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LETTURE / BRASILE, TERRA DEL FUTURO


di Stefan Zweig / Elliot, Roma, 2013 / pp. 244, € 18,50


 

Dall'Austria felix all'Eden carioca

di Roberto Pacifico

Il Brasile “è il paese con il più grande avvenire del mondo intero!”. “Il Brasile è il Paese Verde per antonomasia: proiettato nel futuro, speranzoso […]. Peccato che non sia mai andato oltre” (Amado, 2010). Questo scambio di battute tra due personaggi del primo romanzo di Jorge Amado, O país do Carnaval (Il paese del Carnevale), pubblicato nel 1931, riassume il perenne alternarsi di aspirazione e disincanto che ha caratterizzato il sogno brasiliano di una grandezza, intesa come sviluppo e prosperità, chiaramente visibile sull’orizzonte degli ideali, eppure sempre lontana dal realizzarsi. Bene, il sogno sembra essersi avverato, a giudicare dai reportage della stampa internazionale che fotografano un paese in crescita economica e miglioramento sociale, con un ruolo di primo piano sui mercati. Nel paese del futuro il futuro è finalmente arrivato: Brazil, the country of the present, come la rivista Exame titola l’edizione speciale 2010 (Calabrò, 2011). Settima economia del mondo (nel 2050 sarà la quarta, dopo Cina, India e Usa, secondo stime Pwc), il Pil del Brasile ha superato quello italiano e spagnolo, e nel 2013 si prevede sorpasserà la Gran Bretagna. Non è più una nazione che trae profitto soltanto dall’enorme ricchezza della sua terra, ma si rafforza anche in settori industriali e tecnologici ad alto valore aggiunto: “Cos’hanno in comune gli aerei delle flotte regionali di Alitalia, Lufthansa, Airfrance, Continental? E gli hamburger di Mc Donald’s e Burger King, le birre Budweiser e Stella Artois, buona parte del cemento e dell’acciaio delle costruzioni statunitensi? E i fazzoletti di carta in Cina e i sandali preferiti di Fanny Ardant? Sono tutti prodotti brasiliani. Di multinazionali e imprese esportatrici brasiliane, le cui marche sono ancora pressoché sconosciute ai consumatori europei e statunitensi, ma i cui prodotti sono già parte della vita quotidiana in gran parte del mondo” (ibidem).

Il mito del Brasile país do futuro comincia ufficialmente proprio da Brazilien, ein Land der Zukunft (Brasile, terra del futuro), il saggio che Stefan Zweig (Vienna 1881-Petropolis 1942) scrisse nel 1941, libro a metà tra documento e reportage, nel quale l’autore racconta la storia e l’economia del Brasile, dalla sua scoperta, il 22 aprile 1500, ad opera del portoghese Pedro Álvares Cabral, fino al 1930, quando la popolazione brasiliana superava i quaranta milioni di abitanti (oggi sono circa 198 milioni) e Getulio Vargas (uno degli statisti più celebri nella storia del Brasile) era il presidente della Repubblica federale. A lui si deve, fra l’altro, la prima codificazione del diritto sul lavoro con la Clt-Consolidação das Leis do Trabalho, e sua è la creazione, nel 1952, di Bnde-Banca Nacional de Desenvolvimento Econômico, e l’anno dopo di Petrobras, l’ente pubblico oggi più che mai protagonista dello sviluppo brasiliano, soprattutto dopo la scoperta, nel 2006, dei giacimenti petroliferi “pre-sal” di Tupi, al largo di Rio de Janeiro: per sostenere gli investimenti ha varato nel 2010 il più grande aumento di capitale della storia (70 miliardi di dollari).

