LETTURE / COSE CHE PARLANO DI NOI


di Daniel Miller / il Mulino, Bologna, 2014 / pp. 197, € 16,00


 

Da qui all'identità

di Adolfo Fattori

 

image

A dire la verità, la prima impressione che si ha leggendo il saggio di Daniel Miller è che il titolo inganni. Ci si aspetta, infatti, uno di quei saggi in cui ci si dedica alla mappatura degli oggetti di consumo nelle case delle persone per trarne delle ipotesi su come queste persone sono fatte, sulla loro identità sociale per poterle collocare all’interno di una classificazione fatta di similitudini e differenze, di scarti e affinità, come si potrebbe fare anche analizzando i “diari” degli utenti su un social network come Facebook. L’idea di fondo sarebbe quella delle classiche sociologie dei consumi, a partire da Thorstein Veblen e dal suo classico La teoria della classe agiata (Veblen, 2007) per arrivare, tanto per dire, al Jean Baudrillard di Il sistema degli oggetti (Baudrillard, 2003).

Niente di più sbagliato, ma per fortuna. Perché il libro dell’antropologo inglese e della sua collaboratrice, Fiona Parrott, si rivela molto più profondo, affascinante e interessante di quanto ci si potesse immaginare, a partire dal modo in cui intende il concetto di “cose” applicato alla vita quotidiana e alla percezione di sé delle persone che incontra e di cui descrive le vite.

Miller chiarisce subito che coloro che sono presentati nel libro sono solo una piccola scelta – significativa, naturalmente – rispetto al centinaio di persone o famiglie che hanno acconsentito ad essere intervistate, tutte appartenenti ad una strada della “grande Londra” caratterizzata da un alto tasso di multiculturalità. Attraverso il loro racconto di sé e del proprio rapporto con le cose che ritengono significative, questi individui permettono ai due ricercatori di verificare la propria ipotesi di lavoro, che “… le persone sedimentano i propri beni materiali, li posano come fondamenta, mura materiali cementate di memoria, supporti resistenti di cui ci si impossessa quando i tempi sono difficili e si sta affrontando un’esperienza di perdita”.

Già il senso che Miller e la Parrott danno al concetto di “cosa” è significativo, perché non si limita a comprendere gli oggetti materiali che lentamente ma sistematicamente si accumulano in tutte le abitazioni, sedimentandosi come strati geologici successivi, a indicare il susseguirsi di ere esistenziali diverse, magari contraddittorie, ma si allarga a comprendere anche ciò che facciamo diventare parte integrante dei nostri corpi e della nostra immagine esteriore, come i tatuaggi, i piercing, come nel caso di “Charlotte”, o il proprio cane, come per “Harry” e il suo “Jeff” (come tutti gli altri, naturalmente, nomi di fantasia), o nel caso del laptop di “Malcolm”, sempre in viaggio, come i suoi antenati aborigeni.

O l’assenza pressoché totale di cose, come nell’appartamento di “George”, praticamente vuoto, a conferma di uno degli “assiomi della comunicazione” definiti da Paul Watzlawick nella sua Pragmatica che afferma che “non si può non comunicare” (Watzlawick, 1971), che anche il silenzio parla: se gli oggetti che abbiamo intorno dicono qualcosa di noi, una casa vuota comunica, quasi urla il passato e la storia di chi ci abita: la sua solitudine, la sua inesistenza agli occhi del mondo – e la sua incapacità di starci, nel mondo, di crearci uno spazio proprio, da abbigliare con quello che il mondo stesso avrebbe potuto offrirgli. Una vita, quella di George, che è giunta al tramonto, e si è svolta senza eventi, trasferito da un ostello pubblico ad un altro, stazioni di posta successive di un viaggio senza scopo, senza scosse, su un pianeta abitato solo da lui…

E, in opposizione, il pieno traboccante, che riempie non solo gli spazi casalinghi, ma anche il tempo dei “Clarke”, marito e moglie ormai anziani, ormai genitori e nonni di una grande famiglia, che hanno posto al centro della loro vita il Natale e passano – ormai liberi dalle incombenze della vita lavorativa – l’intero anno a predisporre la loro casa per il Natale successivo, per poter accogliere a turno tutta la famiglia, gli amici, i vicini, e introdurli in quella specie di villaggio delle meraviglie e dei balocchi in crescita continua da un anno all’altro in cui hanno trasformato la loro villetta a schiera. E sfuggendo comunque al rischio di trascendere nella patologia dei disposofobici, gli accumulatori seriali (cfr. Fattori, http://www.agoravox.it/Vivere-negli-oggetti-La-realta.html), perché, a differenza di costoro, tutto, nella loro attività, partecipa di un progetto organizzato, coerente, sereno, sistematico – e, prima di tutto, ordinato. Un universo che si sostituisce al mondo? Assolutamente no, nel caso lo interpreta, visto l’impegno dei Clarke nell’aiuto ai vicini, agli amici, in cui riescono a coinvolgere tutta la loro grande famiglia, allargando sempre di più una rete di relazioni di cui i legami sottili e latenti fra le serie di oggetti di cui riempiono il loro appartamento sembrano essere quasi una rappresentazione nascosta, a realizzare in concreto uno dei significati che la sociologia dà del concetto di “capitale sociale” (AA. VV., 2001).

