LETTURE / DOCTOR SLEEP


di Stephen King / Sperling & Kupfer, Milano, 2014 / pagine 516, € 19,90


 

Per dormire il sonno dei giusti

di Francesca Fichera

 

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Sui condizionamenti del comportamento umano e sulle loro conseguenze, al di là di ogni karma o legge di Murphy possibile, il teorema elaborato da William Isaac Thomas offre un notevole contributo teorico. Secondo il sociologo americano, “se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze” (in Bagnasco, Barbagli Marzio, Cavalli, 2007), il che, come hanno dimostrato le successive rielaborazioni sperimentali fatte da Robert Merton a suffragio della sua profezia che si autoadempie (Merton, 1971), potrebbe riguardare qualsiasi distorsione percettiva di un fenomeno reale, a cominciare da quello della propria identità. Qualcosa che, in termini più specifici e in ambito più strettamente letterario, era già stato detto da Albert Camus, quando scriveva che “la libertà non è che una possibilità di essere migliori, mentre la schiavitù è certezza di essere peggiori” (Camus, 2008).

Daniel Torrance, figlio di Jack Torrance, si porta addosso un peso affine e, per questo, immensamente gravoso: la paura di assomigliare a suo padre; all’uomo che, incapace di difendersi dai colpi della sorte, del fallimento e della solitudine, cedette alla follia fra le mura di un hotel impregnato di malvagie presenze. Era il 1977 quando succedeva, quando Jack Torrance si riabbandonava all’alcolismo finendo con l’impazzire nelle stanze dell’Overlook Hotel, fra le pagine di The Shining (King, 2001). E quando Daniel detto Danny, il suo bambino di cinque anni, scopriva di non essere il solo a possedere lo shining, la luccicanza: la luce di uno sguardo interiore in grado di superare i limiti umanamente conosciuti e di guardare letteralmente oltre servendosi di uno straordinario tipo di telepatia.