Zweig descrive l’economia attraverso l’epopea delle commodities e delle miniere (zucchero, tabacco, cotone, cacao, caffè, caucciù e quindi gomma, per non parlare di oro, diamanti, ferro), regine di grandi cicli produttivi che hanno fatto del Brasile una potenza nel commercio internazionale: “Come il XVII secolo grazie allo zucchero, come il XVIII secolo grazie all’oro e ai diamanti, così anche il XIX secolo produce uno di questi miracoli grazie all’inaspettata ascesa del caffè. Dopo il ciclo dello zucchero o dell’oro bianco, dopo il ciclo del vero oro, si inizia col caffè il ciclo dell’oro bruno a cui sottentrerà per breve tempo il ciclo dell’oro liquido, ossia della gomma”. Cicli economici che hanno modellato anche la storia delle grandi città brasiliane: Rio de Janeiro e San Paolo, le due calamite del Brasile, l’una culturale e turistica, l’altra economico-finanziaria, Belo Horizonte, capitale dello stato di Minais Gerais, famoso per le sue miniere (by the way, Dilma Rousseff, attuale presidente del Brasile, è mineira), Salvador de Bahia, scrigno antico delle tradizioni e della storia di questo paese, “la città delle chiese e delle feste, la Roma del Brasile”; e Brasilia, metropoli avveniristica voluta da Juscelino Kubitschek, presidente dal 1955 al 1960, progettata da Oscar Niemeyer e Lucio Costa, capitale del Brasile dal 1961. Città che raccontano la storia e i cambiamenti economico-sociali di questa nazione e ne rispecchiano le molte anime spesso contrastanti: “I grandi mutamenti dell’economia brasiliana da un prodotto all’altro (i cosiddetti cicli produttivi) assumono contemporaneamente l’aspetto di migrazioni interne e di spostamenti dell’equilibrio della popolazione, tanto che, in un certo senso, questi cicli, invece che dagli oggetti della produzione, potrebbero essere denominati dalle città e dalle province che hanno creato. L’era del legno, dello zucchero e del cotone ha popolato il Nord, ha creato Bahia, Recife, Olinda, Pernambuco e Cearà. Minas Gerais è stata popolata dall’oro, Rio de Janeiro dovrà la sua grandezza alla venuta del re con la sua corte, San Paolo andrà debitrice della sua fantastica ascesa al caffè, Manaus e Belem dovranno il loro improvviso fiorire al ciclo, rapido e transitorio, della gomma”. Fra l’altro, si collega al legname l’origine più accreditata del termine Brasile che deriverebbe da pau (albero) brasil dove brasil viene da brasa, brace in portoghese. Ma una delle etimologie più suggestive riporta al Paradiso terrestre. Come scrive José Luíz del Roio (Ceccato, 2006), era diffusissima in Irlanda una leggenda celtica secondo la quale alcune dee avevano abbandonato la dimora abituale e, addentratesi nell’Atlantico in cerca del luogo ideale, lo trovarono in un’isola di nome Breasail o Hy-Breasail, che in gaelico significa paradiso. Secondo un’altra leggenda, questa volta cristiana, San Brandano, durante un viaggio nell’Atlantico, scoprì finalmente quell’Eden da cui furono cacciati i nostri progenitori Adamo ed Eva, e lo battezzò Breasail. E visto che siamo in tema, ricordiamo una breve storia che illustra molto bene l’orgulho brasiliano. Il terzo giorno della creazione, dopo aver fatto il Brasile, il Signore non resiste alla tentazione di vantarsi un po’ con uno degli arcangeli; quest’ultimo, stupito dal fatto che Dio avesse messo in un solo luogo foreste immense, i fiumi più lunghi del mondo, magnifiche catene montuose, baie e spiagge incantevoli, e che avesse donato una terra immune da terremoti, guerre e gravi inondazioni, e oltretutto ricca di minerali preziosi, e di una natura generosa di frutti e prodotti, domandò: “Ma è giusto, Signore, dare tutto questo a un unico paese?”. E Dio rispose: “Tu aspetta di vedere la gente che ci metterò dentro”. L’aneddoto è ripreso da John Dos Passos (2012), all’inizio del libro che raccoglie le sue corrispondenze dal Brasile per la rivista americana Life tra il 1948 e il 1962. Una storia che forse Zweig non conosceva, ma che riflette l’orgoglio (non la presunzione) di essere nati in uno dei paesi più belli della Terra, se non proprio nel più bello: c’è persino un verbo, ufanar, “vantarsi”, che ha dato origine a un movimento politico e letterario, l’ufanismo, ispirato dal titolo di un’opera di Alfonso Celso, Por que me ufano pelo meu país. E d’altronde, come già diceva Jorge Amado, quando si è di fronte alla bellezza di una mulatta è inevitabile pensare che, se Dio avesse un passaporto, sarebbe senza dubbio brasiliano.

