CHE CI FACCIAMO QUI?

 

 

di Gennaro Fucile

 

Nel 1966 la 20th Century Fox produsse un film che in Italia venne distribuito con il titolo Viaggio allucinante, ma che in realtà si fregiava di un titolo più orientato a Jules Verne, che a Herbert George Wells:  Fantastic Voyage. Vi si narrano le avventure nel corpo di uno scienziato da parte di un team di colleghi che vengono miniaturizzati per operare su un embolo cerebrale che lo condanna a morte certa. Il guaio è che la miniaturizzazione è a tempo, soltanto un’ora, dopodiché, puff… e infatti la necessità di salvare lo scienziato, tale Jan Benes, è dovuta alla sua scoperta: la possibilità di estendere per un tempo illimitato il processo di riduzione a dimensioni microscopiche di qualsiasi cosa. Fantascienza, tant’è che la 20th Century Fox chiese a Isaac Asimov di scrivere un romanzo a partire dalla sceneggiatura che nasceva da un racconto che però non era stato scritto da lui. Fantascienza, che presa alla lettera non si è avverata come tante altre fantasie scientifiche. Al contrario, il principio, come altre intuizioni della fantascienza, trova dove incarnarsi, per vie oblique. Di recente ad esempio siamo stati invitati, formalmente tutti, nei fatti tutti coloro che si trovano anche distrattamente a guardare, a incrociare per un attimo lo schermo televisivo, tutti noi abbiamo ricevuto l’invito a penetrare con lo sguardo (c’è anche un genere perlopiù cinematografico che ci chiede e ci mette in condizione di fare altrettanto) un processo di produzione. Sì, di entrare a vedere di persona dentro il corpo di uno stabilimento produttivo, una fabbrica, una di quelle che esistono ancora. L’azienda non ha bisogno di pubblicità, è su tutte le tavole degli italiani, anche degli omosessuali, benché il presidente non li ami granché quando costituiscono un nucleo familiare, preferendogli le comunità composte da uomini single e galline. Nella grande diversificazione nell’offerta di prodotti che caratterizza l’attività del gruppo industriale, ci sono anche i sughi, i rossi (tutto pomodoro), i pesti e i ragù. Ebbene, incrociando l’innegabile tendenza al voyerismo che la rete stuzzica e il politicamente corretto come leva di marketing, ci si è inventati l’iniziativa “guardatustesso”, una piattaforma digitale che integra i servizi di Google (Maps e Streets View) e video del National Geographic Channel. A supporto, spot, lo si è accennato, campagna sul web e in futuro azioni di guerrilla marketing. Per entrare, come se fossimo miniaturizzati, in un vasetto di sughi… 

 

orienta

 

Un tempo visitare una fabbrica non era impresa facile, raccontarla ancora meno. Ci hanno provato intellettuali e scrittori del calibro di Giorgio Caproni, Carlo Emilio Gadda, Franco Fortini, Ottiero Ottieri, Paolo Volponi e altri, cercando di scrutare tra gli impianti produttivi, la dura realtà del lavoro, ma anche lo stupore di fronte alla macchina, all’insieme delle risorse in azione dentro i capannoni degli stabilimenti. In alcuni casi, questi reportage nascevano per volere delle imprese, grazie a proprie riviste. Senza andare al caso limite della Olivetti e di Comunità, basterà citare Civiltà delle Macchine, Pirelli, Rivista Italsider. Oggi no, accediamo al sito, seguiamo delle indicazioni analoghe a quelle che si danno agli animali da laboratorio per indurli a seguire un percorso, osserviamo, osserviamo cosa? Guardiamo senza vedere niente, come osservare un dettaglio anatomico mentre due o più corpi si impegnano a fare ginnastica sessuale in un film porno. Si inizia dai campi, perché il racconto è inerente a tutta la filiera, coltivazioni di basilico, di pomodori, poi l’esterno della fabbrica, quindi dentro, un nastro trasportatore, corridoi, macchine di cui ignoriamo il reale funzionamento, infografica (tanto di moda di questi tempi) per suggerirci domande (casomai fossimo affaticati dalla visita) dandoci pronte risposte, ad esempio: “Per allungare la conservazione aggiungete conservanti?”. Un percorso didattico a uso e consumo (letteralmente) del consumatore, di questa figura retorica che alimenta l’immaginario del marketing, che a sua volta lo nutre e ne giustifica l’esistenza. Un mondo asettico, sano, affettuoso, premuroso, rassicurante e al tempo stesso un po’ perverso, ostinato nella ricerca di una trasparenza che nulla mostra perché a essere trasparenti sono proprio gli oggetti e i soggetti che si mostrano. Un viaggio fantastico a ben vedere, perché ci porta dall’altro lato dello specchio, del vetro del vasetto, più che altro, lasciandoci ammirare un mondo che di umano ha poco, qualche operaio sullo sfondo, presenze quasi immateriali, uno chef in primo piano, D’accordo, da un’operazione di comunicazione e dunque di marketing non ci si può aspettare altro, non gli compete e se assolve la sua missione dal punto di vista aziendale è irreprensibile almeno sul piano della coerenza. È anche vero, però, che proprio in quanto dispositivi narrativi questi fenomeni non sono silenziosi, non tacciono, ma sono portatori di un discorso, raccontano una visione del mondo, del tentativo (piuttosto riuscito) di diffonderla, di condividerla, avviando un gioco di complicità, solleticando un voyerismo latente, innocente e generalizzato. Una visione del mondo magari piccola come un vasetto di sughi, ma abbastanza grande per salvaguardare il nostro gusto della critica dell’esistente.

 

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