qfacebook
image

 

VISIONI / SATANTANGO


di Béla Tarr / Eye Division, 2012


 

L'Apocalisse immanente

di Patrizia Simone


 

Béla Tarr è un regista atipico per i nostri tempi. Tra gli autori più innovativi del cinema d’autore europeo, questo ungherese visionario, eroe moderno nel mare della postmodernità, ha lavorato per anni sfidando durissime condizioni produttive e giungendo a elaborare un inconfondibile stile autoriale.

Osannato dalla critica (Susan Sontag in testa), Tarr si è guadagnato la partecipazione a festival internazionali e una retrospettiva al MOMA. La sua opera ha scatenato accesi dibattiti e diviso il pubblico in detrattori e cinefili adoranti. Insomma un regista di culto, benché sconosciuto ai più.

Nel 2011, quando Il cavallo di Torino (A torinói ló) ottenne il Premio della Giuria alla Berlinale, Tarr annunciò di non voler più girare film. Una dichiarazione interpretata sulle prime come provocatoria ma che invece sarebbe perfettamente coerente con l’indole perfezionista del regista. L’annuncio dell’abbandono del set ha forse contribuito ad accrescere l’attenzione per l’opera di Tarr, soprattutto da parte del distributore italiano: da pochi giorni è disponibile la versione dvd sottotitolata in italiano del suo primo film, Nido familiare (Családi tüzfészek, 1979) mentre nel corso del 2012 sono usciti L’uomo di Londra (A londoni férfi, 2007), Satantango (Sátántangó, 1994), Le armonie di Werckmeister (Werckmeister harmóniák, 2000) e Perdizione (Kárhozat, 1987).

Analizzando l’ampio arco della filmografia di Tarr (attivo dal 1977) la maggior parte dei critici ne distingue tre periodi (oppure due periodi intervallati da una fase di transizione): il primo va da Nido familiare fino a Rapporti prefabbricati, mentre Macbeth (1982) e Almanacco d'autunno (Öszi almanach, 1984) segnano la fase intermedia che conduce al terzo periodo, che parte da Perdizione passando per il capitale Satantango.

Molti sottolineano la discontinuità stilistica e sostanziale tra il primo periodo di realismo socialista, caratterizzato dall’interesse documentario, e la fase “matura”, segnata dall’estetizzazione contemplativa e da una maggiore consapevolezza artistica, nonché dal ricorso costante al piano-sequenza. Per evitare fuorvianti schematismi manualistici ci sembra opportuno seguire un illuminante suggerimento ermeneutico fornito dallo stesso Tarr, che se da un lato mette in guardia da periodizzazioni rigide e artificiose, dall’altro ribadisce l’unicità di ogni singolo film: “Nel mio cinema non esistono periodi diversi. Respingo sempre tale categorizzazione, perché mi sembra che i critici facciano sfoggio di una certa pigrizia parlando di un primo periodo, di un secondo e di un terzo. […] Questi film effettivamente derivano uno dall’altro. Perciò, non sento tra essi nessuna rottura, scissione o cambiamento di rilievo. So con precisione in che cosa il primo film si differenzia dal secondo o dal terzo, dato che si tratta di un processo continuo” (Pinter, 2002). Una precisazione che evidenzia una visione d’insieme nel cinema di Tarr e permette di coglierne l’unitarietà complessiva. I cambiamenti che investono il registro formale riguardano a ben vedere l’intera Weltanschauung personale del regista: inequivocabilmente in Tarr la forma corrisponde, in una perfetta identità, al contenuto.

Sin dall’esordio, le relazioni umane costituiscono il perno del cinema di Tarr: sono i legami personali e familiari a scatenare conflitti, rancori e tensioni. Ed è proprio sull’analisi dei rapporti familiari che si concentrano i primi lungometraggi: la convivenza forzata con i suoceri in Nido familiare, il difficile ménage familiare dello scapestrato protagonista di L’outsider (Szabadgyalog, 1981), la coppia in crisi di Rapporti prefabbricati (Panelkapcsolat, 1982).

Le scelte stilistiche e linguistiche di questo periodo, caratterizzato da un forte ricorso ai primi piani e dall’uso della camera a mano, rimandano al linguaggio del documentario, o meglio della docu-fiction. L’organizzazione del montaggio alterna piani-sequenza a momenti più frammentati durante i dialoghi, servendosi spesso dell’ellissi. Più che la narratività viene privilegiato il personaggio con le sue contraddizioni; per il regista “i personaggi e la realtà sono sempre più interessanti delle storie” (ibidem).

