare spazio a una nuova generazione di musicisti norvegesi (e uno studio di registrazione sarà operativo a Oslo), a iniziare dal citato Garbarek e dal chitarrista Terje Rypdal. Lo stesso Corea è al tempo stesso impegnato sul fronte del post free con una superba formazione i Circle, affiancato da quello che probabilmente è stato il musicista jazz più influente negli anni Settanta, Anthony Braxton. Sarà questi con il contrabbassista Dave Holland, uno dei compagni d’avventura nella svolta elettrica di Miles Davis, con il polistrumentista Sam Rivers e Barry Altschul (percussioni e marimba nell’occasione) a incidere il leggiadro Conference of the Birds (1973). Soltanto in un’altra occasione Rivers incise per l’Ecm, realizzando nel 1980 un album a suo nome, il raffinato Contrasts, dove è di scena un quartetto pianoless. È uno dei pezzi migliori dei sette album componenti la collana Re: solutions. In perenne spericolato equilibrio tra la mai sopita urgenza di libertà del musicista dell’Oklahoma e la sua matura scrittura, l’album si avvale di uno strepitoso George Lewis al trombone e di una sezione ritmica solidissima, composta da Holland e Thurman Barker (virtuoso percussionista del giro AACM).

Atmosfere turbolente e riflessive si accavallano in un gioco di contrasti coerenti con il titolo in un susseguirsi di scatti ritmici brucianti e melodie eteree. Il leader come di consueto si alterna al soprano, al tenore e al flauto. 

In ordine sparso, agli inizi della storia Ecm, iniziano inoltre a confezionare gettoni di presenza anche i componenti del quartetto statunitense Oregon. L’esordio è Trios/Solos, firmato Ralph Towner with Glenn Moore, ma compaiono anche gli altri due membri, l’oboista Paul McCandless e il percussionista Colin Walcott. In seguito, negli anni Ottanta, il quartetto pubblicherà tre album per Eicher. Gli Oregon sono stati tra i migliori ambasciatori dell’interscambio tra Occidente e Oriente, fautori di una musica cameristica, fortemente debitrice nei confronti della musica popolare di ogni latitudine, e spesso contemplativa, alla quale donava spesso nerbo proprio il jazz. Towner si incrocerà anche un altro chitarrista di matrice più jazzistica, John Abercrombie, realizzando due album: Sargasso Sea (1976) e Five Years Later del 1982, un altro dei titoli della collana Re: solutions. Sfoggiando un’eccellente intesa i due incrociano acustica ed elettrica disegnando paesaggi onirici talvolta turbati da improvvise accelerazioni ritmiche e brusche sterzate timbriche. Per paradosso è come essere in una nuvola disturbata dal sole. Oltre a ospitare nei suoi studi altri chitarristi di nuova generazione (oltre al citato Rypdal, qui riaccenniano solo ad altri due che nel tempo avrebbero raggiunto una più che buona fama: Pat Metheny e Bill Frisell), l’orbita ellittica dell’Ecm incrocia in questa prima stagione anche musicisti di confine, incollocabili, come il polistrumentista Stephan Micus, autore di una musica misticheggiante, dove risuona per intero l’eco delle culture orientali che in questi anni rapivano non pochi musicisti tedeschi (ad esempio formazioni come i Popol Vuh, i Beetween e gli Yatha Sidhra), uno dei punti di forza dell’etichetta parallela di Eicher, la Japo, che chiuse in battenti a metà degli anni Ottanta. Una quarantina di album, solo alcuni ristampati, realizzati oltre che da Micus, da artisti del calibro di Elton Dean, Globe Unity Orchestra, AMM III (una versione in due degli AMM) e Manfred Schoof per citarne alcuni. 

