VISIONI / HANNAH ARENDT


di Margarethe von Trotta / Feltrinelli, Milano, 2014, dvd + libro


 

Una microfisica del pensiero politico

di Maria D'Ambrosio

 

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Un mestiere faticoso e impegnato quello della filosofa, potremmo dire dopo aver visto il film di Margarethe von Trotta e scorso o studiato il testo, con scritti di Simona Forti, che accompagna l’uscita in Italia del dvd (nella collana laeffeFilmFestival di Feltrinelli) riferito a Hannah Arendt e alla “banalità del male” – che nella proposta della Forti suona come “normalità del male”.

La giornalista Livia Petrovic, in un articolo-intervista alla regista pubblicato di recente su The Believer, ne parla come dell’ultimo esempio del suo “cinema post-patriarcale”: una “cifra” che sintetizza quanto il film si offra come spazio per indagare su un’altra figura femminile, in questo caso la Arendt, e nello specifico sui modi e le ragioni di un nomadismo identitario esibito come stato dell’essere oltre che come indagine sulla condizione umana. Proprio come nel caso della vita e del pensiero di Hannah Arendt.

Margarethe von Trotta decide con il suo film di raccontare la filosofa, senza timore di proporre la “sua” Hannah Arendt. Interessante, in questo senso, la sovrapposizione possibile tra il discorso e la testimonianza rintracciabili dalla vita e le opere di Hannah Arendt e quelli della stessa Margarethe von Trotta. Interessante poi anche come la scelta narrativa di Margarethe von Trotta, rivolta alla complessa figura di Hannah Arendt appunto, si sia proposta come indagine sul tema della “banalità del male”: un tema su cui si riflette lungo tutto il film e di cui si sente lungo tutto il racconto – nella distanza di uno sguardo posizionato in maniera “mediana” tra New York e Gerusalemme – una significativa attualità che connette proprio la “banalità del male” al suo possibile antidoto costituito da responsabilità, volontà (o meglio intenzionalità) e giudizio. Sullo schermo e attraverso lo schermo conosciamo una Hannah Arendt alle prese con una quotidiana ricerca e necessità di affermazione del valore della libertà e dell’autonomia di pensiero che incarna – grazie all’interpretazione di Barbara Sukowa – in modo da poterne cogliere i tratti di una moderna Antigone alle prese con spinose questioni che la vedono in bilico tra Legge ed Etica e tra appartenenza (vincolo, obbedienza) e autonomia, facendo vivere allo spettatore il pathos dell’origine del pensiero arendtiano attraverso i legami, pure conflittuali, con amici, istituzioni e maestri.

La bellezza del film, il suo registro estetico razionalista, rendono accessibile un mondo, quello dei primi anni Sessanta, di cui si avverte il crescente vibrato politico, una certa tensione etica e sociale, il cui spirito critico è presentato e incarnato da ciascuno dei protagonisti che si dividono la scena con la Arendt, perché si possa cogliere, attraverso questo spirito e la sua così varia fenomenologia umana, la matrice originaria di quella che tutti hanno poi conosciuto, in forma più diretta o indiretta, come “rivoluzione culturale” e che più propriamente ha coinciso con l’emergere del “pensiero debole”, del ‘pensiero della differenza” e della più popolare “emancipazione femminile”. In questo sta dunque la “bellezza” e la forza del film, perché fa ritornare a quel momento storico e gustare quel clima politico per restituirne tutta la specifica dimensione transnazionale come sguardo possibile sulla Storia, come cifra di un tempo che non solo sa di Moderno ma propriamente di attuale: sempre da pensare e ripensare nelle sue “ragioni” e intenzioni.

Con un’attenta sapienza biografica e storiografica, Margarethe von Trotta segue la Arendt e ne rintraccia le traiettorie di un pensiero (politico) rivolto alle origini del totalitarismo, partendo proprio dall’esempio più vicino alla stessa Arendt e alle sue origini ebree che è il nazismo; e lo fa lasciando che lo spettatore entri nelle vicende tutte umane che la Storia ci ha consegnate in termini di vittime e carnefici, di bene e di male, e che nel film vengono riproposte e attraversate senza retorica e senza pretese universalistiche né giustizialiste o dottrinali.