Se agli occhi di Zweig il Brasile presentava tutti gli aspetti naturali del Paradiso, non poteva forse immaginare, almeno non nel 1941, il ruolo di protagonista nell’economia mondiale che avrebbe assunto sessant’anni dopo, nell’era (2002-2011) di Luiz Inácio “Lula” da Silva che con le sue riforme ha messo “il gigante incatenato” sulla strada diretta verso la crescita, la modernità e una distribuzione più equilibrata della ricchezza e dei consumi. Ed era di là da venire anche la bossa nova, lo stile musicale nato nel 1958 (stesso anno del primo mondiale di calcio vinto dalla nazionale verdeoro, con l’esordiente Pelé), grazie alla quale Antônio Carlos Jobim e Vinicius de Moraes avrebbero creato uno dei simboli internazionali del Brasile insieme al calcio, al Carnevale, alla bellezza delle donne e delle spiagge. Stereotipi che ancora oggi identificano questa nazione che, con i suoi 8,3 milioni di kmq, è il quinto paese più vasto del mondo dopo Russia, Canada, Cina e Stati Uniti. Stereotipi tutto sommato positivi, anche se “il Brasile soffre da sempre di una lettura travisata, esotistica, come se la bellezza del paesaggio, il meticciato, l’esuberanza naturale fossero di impedimento allo svilupparsi di serie correnti culturali. Insomma, una lettura con la puzza sotto il naso, che a ben vedere continua tuttora, secondo cui Brasile significa unicamente futebol, bossanova, spiagge, mulatte, qualcosa di vagamente peccaminoso che attrae, ma in fondo non merita grande approfondimento” (Riva, 2012).

L’analisi di Zweig sfugge a queste visioni oleografiche. Non però, e giustamente, alla bellezza dei luoghi e dei paesaggi. Sono i colori, l’atmosfera di una terra misteriosa e solare al tempo stesso, la vastità, la varietà, la ricchezza della natura, a colpire lo scrittore austriaco: “Con la sua forma di grande arpa che curiosamente riproduce con le linee dei suoi confini il profilo di tutta l’America meridionale, questa terra dal punto di vista del paesaggio ha tutto, montagna, costa, pianura, foresta, zona pluviale, ed è fertile in ognuna di queste sue specificazioni. Ha un clima che può essere tropicale, subtropicale ed europeo […]. Il Brasile possiede o alimenta i più grandi fiumi del mondo: il Rio delle Amazzoni e il Plata. I suoi monti ricordano in molte parti le Alpi, e con la vetta più alta, l’Itatiaia, raggiungono i tremila metri, ossia l’altitudine delle nevi perenni. Le sue cascate, Iguaçu e Sete Quedas, superano di parecchio quelle assai più famose del Niagara e vanno considerate tra le maggiori riserve di elettricità nel mondo. Città come Rio de Janeiro e San Paolo, ancora nel pieno di un meraviglioso sviluppo, possono già oggi rivaleggiare con le consorelle europee per lusso e bellezza. La varietà del paesaggio è sconvolgente, e la molteplicità della flora e della fauna continua da secoli a sorprendere gli scienziati”. L’immagine della grande arpa, intuizione tutt’altro che fantasiosa (fate caso al profilo del Brasile sulla carta geografica), evoca atmosfere rarefatte e paradisiache.

L’aspetto notevole del libro è la sua sincerità. L’ottimismo che lo permea non è di maniera: realtà e fenomeni drammatici come il colonialismo, lo sfruttamento e la schiavitù, abolite solo nel 1880, l’accumulo di ricchezza nelle mani di pochi fazendeiros, la povertà e la scarsa istruzione (ancora nel 2005 si stimavano in Brasile 20 milioni di analfabeti), non tolgono mai dalla penna di Zweig quel sorriso discretamente benevolo e un po’ innamorato che rende la narrazione così seducente. Eppure, prima di conoscerlo meglio e stabilirvisi, lo scrittore, come d’altronde tanti altri nella sua epoca, considerava il Brasile “una di quelle repubbliche sudamericane che difficilmente si possono distinguere le une dalle altre; paese dal clima tropicale e malsano, afflitto da instabilità politica e problemi finanziari, male amministrato e semidisabitato nelle città costiere, però dotato di un meraviglioso paesaggio e di molte possibilità ancora inesplorate. Una terra, dunque, per emigranti disperati e per coloni, ma in nessun modo un paese nel quale si potesse arricchire lo spirito”. Questo era il preconcetto, diffusissimo allora, e non del tutto scomparso oggi, che albergava anche in Zweig quando nel 1936 fu invitato in Brasile mentre si trovava in Argentina per un ciclo di conferenze. “Poi sbarcai a Rio, e fu una delle esperienze più impressionanti che abbia mai vissuto”. L’incontro con Rio de Janeiro fu la scintilla dell’amore a prima vista: “Nessuno che sia stato qui una volta se ne va volentieri […]. La bellezza è rara; e la bellezza perfetta è quasi un sogno. Soltanto questa città fra tutte le città realizza questo sogno, anche nelle ore più cupe. Non v’è sulla terra una città più consolatrice”.