C’è però qualcosa che accomuna in profondità George e i Clarke nel loro abitare gli antipodi della vita, il vuoto e il pieno: l’abolizione del tempo. Se nel caso di George il tempo non esiste perché non vi sono segni del suo passaggio, tracce – quindi il medium dei ricordi e della memoria – di eventi importanti nella sua vita, per i Clarke il tempo è di fatto fermo ad un unico giorno dell’anno, il 25 dicembre: il periodo che passa fra un Natale e un altro è segnato solo dall’arricchimento, dal perfezionamento, di questa giornata, un infinito lavoro di addobbo e completamento, un work in progress che potrebbe non arrestarsi mai, sottolineando con la sua eternità la sua natura sacra, rischiando però di abolire con il suo scorrere immobile, qualsiasi senso di ricordo e di memoria. Tanto è vero che qui pare non verificarsi l’ipotesi dei due ricercatori: i due Clarke appaiono felici, sereni, emancipati dalla necessità di cercare luoghi del passato cui ancorarsi per scacciare le ombre del presente.

Dove lo scorrere del tempo viene assicurato è invece, e sembra paradossale, nel laptop di Malcolm, nella fusione che si realizza fra l’aborigeno e il suo computer. Nella descrizione di Daniel Miller la vera casa del nomade Malcolm è il suo laptop: è lì che il giovane deposita, conserva e organizza tutto ciò che riguarda la sua vita, i suoi viaggi, i suoi spostamenti, i suoi ricordi, attraverso una sistematica pratica di “auto archiviazione”. Ed è da lì che è in continuo contatto con i suoi amici, i suoi parenti, sua madre, i suoi antenati. Attraverso il laptop conduce ricerche – continuando il lavoro della madre – sul lignaggio della sua famiglia. Cerca di ricostruire le sue ascendenze aborigene, laddove la storia del colonialismo britannico non ha registrato nulla, se non quello che c’è negli archivi della polizia.

Da vero “uomo digitale” ricerca, e sta ricostruendo, attraverso il virtuale – per definizione il luogo dove spazio e tempo sono aboliti – la storia, quindi il tempo, delle sue radici ancestrali, e, nello stesso tempo, organizza i dati che raccoglie nel suo laptop – sia quelli relativi alla sua ricerca che quelli che riguardano la sua vita – come un percorso della memoria, un percorso a tappe che gli permette di ricostruire quando vuole la sequenza degli eventi della sua vita.

Per gli aborigeni australiani, come per tutti i popoli arcaici, coloro che ci hanno preceduto come coloro che ci seguiranno non sono separati da noi viventi, sono presenti, e sono sempre lì a dialogare con noi. Così Malcolm, attraverso le tracce che deposita come luoghi successivi dell’anima nel suo portatile, mette in comune la sua vita e la sua storia, non diversamente dai suoi antenati che attraverso i loro “canti” ricostruivano, anno per anno, la teoria di animali totemici della propria tribù e i luoghi dove albergavano per ripetere i loro percorsi, le strade che li avrebbero portati durante i cambi di stagione all’acqua, al cibo, ai luoghi di riposo (Chatwin, 1995).

Il laptop resuscita mimeticamente il tempo mitico e gli spazi sacri della cultura aborigena, dando al ragazzo la speranza che qualcuno – forse il nipote – possa raccogliere il testimone della sua ricerca e continuare a far vivere nel web la storia del suo clan.

Ecco, Malcolm, al contrario di George e dei Clarke che illustrano i punti estremi del continuum su cui giacciono le persone intervistate da Miller – oltre quelle che abbiamo citato, “Stan” e i fantasmi di coloro che ha ucciso che non lo lasciano un attimo, “Marina” e i gadget di McDonald’s, “Elia” e i suoi vestiti, “Anna” e “Louise” e i giocattoli vintage della Fisher Price che collezionano per la loro bimba, “Simon” e i suoi cd, tutti veicoli del ricordo, della compensazione, della fuga dalla depressione e dalla paura, o del rimorso e della disperazione come nel caso di Stan – Malcolm, dicevamo, è come se le raccogliesse e sintetizzasse tutte. Grazie al suo laptop organizza il mondo attuale, naturale, quello che abita col suo corpo e la sua mente, e il mondo del sogno, quello sacro dei suoi antenati, praticando un progetto di armonizzazione fra le varie parti della sua identità – quella razionale, moderna, che viaggia, lavora, agisce, e quella ancestrale, sacrale, del legame archetipo, mitico con i suoi antenati e la sua terra d’origine – armonia che tutti gli altri intervistati inseguono con più o meno forti o deboli possibilità di successo.

 


 

LETTURE

  AA. VV., Il capitale sociale. Istruzione per l'uso, il Mulino, Bologna, 2001.
Baudrillard Jean, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano, 2003.
Chatwin Bruce, Le vie dei canti, Adelphi, Milano, 1995.
Veblen Thorstein, La teoria della classe agiata, Einaudi, Torino, 2007.
Watzlawick Paul, Beavin Janet H., Jackson Don D., Pragmatica della comunicazione umana.
Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1971.