Altro musicista sui generis è il compositore brasiliano Egberto Gismonti, autore di opere dove le varie correnti della musica popolare e accademica brasiliana si mescolavano al jazz. Dall’Africa, dal Sudamerica e dall’Asia arriveranno nel tempo altre risorse musicali, come ad esempio, il palestinese Rabih Abou Kalil, il tunisino Anouar Brahem (entrambi specialisti dell’oud), il violinista indiano Shankar, l’argentino Dino Saluzzi (bandoneón) e l’illuminato pakistano Nusrat Fateh Ali Khan, cantante di qawwali, che si ritroverà a incidere con Garbarek.

È una stagione dove sotto il cielo regna grande disordine e che anche per l’Ecm fino a metà anni Settanta non vede ancora disegnata strada maestra. Il catalogo Japo non è stato ristampato che in minima parte, assorbito dalla “casa madre”. Uno dei titoli, il secondo che uscì targato Japo è proprio African Piano di Dollar Brand, altro album Re: solution. Si tratta di un concerto tenuto al Jazzhus Montmartre di Copenhagen, città dove Dollar Brand si era stabilito dopo aver abbandonato il Sudafrica razzista (come altri musicisti che presero invece la via per Londra, www.quadernidaltritempi.eu/numero46). Musica esuberante, epica a tratti, ricca di slanci lirici e di echi della musica tradizionale della sua terra, ma anche del pianismo nervoso e angolare di Thelonious Monk, a sua volta intriso di tutta la tradizione jazzistica. In African Piano “gli echi metabolizzati del boogie e dello stride si fondono col marabi e col kwela, al gospel si affianca una religiosità  che guarda all’Islam e tutto si svolge in un’accesa atmosfera di trance, come se Abdullah Ibrahim volesse ricreare quel clima di possessione tipico delle funzioni terapeutiche della musica in Africa” (Onori, 1993).

Un altro musicista, il bianco Michael Gibbs (www.quadernidaltritempi.eu/numero38) aveva lasciato nei primi anni Sessanta una nazione confinante con il Sudafrica, la Rhodesia, oggi Zimbabwe, per studiare musica al Berklee College of Music (così si chiamava allora) di Boston. È a quei tempi – quando studiava composizione, arrangiamento e direzione orchestrale – che conobbe il giovane vibrafonista Gary Burton. Qualche anno dopo i due si ritrovarono in casa Ecm per la registrazione di Seven Songs For Quartet And Chamber Orchestra, sesto titolo della collana Re: solutions.

Qui funziona meglio che nel disco di Jarrett il dialogo con un gruppo di orchestrali (membri della NDR-Symphony Orchestra di Amburgo) del quartetto composto, oltre che da Buron dal chitarrista Michael Goodrick, da  Steve Swallow al contrabbasso e Ted Seibs alla batteria. Gli arrangiamenti calibratissimi delle proprie preziose composizioni da parte di Gibbs (che firma tutti brani), ritagliano ampie parti per i due solisti, che regalano lunghi attimi di vibrante solitudine.  

L’ultimo disco della serie è firmato dal Miroslav Vitous Group. Vitous ai tempi (1981) aveva ormai smaltito i postumi della colossale sbronza elettrica che gli aveva fatto guadagnare non poco in popolarità con i Weather Report ed era approdato all’Ecm da un anno. Il Group è un quartetto che si avvale del prezioso pianismo distillato di Kenny Kirkland e del supporto ritmico, oltre che di Vitous al contrabbasso, del valido batterista Jon Christensen. Il quarto uomo è John Surman, anch’egli arrivato a incidere per l’Ecm dopo una dozzina d’anni di spericolate avventure sonore (www.quadernidaltritempi.eu/numero46). L’esordio con Eicher è del 1979 ed è un autentico capolavoro: Upon Reflections. Il sassofonista gallese vi fuse con una perfezione che mai più gli sarebbe riuscita il jazz, il folk, il barocco e il minimalismo, seppure altri dischi incisi in seguito meritino di essere ricordati. In quella stagione, però, Surman era in uno stato di grazia. Lo provano altri suoi interventi in casa Ecm, ad esempio negli album di Barre Phillips suo sodale nel Trio negli anni Settanta, dischi purtroppo in attesa di ristampa; di quella forma smagliante ne è prova la sua composizione Number Six, perla di un album che è paradigmatico di quel jazz sempre di ottima fattura, ma spesso astratto, senza coordinate che caratterizza da allora gran parte delle pubblicazioni Ecm. 