Bellezza e crescita. Due aspetti di rado conciliabili nello sviluppo delle civiltà. Zweig riconosce nel Brasile il paese dove tale connubio è possibile e in Rio de Janeiro la città più adatta a celebrarlo. L’enorme potenziale di crescita economica e sociale del Brasile trova un solido punto di osservazione nella mescla, la mescolanza e convivenza delle più diverse nazionalità che hanno contribuito nell’arco di mezzo millennio a formare l’identità di un popolo che è uno e molti nello stesso tempo. Il caratteristico meticciato, una delle peculiarità brasiliane più ammirate da Zweig, ha prodotto creature di notevole bellezza e armonia: “È raro trovare in un’altra parte del mondo donne e bambini più belli che fra i meticci, figure delicate dai movimenti aggraziati; i volti dalla carnagione scura degli studenti esprimono allo stesso tempo intelligenza, misurata modestia e gentilezza”. Parlare di melange etnico è ancora oggi difficile in Europa (in Italia il matrimonio misto è un fenomeno pressoché inesistente e nemmeno socialmente accettato), figuriamoci ai tempi di Zweig che lasciava il Vecchio Continente insaguinato e anguicrinito, invaso dal furore epilettico della guerra, strafatto di miti ariani e razziali. Anzi, Zweig pensava proprio all’Europa, quando scelse quel titolo visionario: Brasile terra del futuro versus Europa continente votato all’autodistruzione. Che cosa c’era di più lontano dalla mentalità brasiliana, si chiedeva Zweig, del razzismo e della violenza persecutrice?

Visto che abbiamo toccato il tema del melting pot, del coacervo armonico di più etnie e popoli, una delle peculiarità tipizzanti del Brasile, vale la pena riportare alcune valutazioni di Zweig, che ci sembrano ancora oggi pertinenti, anche se risentono di una visione forse troppo benevola e ottimistica. Lo scrittore ricorda che, considerando la struttura etnologica, se mai fosse prevalsa la furia nazionalistica e razzistica europea, il Brasile avrebbe dovuto essere il paese più diviso e fratricida del mondo. Invece ci si accorge che “tutte queste razze, che già per il colore si distinguono visibilmente, convivono serenamente […]. Il Brasile ha dimostrato l’assurdità del problema razziale che affligge il mondo europeo nel modo più semplice possibile ovvero ignorandone la presunta validità. Mentre nel nostro Vecchio Mondo regna più forte che mai l’aberrante pretesa di allevare uomini di ‘razza pura’, come fossero cani o cavalli da corsa, la nazione brasiliana riposa da secoli unicamente sul principio della mescolanza libera e illimitata, della completa parificazione di nero, bianco, bruno e giallo”. C’è indubbiamente un po’ di idealismo in queste parole (la differenza tra neri e bianchi non manca in Brasile, anche se filtrata nella modalità del classismo sociale ed economico), ma nella sostanza è vero che una popolazione sviluppatasi da una continua miscelazione dei tre ceppi fondamentali (africano ed autoctono, americano ed europeo con tutte le variazioni alimentate dai flussi migratori dal Vecchio Continente: tra 1887 e 1930 si sono trasferite in questa terra quasi 4 milioni di persone, in larga parte dall’Europa), non potrebbe, nemmeno volendo, essere razzista né coltivare i miti eugenetici o ariani che hanno alimentato la rabies ideologica nazi-fascista.

