ASCOLTI / ‘68


di Robert Wyatt / Cuneiform Records, 2013


 

ECCE WYATT

di Gennaro Fucile

 

image

Si diventa ciò che si è. Ascoltare per credere. C’è una stagione nella carriera di Robert Wyatt che riafferma perentoriamente la convinzione nietzschiana. Quella stagione è l’autunno del 1968, i luoghi sono New York e Los Angeles, i quattro manufatti rinvenuti dagli archeologi della Cuneiform Records, alloggiati nel disco emblematicamente intitolato ’68, ne costituiscono la documentazione storica e i fatti sono quelli che seguono, in breve cronaca, partendo dall’inizio di quell’anno, il 1968, quando i Soft Machine erano un trio formato da Kevin Ayers (voce e chitarra), Mike Ratledge (tastiere) e Robert Wyatt (batteria e voce). I tre erano indaffaratissimi nel farsi una reputazione nell’ambiente più à la page della nascente scena underground, soprattutto londinese. Avevano agganciato Chas Chandler, il manager di Jimi Hendrix e il contatto presto diede i suoi frutti. “Il 30 gennaio, i Soft Machine partirono per San Francisco (con scalo a New York) insieme al Sensual Laboratory di Mark Boyle e a Hugh Hopper in veste di road manager: li attendeva un faticoso tour di nove settimane tra Stati Uniti e Canada, di spalla ai Jimi Hendrix Experience”, racconta Michael King in Falsi movimenti, una storia di Robert Wyatt, bibbia wyattiana per eccellenza (King, 1994).

A metà aprile, prima di tornare in patria si fermarono negli studi Record Plant di New York e registrarono il loro primo ellepì. Stanchi e insoddisfatti della riuscita del disco, tornarono in patria, poi ripartirono per una seconda tournee negli Stati Uniti. Ayers però si defilò e al suo posto entrò Andy Summers, anni dopo rockstar con i Police. “Al loro ritorno a Londra, i Soft Machine trovarono alla svelta un po’ di ingaggi, che dovettero però annullare quando seppero che era in preparazione un secondo tour statunitense con Hendrix” (ibidem).

A settembre, conclusasi la seconda avventura in Usa, i Soft Machine si sciolsero, corrosi da una discreta frustrazione, convinti com’erano che in studio non riuscissero a esprimere bene la fantasia e la creatività che animavano le esibizioni dal vivo. Se ne tornarono a casa tutti, compreso Hugh Hopper, all’epoca semplice roadie della band. Tutti tranne Wyatt. Lui si fermò per qualche mese, aggirandosi, tra una sbronza e l’altra, negli studi newyorkesi e in quelli di Hollywood, i T.T.G. Studios. Il giro era sempre quello degli artisti del giro di Chandler: Eric Burdon & The Animals e Hendrix con gli Experience. Wyatt ogni tanto infilava anche la sua vocina dentro alcune registrazioni, ma soprattutto registrò, o meglio disegnò il suo futuro. In diversa misura, per anni non si saprà granché di questi appunti, note, bozzetti, schizzi, scarabocchi, studi, prove e deliri. Pratica che non sorprende, in fondo, da ragazzino voleva fare il pittore.  Si diventa ciò che si è, appunto.

 