Il dado a questo punto della storia era tratto. Nel 1984 nasce Ecm New Series, ramo parallelo dell’etichetta originale e nel tempo sempre più di pari peso. Si dedicherà alle musiche dichiaratamente extra jazzistiche, operando entro un arco temporale vastissimo, dalla musica medioevale ai contemporanei, con qualche concessione alla musica romantica. Ecco così comparire in catalogo da un lato Gesualdo da Venosa o Thomas Tallis e dall’altro Steve Reich e Meredith Monk, così come le scoperte, a iniziare dal citato Pärt. La storia più bella, controversa ma ineludibile dell’Ecm è questa, anche se dalla seconda metà degli Ottanta altre idee sono germogliate in casa Eicher. Dapprima il trio Standards (Jarrett, Peacock e Jack DeJohnette), progetto organico di rilettura del grande libro del jazz come non si sentiva dai tempi di Bill Evans. Oppure, negli anni Novanta, l’Electro-Acoustic Ensemble allestito da quel titano dell’improvvisazione che risponde al nome di Evan Parker e la mossa a sorpresa di Garbarek che in Officium (poi con dei seguiti) inciderà musica sacra antica insieme al quartetto vocale maschile Hilliard Ensemble, rimescolando di nuovo le carte tra produzione Ecm e New Series. Il disco si rivelerà il best seller di quest’ultima, come The Köln Concert  lo è stato per l’etichetta principale. Incroci analoghi si ripeteranno anche per mano di altri musicisti, come nel caso del Dowland’s Project di John Potter (il tenore dell’Hilliard Ensemble) e Surman dedicato all’elisabettiano Sul finire del decennio iniziano a uscire anche i lavori dell’ex Cassiber Heiner Goebbels, di cui va almeno ricordato l’affascinante e inquietante Surrogate Cities, del 1999. Sempre la New Series ha anche proseguito nel portare al cospetto del pubblico occidentale compositori altrimenti ignorati come il russo Valentin Silvestrov. 

Oggi Ecm fabbrica dischi con regolarità quasi imbarazzante, propone taluni dischi inessenziali e le sorprese sono diventate merce rara, nuove etichette sono sorte avventurandosi dove la casa di Eicher un tempo conduceva le sue esplorazioni, ma il rango dei musicisti coinvolti consente tuttora di licenziare album affascinanti; ne basti ricordare uno, che si è fatto ammirare nel 2013, un disco di finissimo jazz: Shadow Man del Tim Berne’s Snakeoil. Un caso, un incidente di percorso lungo la strada maestra della noia, secondo gli avversari e per i sostenitori una prova della qualità intrinseca della casa tedesca. I buoni e i cattivi. Ci sono imbecilli superficiali e imbecilli profondi, scrisse Karl Kraus. Tocca schierarsi, ma non è facile: come fa un imbecille a schierarsi? Che domanda imbecille.

 


 

LETTURE

 Cerini Sandro, Una nuova storia, una nuova edizione, Musica Jazz, aprile 2014.
 Farnè Libero, Ecm Story, Musica Jazz, ottobre 1994.
 Fucile Gennaro, Istantanee di famiglia: la storia dell’Icp, Musica Jazz, ottobre 2013.
 Gualberto Gianni, Nascita e sviluppo delle etichette discografiche indipendenti, in AA.VV., Il Jazz degli anni ’70, Gamma libri, Milano, 1980.
 Onori Luigi, Abdullah Ibrahim, Musica Jazz, agosto/settembre 1993.