Nato a Vienna da famiglia ebraica benestante, padre industriale tessile, madre italiana, Stefan Zweig viaggiò molto, in Europa, in Nord Africa, negli Stati Uniti e in America Latina, spinto da un cosmopolitismo che era in parte insito nella sua origine ebraica, ma anche tratto peculiare della società asburgica il cui impero aveva unito sotto lo stesso stemma identitario un crogiuolo di popoli, lingue e culture quanto mai diversificato, anche se ben lontano dalla mescidanza etnica nella quale si è formato il popolo brasiliano. In questo senso è da leggere il primo capitolo del suo libro autobiografico Die Welt von Gestern (Il mondo di ieri) nel quale descrive la felicità della Vienna capitale dell’impero asburgico, fondata sui valori della sicurezza, del lavoro, dell’intelletto, del merito, basata sull’ordine e sulla certezza del domani. Zweig ricorda quel periodo a cavallo dei due secoli XIX e XX come una fase irripetibile di gioia e certezza, di genialità e produttività, di lavoro e passione per la vita. Insomma, il paradiso terrestre. Nessuno avrebbe mai immaginato l’orrore della Grande Guerra.

Nella monografia sul Brasile Zweig ritrova la prospettiva di una nuova felicità dall’altra parte dell’oceano, in una terra esuberante, dominata dal senso sconfinato di una natura che ammutolisce lo spettatore con la bellezza, l’immensità degli spazi e la varietà e l’intensità dei colori, e nello stesso tempo lo rasserena e lo riconcilia con se stesso, una nazione dalle dimensioni di un continente che sconcerta per la compresenza armonica degli opposti, diversamente dall’Europa dove le diversità generano disarmonie e conflitti. Zweig scopre in Brasile, e ne rimane folgorato, quel paradiso di cui in Europa avrebbe ritrovato le tracce solo ritornando con la memoria all’Austria felix dell’impero asburgico, culla della sua giovinezza e della sua prima formazione. Un autentico benessere si fonda sul perfetto connubio di arte e vita: salute, disciplina, buone condizioni sociali, ma anche gusto per l’esistenza e suoi piaceri. Non si può essere felici pensando solo al lavoro, alla ricchezza, all’accumulazione, al successo. Esemplare questo ricordo viennese: “Si viveva bene, si viveva con facilità e spensieratezza in quella vecchia Vienna e i tedeschi del nord guardavano noi vicini del Danubio con un poco d’irritazione e disprezzo, perché invece di essere attivi e di tenere un rigido ordine, godevamo la vita, mangiavamo bene, ci divertivamo a feste e teatri e per di più facevamo ottima musica. Invece della famosa abilità e attività tedesca, che ha finito per amareggiare e turbare l’esistenza di tutti gli altri paesi, invece di questa cupida smania di sorpassare tutti gli altri e del correre avanti, a Vienna si amavano le placide chiacchierate, i comodi incontri, lasciando che ognuno vivesse a modo suo […]. Vivere e lascia vivere era il celebre motto viennese” (Zweig, 2012). E come poteva Zweig non innamorarsi del Brasile? In quale altro luogo del mondo avrebbe potuto trovare quella filosofia di vita che gli ricordava la dolce Vienna?

Riferendosi all’abitudine tutta occidentale di ridurre l’economia a statistiche e tabelle Zweig annota nell’introduzione: “Abbiamo visto con i nostri occhi come anche una perfetta organizzazione non ha potuto impedire a determinati popoli di indirizzare questa organizzazione unicamente nel senso della bestialità invece che in quello dell’umanità e che la nostra civiltà europea, per la seconda volta nel corso di un quarto di secolo [allude alla seconda guerra mondiale, ndr], ha messo in pericolo il proprio futuro. È per questo motivo che non abbiamo più intenzione di stilare una graduatoria che prenda in esame soltanto la potenza d’urto industriale, finanziaria e militare di un paese, ma vogliamo misurare il grado di sviluppo di un popolo in base al suo senso pacifico e al suo atteggiamento umano. In questi ambiti, che a mio parere sono fondamentali, il Brasile mi sembra uno dei paesi più esemplari e quindi più amabili del mondo. È un paese che odia la guerra e anzi praticamente non la conosce […]. Autosufficiente, il Brasile non ha né velleità di conquista né tendenze imperialistiche […]. Unico fra le nazioni iberiche, il Brasile non ha conosciuto sanguinose persecuzioni religiose e sul suo suolo non hanno mai fiammeggiato i roghi dell’Inquisizione”.

