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ASCOLTI / THE PERFECT PRESCRIPTION


di Spaceman 3 / Fire Records, 2013


 

Dal garage ai cancelli del cielo

di Cristian Caira

La breve traiettoria creativa degli Spacemen 3, marchio tra i più apprezzati dagli intramontabili fautori del rock chitarristico di matrice bianca – quello che, per intenderci, finisce ineluttabilmente sotto l’abusata e pertanto ormai inservibile etichetta di indie –, non può certo definirsi scontata e priva di insospettabili virate. Tutt’altro che sprovvisti di idee e intuizioni, Peter "Sonic Boom" Kember e Jason Pierce, motori concettuali del progetto, hanno rigettato le avvilenti tappe riservate alle band dal fiato corto – 1) forgiare una maniera più o meno originale, 2) rifinirla, che è un modo carino per dire purgarla o annacquarla, 3) costruirci su un’intera carriera – e affrontato, invece, un personale percorso che li ha condotti, nel giro di soli tre anni, da un retrò-garage nebuloso e opprimente a una peculiare forma di psych-ambient estatica e ammantata di luce empirea. Con il vertiginoso can-can di citazioni (o plagi mal dissimulati?), rimandi, cover e riscritture di Sound of Confusion, l’esordio del 1986, gli Spacemen 3 espongono in vetrina, scrupolosamente tirati a lucido, tutti i loro santi patroni: Rolling Stones, 13th Floor Elevators, Stooges, Velvet Underground. Tra la fitta foschia di fuzztone dell’apatico inno para-stoogesiano Losing Touch with my Mind si può scorgere un riff di Citadel (brano tra i meno celebri degli Stones). Scandito da un ossessivo battito voodoo e infestato da miasmi di rumore bianco, Hey Man è uno stordente baccanale velvettiano. Rollercoaster, selvaggia cavalcata space che si destreggia tra effetti vischiosi e sibili lancinanti, è un’elettrizzante cover del classico dei texani 13th Floor Elevators. Le affilate tormente di feedback e il percussionismo febbrile di Mary Anne stravolgono l’originale Just One Time dei Juicy Lucy, una ballata acustica bizzarramente arrangiata. È una cover che invade i territori della riscrittura. In Little Doll, terza cover del disco, il ritmo ha l’incedere di un sonnacchioso automa, Pierce reinterpreta Iggy Pop sterilizzandone gli impulsi più libidinosi e power chord e fuzztone sfumano in un wall of sound terso e impalpabile (un preludio al cambio di rotta di The Perfect Prescription). All’originale brano degli Stooges, nevrotico e pulsante, gli Spacemen 3 somministrano dunque un’abnorme dose di valium. Sarabanda cacofonica in stile texano (più Red Crayola che 13th Floor Elevators), O.D. Catastrophe è una riscrittura della martellante e assatanata T.V. Eye, altro pièce-de-résistance degli Stooges. Quali intenti si celano dietro il meta-album Sound of Confusion (affine, tra l’altro, al di poco precedente Psychocandy (1985), l’esordio dei Jesus and Mary Chain che vampirizzava l’agrodolce repertorio pop di Love e Byrds)? Riproponendo con inusitata sfacciataggine moduli, tessiture, suoni e atmosfere sixties, gli Spacemen 3 desiderano in un colpo solo venerarli, favorirne una restaurazione e prendere recisamente le distanze dal trend – musicale e non – coevo ( “La verità” – dirà Pierce qualche tempo dopo – “è che gli anni Ottanta li abbiamo saltati del tutto. Non eravamo affatto sintonizzati sull’attualità musicale e politica […] Scavavamo in un mondo musicale che non era mainstream – attingendo alla musica degli anni Cinquanta e Sessanta – per poi sfruttarlo e farlo nostro”).