Danny è sopravvissuto alla furia dell’Overlook Hotel – ma non ai suoi fantasmi – ed è cresciuto. Con gli anni, il suo dono si è tramutato in maledizione. L’unione dello shining con la convinzione “di essere peggiore” ha innescato il medesimo meccanismo che incastrò suo padre schiacciandolo fra gli ingranaggi della debolezza interiore. Gli spettri delle cose che ha visto e vissuto da bambino, dal giorno in cui ha messo piede sul suolo innevato fuori l’albergo, insieme con la madre, fino ai sonni poco quieti descritti nei primi capitoli di Doctor Sleep, non hanno smesso di tormentarlo neanche per un istante. A questo punto appare inevitabile che s’avveri quanto previsto: un’implosione di ricordi, di inaccettabilità del sé, di paura che un presente angosciante e immutato perduri nel futuro. Per silenziare le voci del passato, Danny imbocca la medesima strada scelta da suo padre: il tunnel dell’alcool. Ne uscirà per il miracolo compiuto da una serie di fortunati eventi – primo fra tutti, un nuovo impiego – e, soprattutto, incontri. Il contatto con altri suoi simili, fra i quali spicca per luminosità e importanza la giovanissima Abra, in possesso delle sue stesse capacità magiche, lo porterà a sfuggire alla prigione di solitudine e incoscienza nella quale si è costretto. Ma ancora più importante è il saper ritornare alle origini: in Doctor Sleep, con l’atto di riprendere il racconto dal punto di vista di Dan ancora piccolo e non, immediatamente, nel mezzo della sua vita da adulto, King opera una precisa distribuzione di significato. Dà priorità, come d’altronde ha sempre fatto, al mondo infantile, alla lucidità dello sguardo con cui i bambini leggono le cose, ma inserendovi una differenza rispetto ai precedenti, nostalgici ritratti della prima giovinezza quali sono stati It (King, 1990) o Il corpo (King, 1987), e assegnando un ruolo preciso all’infanzia: quello di sede della memoria costitutiva dell’uomo. “Dan s’interruppe di colpo, ricordandosi della risposta che Dick gli aveva dato per bocca di Eleanor Ouellette, quando gli aveva chiesto dove fossero i diavoli vuoti: «Nella tua infanzia, da dove vengono tutti i diavoli»” è la rivelazione di Doctor Sleep, nonché uno dei suoi nuclei fondanti: tutti i dèmoni provengono dall’infanzia e albergano nella memoria. Nella mente. Così il nuovo romanzo di King smette i panni di semplice sequel e veste quelli di resa dei conti vera e propria: per i personaggi, costretti a fronteggiare una volta per tutte i propri ricordi nocivi, quelle presenze che, ancorandosi al pensiero, paralizzano l’agire immergendolo nel fluido pecioso del senso di inadeguatezza; e per l’autore stesso, messo a confronto con la memoria sia in quanto esperienza personale che come concetto generale. In poche parole, uno Stephen King che ricostruisce il passato in funzione della maturità di pensiero che il presente gli concede; una memoria “riattualizzata” nell’esatta maniera in cui l’aveva intesa Maurice Halbwachs ne La memoria collettiva (Halbwachs, Jedlowski, 2001); e che, non a caso, reca in sé parte della cifra psicoanalitica da cui il pensiero del sociologo francese era marcato. Ma c’è di più: di Halbwachs ritorna, oltre a quella psicologica, anche la funzione sociale della memoria, legata al fatto che quest’ultima venga innanzitutto elaborata in seno a un gruppo di individui, “attaccata” a dei rapporti e alle persone che li intrattengono. Da qui ci si ricollega facilmente al secondo nodo concettuale di Doctor Sleep: le relazioni famigliari. Come già all’epoca di Shining, che King scrisse – per sua stessa ammissione – ispirandosi alla sua vita e a suo figlio Joe, non v’è dubbio che nella stesura di Doctor Sleep il “Re del Brivido” abbia infuso, più o meno consciamente, molto di quello che la sua tormentata esperienza giovanile gli ha insegnato. L’assenza di una figura paterna e la presenza di una madre provata hanno lasciato un solco più che profondo nella sua coscienza, nella sua conoscenza del mondo, e questo segno è visibile tanto fra le righe del libro quanto nei contorni, ben definiti, dei personaggi di Jack Torrance – fisico in Shining, olografico in Doctor Sleep – e di sua moglie Wendy. Danny è il tramite, prima, di una ricomposizione chiara e spontanea della realtà, a lui possibile in quanto bambino dotato del dono della luccicanza; in seguito, e nel seguito, diventa il medium per un’analisi sintetica e conclusiva, a posteriori, di ciò che è accaduto e del modo in cui lui stesso lo ha esperito.

L’interrogativo – o anche il dubbio amletico – che ne risulta è: si può amare, o di fatto si ama, chi ti ha fatto del male al punto da arrivare quasi a ucciderti, specialmente se questi è tuo padre? In Doctor Sleep, più che un senso di colpa generato dall’aver temuto e detestato il proprio genitore, e per aver attirato e provocato altre tragedie, King arriva a rispondere raffigurando il dilemma interiore – molto più complesso, ambiguo e terribile – per averlo amato comunque e a dispetto di tutto. “Era buono, ma anche cattivo, e gli volevo bene per quel che era. Che Dio mi perdoni, gliene voglio ancora”, ammette Danny. Ma prima di giungere a questa liberazione ha da compiere un percorso; ciò che a tutti gli effetti si configura come espiazione. E ad uscirne sconfitta è la dipendenza, il terzo tema portante di Doctor Sleep: dipendenza dal passato, e quindi dalla bottiglia, per Danny; dipendenza dal “vapore”, dall’essenza umana sprigionata dalla sofferenza fisica, per i “vampiri psichici” del Vero Nodo, il gruppo di villains della storia capitanati dalla mostruosa (ma affascinante) Rose Cilindro. L’idea di dipendere da qualcosa al punto da venirne danneggiati è forse – e a sostegno di quanto scritto da Steven Poole nella sua recensione sul Guardian (http://www.theguardian.com/books/2013/sep/25/doctor-sleep-stephen-king-review) – quella che più impregna l’ultimo romanzo kinghiano, fungendo da collante tanto per gli altri fulcri tematici evidenziati quanto per le canoniche categorie di buoni e cattivi – mai come in questo caso, quasi per un eccesso di indulgenza da parte di King, più simili che in opposizione.