Queste considerazioni rimangono valide, anche se il Brasile è molto cambiato da allora. Desta, per esempio, una certa sorpresa il fatto che Zweig descriva, in uno dei capitoli più belli, quello dedicato a Rio de Janeiro, le passeggiate per Copacabana o in alcune favelas senza il minimo accenno al timore di aggressioni e rapine, eventi abituali e frequentissimi nel Brasile odierno.

Purtroppo il destino, questo macabro e stupido Mangiafuoco cui Dio, stanco e deluso dalla sua creazione, ha delegato il compito di amministratore delegato, ha voluto che Stefan Zweig si togliesse la vita, nel 1942, a Petropolis, città nell’entroterra montuoso di Rio de Janeiro, dove si era trasferito con la seconda moglie per porre fine alla depressione “nella certezza di andare incontro a una grande tranquillità e a una gran pace”, come spiegò la prima moglie Friederike Maria Zweig nel commentare la lettera inviata da Stefan il 18 febbraio 1942.

Ma prima di uccidersi insieme alla seconda moglie, Zweig lasciò, nella stessa lettera, quale ultimo omaggio al país maravilhoso e come “suggel ch’ogn’uom sganni” (Inferno: XIX, 21), parole di sincera riconoscenza per il paese che lo aveva accolto: “Prima di togliermi la vita di mia propria volontà e in completa lucidità, avverto la necessità di compiere un ultimo dovere: quello di ringraziare nella maniera più sentita questo meraviglioso paese, il Brasile, che ha rappresentato per me e per la mia opera un rifugio così amichevole e ospitale”.

Pace, libertà, tolleranza, possibilità di sviluppo, nuovi stimoli. Questo cercò Zweig in Brasile: “Persino oggi che passa per una dittatura, il Brasile conosce più libertà e soddisfazioni individuali della maggior parte dei nostri paesi europei. Perciò è guardando all’esperienza del Brasile, un paese orientato unicamente a uno sviluppo pacifico, che nutriamo la speranza di poter costruire una grande civiltà e di poter trovare finalmente la serenità in questo mondo devastato dall’odio e dalla follia”.

L’urgenza di indicare al lettore un nuovo ubi consistam geografico, umano e culturale dove questa speranza di serena palingenesi poteva pienamente realizzarsi, ha rappresentato il maggior stimolo per la stesura di Brasile, terra del futuro: “È per questo motivo che ho scritto questo libro”.


 

LETTURE

  AA.VV. Brasile la stella del Sud, “Quaderni speciali di Limes”, Gruppo editoriale L’Espresso, Roma, supplemento a n. 3/2007.
Amado Jorge, Il paese del Carnevale, Garzanti, Milano, 2010.
Barba Bruno, Bahia, la Roma negra di Jorge Amado, Milano, Unicopli, 2004.
Alighieri Dante, la Divina Commedia, Milano, Hoepli, 1993.
Calabrò Antonio e Calabrò Carlo, Bandeirantes (il Brasile alla conquista dell'economia mondiale), Laterza, Bari, 2011.
Ceccato Beppe, Brasile, De Agostini, Novara, 2006.
Ceccato Beppe, Brasile, National Geographic, Gruppo editoriale L’Espresso, Roma, 2007.
Dos Passos John, Sulle vie del Brasile, Donzelli, Roma, 2012.
Niemeyer Oscar, Il mondo è ingiusto, a cura di Alberto Riva, Mondadori, Milano, 2012.
Petrobelli Carlo e Pugliese Elisabetta, L’economia del Brasile. Dal caffè al bioetanolo: modernità e contraddizioni di un gigante, Carocci, Roma, 2007.
Stegagno Picchio Luciana, Breve storia della letteratura brasiliana, Il nuovo Melangolo, Genova, 2005.
Riva Alberto, Il bambino che disegnava per aria, in Niemeyer Oscar, Il mondo è ingiusto, cit.
Veloso Caetano, Verità tropicale, musica e rivoluzione nel mio Brasile, Feltrinelli, Milano, 2003.
Zweig Stefan, Il mondo di ieri (ricordi di un europeo), Mondadori, Milano, 2012.