Gli archeologi della Cuneiform Records, tra i più attrezzati in circolazione, come si è detto in apertura, hanno recuperato quei nastri e realizzato il disco’68, che comprende i quattro manufatti/brani di cui uno, Chelsa, sfuggito anche a Michael King. Wyatt qui si sbizzarrisce non poco, quasi giocasse al piccolo chimico, con quello spirito fanciullesco da cui traeva immensa energia, portandosi a casa un discreto bagaglio di composti e soluzioni che riverserà in dosi diverse e in tempi differenti negli anni a venire. A iniziare proprio da Chelsa, motivetto sbilenco che tornerà utile, quando un’altra morbida macchina più su misura per Wyatt inciderà nel 1972 il suo primo disco: Matching Mole. Cambierà veste, fragranze e titolo, diventando Signed Curtain, ma la canzone è quella. Nel quaderno d’appunti, o meglio nel taccuino denso di annotazioni e intuizioni che Wyatt realizzò in quei mesi spicca l’altro inedito assoluto, la spettacolare scorribanda vocale di Rivmic Melodies. Wyatt onorò qui come mai più l’autore del romanzo The Soft Machine, William Burroughs, le sue tecniche compositive (cut-up, permutazioni, fold-in), incollando su una struttura quanto mai friabile due “vecchie” composizioni dell’amico Hopper, When I Don't Want You e Have You Ever Bean Green (quest’ultima a sua volta rielaborazione di una precedente originaria Have You Ever Been Blue), che arrivavano dai tempi dei Wilde Flowers. Anche sulla reale paternità di questi materiali, però, Wyatt con la complicità di Hopper mescola le carte: il primo sostiene di essersi preso cura di creature non sue e di averle fatte maturare, ma l’amico e compagno di tante avventure musicali dice di aver messo la firma solo per questioni di diritti. Cortesie tra gentiluomini o buchi nella memoria, fatto sta che Wyatt, patafisico di fresca nomina (i Soft Machine erano stati insigniti dell’Ordre de la Grande Gidouille dalla Società patafisica francese, nell’autunno dell’anno precedente) si ingegnò a musicare l’impossibile, anche l’alfabeto inglese e a cucire insieme il tutto lungo circa diciotto minuti di autentico cimento della follia e dell’invenzione. 

 

La logica sottesa a questa performance vocale, alle sue ripetizioni e sovraincisioni, la riprenderà al momento di incidere per la prima volta qualcosa di ufficiale a suo nome, l’album End Of An Ear (1970), ma l’idea della presentazione dell’alfabeto avrà subito una collocazione ufficiale, quando nel 1969 i Soft Machine registreranno Volume Two, un collage a incastri reso stabile da una maggiore vicinanza al jazz; uno spostamento dovuto soprattutto al lavoro di Hopper. Sarà qui che con il titolo Rivmic Melodies la prima facciata ospiterà una stramba suite composta da una successione di miniature ritagliate dall’originale registrazione di Wyatt. L’alfabeto musicato nel Volume Two dura un lampo, ma viene esposto con maggiore linearietà che nella seduta newyorchese, un’ennesima mutazione cellulare che rende bene l’idea di quante pozioni ci fossero a bollire in quella stagione, così come accade per le altre tranche della performance originaria rispetto al suo doppio, incluse le due introduzioni patafisiche, anzi una divisa in due parti, con cui si chiuderanno gli omaggi espliciti ad Alfred Jarry. Anche l’altro brano più breve di ’68, Slow Walkin' Talk è di casa Hopper, ma in questo caso del fratello Brian (risalente sempre ai tempi dei Wilde Flowers, la cellula madre della morbida macchina), musicista di cui i Soft Machine si avvarranno per il secondo album, sovraincidendo alcuni suoi interventi ai sassofoni. Anche qui passato, presente (di allora) e futuro si distendono su una linea temporale obliqua. Si diventa ciò che si è. Il brano finirà per assumere movenze swinganti più disinvolte diversi anni dopo, nel terzo album solista di Wyatt, Ruth Is Stranger Than Richard (pubblicato nel 1975), cambiando anche qui testo e titolo. Diventerà Soup Song. In questa versione (già nota perché uscita in precedenza sulla raccolta Flotsam Jetsam) schizza veloce, supportata dall’ultrabasso suonato da Hendrix, che trovandosi a passare negli studi imbracciò lo strumento di Noel Redding e, pur essendo mancino, non fece una piega, suonandolo da primo della classe. Wyatt, lo ricorderà come un momento in cui gli sembrò di essere in paradiso. Il quarto brano incluso in ’68, è il più famoso del mazzo: Moon In June. Anche in questo caso il piccolo chimico si trastullò con provette e alambicchi, dissolvendo in un composto surreale due precedenti brani registrati l’anno prima per l’album zero dei Soft Machine, cui si è accennato: That’s How Much I Need You Now e I Don’t Remember, due composizioni nate dalla penna dello stesso Wyatt. Non si tratta di un inedito assoluto, come non lo è, si è detto, Slow Walkin' Talk, poiché la stessa Cuneiform Records l’aveva inclusa in una raccolta di materiali d’archivio dei Soft Machine una decina d’anni fa: Backwards.