Il mondo infantile come sede della memoria e, di conseguenza, dello scheletro dell’identità individuale; il coagulo di ricordi e identità intorno alla rete dei rapporti famigliari – e anche amicali; il riempimento dei vuoti da questi lasciati necessario all’affermazione del sé adulto: sono, queste, tutte progressioni destinate a sfociare – sempre entro una dimensione ottimistica, perché il King maturo così vuole – nell’eliminazione della dipendenza, nella creazione di un’autonomia pulita e incondizionata, di una nuova libertà.

Ancora una volta, ma in senso positivo, la soluzione è offerta dal gruppo sociale: negli Alcolisti Anonimi, nella loro retorica – apparente perché vigorosamente pragmatica – come anche nella semplice solidarietà dei loro rituali, Daniel Torrance trova un primo stimolo per avviare la sua lunga e tortuosa fase di rinascita. Gli AA, insieme con i colleghi della Rivington House, la casa per anziani dove Dan lavora, rappresentano un sostituto sano, sebbene parziale, dell’idea di familiarità da cui, nel lontano 1977, è stato bruscamente estirpato. A ciò si aggiunge il rapporto con Abra, la preadolescente dallo shining potentissimo che i “dèmoni vuoti” del Vero Nodo prendono di mira; perché il suo dono straordinario non solo li scopre e li sfida, ma li alletta. In lei abita l’occasione di Dan per condividere l’anormalità del proprio vivere, come a suo tempo poté fare con il cuoco dell’Overlook Hotel, il “buono per eccellenza” Dick Halloran. Ed è anche uno dei due modi in cui prende forma il riscatto della sua persona: se infatti da un lato il figlio di Jack Torrance può dire di poter lasciare a qualcuno un’eredità positiva, segno che il suo sangue non è tutto da sprecare, dall’altro scopre che il talento anomalo di cui è in possesso, oltre a fare male, sa anche venire in aiuto alle persone. Dalle vittime imberbi del Vero Nodo – fra i pochi bambini veramente sconfitti presenti nel mondo kinghiano – fino agli anziani dell’ospizio Rivington.

Per i secondi, Dan è il Dottor Sonno del titolo; colui che, sempre preceduto dal gatto Azzie (Azzie come Azrael, l’Angelo della Morte islamico), accompagna i moribondi durante i loro ultimi istanti, quando l’altrove socchiude le sue porte. Lì, il vedere oltre di Danny – e, per un momento, di chi muore – si muta in comunicazione che chiarendo, portando conoscenza, sconfigge le ombre, come del passato così di quel futuro ignoto che s’intravede dall’altra parte. Così anche il tempo presente è finalmente libero – e con lui Danny, e con lui ancora il suo illustre creatore – di guardare. Reso anch’esso indipendente da qualcosa, e cioè dalla paura di aprire gli occhi su se stesso, è in grado di richiuderli allo stesso modo; di dormire sonni tranquilli, spogliati dagli incubi e dalle colpe, con l’unica compagnia di una parola di conforto. Del resto, “il sonno è un rimedio naturale” (“sleep was nature’s doctor”, nell’originale: la traduzione italiana risulta imprecisa, nda); lo è ancora, e lo sarà sempre. Lo sosteneva anche Louis-Ferdinand Céline nel suo Viaggio al termine della notte: “Non credete mai a prima vista all'infelicità degli uomini. Chiedetegli se riescono ancora a dormire... Se sì, va tutto bene. Basta quello” (Céline, 2011).

 


 

LETTURE

  Camus Albert, Œuvres complètes, Tome III, La Pléiade, Gallimard, Paris, 2008.
Céline Louis-Ferdinand, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano, 2011.
Halbwachs Maurice, Jedlowski Paolo (a cura di), La memoria collettiva, Unicopli, Milano, 2001.
King Stephen, It, Sperling & Kupfer, Milano, 1990.
King Stephen, On Writing: autobiografia di un mestiere, Sperling & Kupfer, Milano, 2000.
King Stephen, Shining, Bompiani, Milano, 2001.
King Stephen, Il corpo, in Stagioni diverse, Sperling & Kupfer, Milano, 1987.
King Stephen, The Wind Through The Keyhole, Scribner, New York, 2012.
Merton Robert King, La profezia che si auto avvera, in Bagnasco Arnaldo; Barbagli Marzio; Cavalli Alessandro, Corso di sociologia, Il Mulino, Bologna, 2007.