All’orgiastico e caotico Sound Of Confusion, segue nel 1987 il meditabondo, contemplativo, quasi trascendente The Perfect Prescription (recentemente ristampato in vinile colorato dalla Fire Records, raggiungerà presto, potete giurarci, le affluenti e babiloniche Xanadu dei Charles Foster Kane audiofili). Diradatesi le coltri delle distorsioni, ad emergere prepotentemente sono le doti compositive e il talento melodico del duo Kember-Pierce. Il suono acquista aria e luminosità, proiettandosi sovente fino ai cancelli del cielo. Take me to the Other Side è un curioso esperimento di garage rarefatto in cui tra la scoppiettante sezione ritmica e gli aspri riff di chitarra si insinua una sottile e tremula linea di tastiera. Con i suoi giocondi accordi di chitarra acustica e le spirali avvolgenti di Farfisa, Walkin’ with Jesus è un gospel che trasmette un senso di beatitudine ultraterrena ed evoca paffuti cherubini accoccolati su soffici nuvole color ardesia. La medesima aura di pace celestiale aleggia sull’ipnotico raga Ode to Street Hassle. “C’è qualcosa che non va… Non era una band fatta su misura per i fan di Stooges e Velvet Underground?” È quanto vien da pensare all’ascolto di Transparent Radiation, piece estatica di classicheggiante levità. Con i suoi arpeggi cristallini e gli struggenti fremiti di violino, sembra infatti il prodotto di un ensemble da camera in stato di grazia. Chitarre deliziosamente sfilacciate, leggiadre frasi di sax e diafane tessiture vocali si intrecciano in Feel So Good: cos’è, un soul partorito sotto il sole chiazzato di lsd della west coast? Nembi di fuzztone e saette di feedback tornano protagonisti in Things’ll Never Be the Same, garage aritmico – batteria assente come in gran parte degli altri brani – al crocevia tra Stooges e Tangerine Dream. Basso e chitarre acustiche piroettano sciolti e decontratti su un esile filo d’organo nel languoroso blues Come Down Easy (i Velvet Underground in versione softcore). In Call The Doctor, le chitarre acidule e vibratili di Pierce e Kember - i Ravi Shankar della sei corde – svolazzano come iridescenti libellule. Se The Perfect Prescription giungeva a rasentare il cielo, il successivo Playing Whit Fire (1988) si accomoda in una delle sue suite più lussuose. Psichedelia stupefatta e anelito di pace si fondono in un astratto soundpainting che irradia l’abbacinante luce delle icone sacre, in una ambient music immateriale destinata agli edifici religiosi – chapel music è una definizione tutt’altro che azzardata – , in una soave muzak che giunge – non ce ne vogliano i sempre più numerosi buddhisti – dritta dritta dalla testa del Dalai Lama. Vocalizzi fantasmagorici e fiamme dorate di Farfisa sorvolano un adamantino ruscello di sequencer in Honey, tenero, fragile inno liturgico. Angelici arpeggi accompagnano un flebile sussurro in Come Down Softly To My Soul. Un Lou Reed in abito talare, ecco chi è Pierce in How Does It Feel? Guizzanti fuochi fatui di sequencer e remoti tintinnii di chitarra scandiscono la sua litania. Le solenni e sofisticate tessiture organistiche e gli argentei sonagli fanno di I Believe It un gospel in piena regola. Uccidere i propri idoli potrebbe condurre alla forca, dunque è bene rispolverare gli amplificatori: gli Stooges e il loro proto-punk nevrastenico sono di nuovo omaggiati in Revolution, un’inestricabile matassa di distorsioni su un drumming da infarto. E, à la manière de Iggy, Pierce blatera: “I’m so sick… I’m so tired…” Lo stesso Pierce – lo avrete inteso ormai, abbiamo a che fare con un formidabile pasticheur – resuscita il Jim Morrison più ieratico in Let Me Down Gently. Incantevole acquerello astratto tutto ciondolii, ronzii, palpiti e tremori, il brano è attraversato qua e là da una carezzevole brezza melodica. In So Hot (Wash Away All Of My Tears), ballata folkeggiante dall’incarnato di porcellana, l’intreccio di basso e chitarre acustiche evoca una ghirlanda di rose dai corroboranti effluvi. “I'm just trying not to panic and freak out”, direbbe un imberbe studente di Oxford. Gli Spacemen 3, senza barba anche loro, ma con un debole per le sostanze psicotrope, dissentono a riguardo. Devastante Katrina psych-noise che tutto travolge con le sue furenti distorsioni, Suicide si contende con Reccurring Dreams – sconnessa e torrentizia improvvisazione prog-jazzcore degli Husker Du – lo scettro di più eccitante e potente trip musicale degli anni Ottanta. Lord Can You Hear Me, una cantilena gospel spruzzata di sax, chiude trionfalmente l’album.

 


 

ASCOLTI

  Spaceman 3, Sound Of Confusion, Fire Records, 2013.
  Spaceman 3, Playing With Fire, Aip /bomp, 2003.