La Germania delle leggi razziali, (il mancato Stato di) Israele e i Sionisti, l’Olocausto, il processo a Eichmann e le testimonianze degli Ebrei sopravvissuti, insieme con i filosofi (tra cui Martin Heidegger, Hans Jonas, la Arendt e gli altri) e gli altri intellettuali e i loro studenti all’università, vengono fatti agire tutti come protagonisti su un’unica grande scena che si estende da Occidente ad Oriente e sulla quale prende vita un teatro che non indulge nella retorica semplicistica del male, ma che vuole condurre a quel male più sottile situato lontano da una Vita Activa e dunque, privo di volontà e di giudizio, proprio come nel caso di Eichmann e del suo servilismo nei confronti del Reich e delle sue Leggi che ne fa l’interprete-simbolo proprio della “banalità del male”.

Le circostanze documentate e raccontate nel film si snodano tutte tra il 1961 e il 1962, correndo lungo il processo al gerarca Adolf Eichmann e al reportage che la Arendt si impegnò a produrre per il New Yorker. Dai raffinati salotti newyorkesi alle aule del campus universitario fino agli spazi aperti e soleggiati o all’aula del tribunale di Gerusalemme, le vicende si muovono lungo una linea sottile il cui rigore e la cui compostezza stride con l’orrore della guerra e dell’olocausto. Senza teatralità. Senza melodrammi. Potremmo dire che la Bauhaus fornisce alla regia l’ambiente e la sensibilità culturale attraverso cui filtrare la storia da raccontare, così che ciascun gesto, sguardo, situazione, possa sottrarsi da inutili estetismi e lasciar cogliere la profonda magmaticità del pensiero che è sotteso, e che pure non può che mostrarsi come forma. In questo senso il film è un saggio magistrale che tocca alla radice le questioni care alla Arendt – quelle sull’Essere e l’Apparire – che ne fanno una delle interpreti più vivaci della prospettiva fenomenologica, e che nel film “torna” come “testimone” e interprete di un pensiero incarnato, di un pensiero necessariamente politico, mondano, che fa i conti, cioè, con la “gettatezza nel mondo” afferrata dalla lezione del suo amato maestro Heidegger. E ancora in questo senso, si potrebbe titolare questo film come “la cognizione del dolore” perché, come nel romanzo di Carlo Emilio Gadda, si ripercorre una mappa che non può e non vuole essere il territorio arendtiano tutto, ma un tracciato che riconosce dentro ogni piega e ruga del volto una crepa attraverso cui scorgere l’immensità e l’inafferrabilità (misteriosa) dell’Essere. E quindi anche dell’essere Hannah Arendt: del suo pensare, del suo conoscere, del suo esistere. Dal film si esce, dunque, forti nel sapersi alla continua ricerca di senso e restituiti all’umanità di questa ricerca, che non ha fine se non in coincidenza con la fine. La pellicola di cui si serve Margarethe von Trotta funziona dunque come membrana che consente di nutrirsi della “lezione” fenomenologica di Hannah Arendt e del silenzio e del vuoto che circonda come un’aura ogni suo gesto e ogni sua “opera”: quel vuoto e quella distanza da cui emergono parole e sguardi a dare corpo e “sostanza” vibrante alla vita della mente. Una mente cioè che non si dà tregua, non esibisce una posizione, bensì rivendica la condizione nomade e la necessità di mutare: punto di vista, locus, patria.

Il film dunque è la sua rigorosa forma visiva ma soprattutto il suono delle parole – lasciate migrare tra il tedesco, l’americano e l’ebraico come a cercare la casa dell’essere – e il calore della luce in cui risuonano. Parole, che sono soprattutto dialoghi o lezioni o deposizioni e suonano tutte come “testimonianza”, come atto di responsabilità e come richiamo quindi alla volontà-necessità di chi le pronuncia di rispondere delle proprie azioni in relazione ad un proprio sentire-pensare. Parole che provano a rendere afferrabile la vibrante complessità del pensiero e del “reale”, sottraendosi all’unità e totalità della verità. Parole incarnate e filtrate dal loro generativo legame con il dolore e con uno specifico sentire, e che nel film si mescolano ai suoni della convivialità come a sottolineare la parentela semantica tra il giudicare e il gustare. Parole che provano a unirsi alla luce e che con la luce – di una sapiente e come hopperiana fotografia nel film – producono ombre e aloni che estendono il senso delle parole e delle cose, vissute, cui fanno vivo riferimento.

Un film che l’editore ci consegna con un volume articolato in saggi e che estende la possibilità di giudicare, di gustare e di comprendere, alla lettura. Ad un momento in cui il tempo non è più scandito dalla pellicola e dall’opera del regista ma si consegna più esplicitamente al lettore e alla sua volontà di giudizio.