Diversamente da Rivmic Melodies, qui Wyatt rese gli elementi originari più solubili, ottenendo un risultato più omogeneo, cioè, fuor di metafora chimica, un unico brano, quella gemma che tuttora rifulge di cristallina luce lunare, anche se prima di trovare sistemazione definitiva nello storico Third dei Soft Machine, passò ancora per affinamenti progressivi. Wyatt registrò solo la prima parte, mentre il seguito strumentale fu inciso a metà dell’anno successivo (1969) con Hopper e Ratledge. Sarà la sezione che capiterà di sentire anche in concerto, perché per canzoni del genere nei Soft Machine presto non ci sarà spazio. Wyatt modificherà anche il testo, due volte, quando la infilerà in una seduta del giugno ’69 alla BBC (alla trasmissione Top Gear, come farà anche in novembre con Istant Pussy, poi finita nel repertorio dei Matching Mole) e di nuovo registrando Third con la versione definitiva della stessa Moon In June

 

Quando nel giugno del 1970 uscirà Third, i Soft Machine avevano già macinato un altro bel po’ di concerti. Molti ne saranno ripescati decenni dopo, compresi quelli tenuti nel resto dei Settanta con e senza Wyatt, finendo per surclassare discograficamente il numero delle uscite ufficiali in studio. Il nuovo spuntava ovunque in quella stagione e in particolare, nel Regno Unito, si stava facendo largo una generazione di jazzisti proprietaria di una personale visione del genere. L’anno si era inaugurato con l’uscita di un disco che agiva in sintonia e in parallelo con le scelte elettriche di Miles Davis: Elastic Rock a opera di un gruppo chiamato Nucleus. Anche dei musicisti sudafricani esuli in Uk raccolti sotto il nome Brotherhood of Breath si erano affacciati sulla scena con un fulgido esordio e altrettanto dicasi per compositori e direttori d’orchestra come Mike Gibbs, Mike Westbrook, Graham Collier e Neil Ardley. Si facevano valere solisti di grande talento come John Surman, Mike Osborne, Alan Skidmore, Harry Beckett e Keith Tippett, Elton Dean e improvvisatori radicali come Derek Bailey, Evan Parker, Paul Rutherford, John Stevens e Trevor Watts. Non tutti inglesi, ma tutti in azione soprattutto nella capitale. Il vento del jazz investì i Soft Machine che vi si lasciarono trasportare e nel farlo ricambiarono formazione: entrò in pianta stabile il sassofonista Elton Dean mentre a turno, in concerto e in studio si avvicendavano altri musicisti. Alle registrazioni di Third parteciparono Nick Evans (trombone), Lyn Dobson (flauto e soprano) e Jimmy Hastings (flauto e clarinetto basso).

Uno dei quattro brani dell’album è Moon In June, il free pop minimal/malinconico firmato e “swingato” da Wyatt. Un capolavoro dove per un attimo si sorvola sullo stridente contrasto tra la musica secondo Wyatt e quella secondo Ratledge. Wyatt è umorale, più solare, gioca e ama fare e disfare canzoni nel segno di una lucida e colta strampalaggine. Ratledge è orientato a soluzioni algide, astratte, altrettanto visionarie ma piuttosto gelide.

Quell’attimo durerà fino alla stesura di Fourth, pubblicato nel gennaio del 1971. A settembre Wyatt se ne andrà per la sua strada, ma questa è un altro capitolo di quella storia apparsa negli schizzi del 1968, perché si diventa ciò che si è.

 


 

ASCOLTI

 Soft Machine, Backwards, Cuneiform Records, 2002.
 Soft Machine, Middle Earth Masters, Cuneiform Records, 2005.
 Soft Machine, The Soft Machine, Water Water, 2007.
 Soft Machine, Volume Two, Water Water, 2007.
 Soft Machine, Third, Sony/Bmg, 2007.
 Soft Machine, Fourth, Sony/Bmg, 2007.
 Matching Mole Matching Mole, Esoteric Recordings, 2012.
 Robert Wyatt, Flotsam Jetsam, Rough Trade, 1994.
 Robert Wyatt, Ruth Is Stranger Than Richard, Domino, 2008.
 Robert Wyatt, The End Of An Ear, Esoteric Recordings, 2012.

 

LETTURE

 King Michael, Falsi movimenti, una storia di Robert Wyatt, Arcana Editrice, Milano, 1994.