Pur trattandosi di film fortemente “parlati” la preminenza del dialogo, lungi dal costituire una celebrazione del linguaggio, non sottolinea il contenuto delle parole, quanto piuttosto la loro funzione. Infatti le conversazioni prolungate tra i personaggi raramente si concretizzano in un vero risultato comunicativo. In Nido familiare lo si vede, ad esempio, nel confronto della protagonista con l’impiegato dell’Ufficio Alloggi, simile ad un dialogo tra sordi. Allo stesso modo le liti tra marito e moglie in Rapporti prefabbricati sono totalmente improduttive e finiscono per non sortire alcun effetto, come se la conclusione fosse già determinata a priori.

Le figure che popolano questi primi film sono uomini e donne devastati dalla precarietà esistenziale o dalla banalità della vita quotidiana. Esemplare in questo senso la scena finale di Rapporti prefabbricati: dopo l’ennesima rottura la coppia cerca di ritrovare la normalità acquistando una nuova lavatrice, a sancire l’illusione, già presente in Nido familiare, che i beni materiali possano fornire una soluzione all’infelicità umana.

Tuttavia l’interesse di Tarr per la realtà, come verrà confermato dai successivi capitoli della sua filmografia, non è meramente documentario e non va letto (solamente) nell’ottica di una critica sociale e politica. Quello che interessa al regista è indagare le motivazioni dell’agire umano, che si rivelano immancabilmente ben poco nobili: “dietro alle cose anche più grandi si trovano sempre le motivazioni più volgari, come interesse, sesso, desiderio di potere, soldi e così via. Io mi sono sempre interessato alle motivazioni, è una costante riconoscibile del mio cinema” (ibidem).

L’approfondimento di questo interesse per le motivazioni segnerà lo spostamento da un livello “sociologico” ad una prospettiva più ampia, per approdare a una riflessione di carattere ontologico.

Dopo il film per la televisione Macbeth (1982), esercizio accademico composto di due sole sequenze, di 5 e di 67 minuti, Tarr si lascia alle spalle il taglio documentaristico dei primi film, anche se successivamente continuerà a dare spazio a momenti di improvvisazione degli attori e a privilegiare la presa diretta del suono. L’orientamento verso il piano-sequenza prende forma in Almanacco d’autunno (1984). Interamente girato in interni, il film è una claustrofobica riflessione sull’inferno dei rapporti umani: i personaggi che circondano l’anziana Hédi agiscono, ancora una volta, spinti solo dal calcolo e dall’interesse.

La padronanza del mezzo cinematografico raggiunge qui momenti di grande virtuosismo: la macchina da presa si muove lentamente all’interno dell’appartamento fatiscente, auscultando e frugando in ogni anfratto del campo visivo. Il sapiente lavoro sulle luci contribuisce a creare una singolare atmosfera barocca mentre la sperimentazione cromatica, giocata sulle tonalità del rosso e del blu, rende il film un unicum nella produzione di Tarr se si pensa al rigore del bianco e nero che caratterizzerà i film successivi. Almanacco d’autunno è inoltre l’opera che segna l’inizio della collaborazione artistica con il compositore Mihály Víg, il quale, oltre a comporre le colonne sonore interpreterà Irimiás in Satantango. Tarr ha sempre riconosciuto l’importanza del lavoro di squadra nella realizzazione dei suoi film, tanto che ne parla tout court come di lavori collettivi. Una factory creativa che annovera, oltre a Mihály Víg, Ágnes Hranitzky (moglie di Tarr e montatrice dei suoi film a partire da L’outsider) e lo scrittore László Krasznahorkai, autore del romanzo da cui verrà tratto Satantango. Krasznahorkai collabora con Tarr già per la sceneggiatura di Perdizione, la cui vicenda ruota attorno al classico nucleo narrativo del triangolo amoroso: un uomo ossessionato da una donna sposata, che, per vendetta, denuncia lei e il marito alla polizia. Come Béla Tarr non perde occasione di ripetere, l’obiettivo del suo cinema non è raccontare storie, per cui l’aspetto puramente diegetico dei suoi film passa in secondo piano e ci si focalizza su circostanze, umori, stati d’animo. In Perdizione i personaggi sono prigionieri del tempo e dello spazio, che è un luogo neutro, senza direzioni: una terra desolata perennemente bagnata dalla pioggia e percorsa dai cani randagi. Ovunque si scorgono fango, pozzanghere e acqua scrosciante. Perdizione segna il consolidamento di quelle scelte di messa in scena che contraddistinguono il marchio Tarr: l’utilizzo convinto del bianco e nero, lente carrellate e calibratissimi piani-sequenza. Realizzato con un budget minimo, viene presentato alla Berlinale, riscuotendo notevole successo.

Maestoso film sul tempo e sull’inerzia umana, Satantango rappresenta a buon diritto l’opera-cardine del percorso artistico di Béla Tarr. Quest’estenuante maratona cinematografica della durata di oltre sette ore, divise in circa centocinquanta inquadrature, conserva la struttura in dodici capitoli del romanzo omonimo di Krasznahorkai (sei in avanti e sei indietro, come nello schema del tango). La storia è ambientata in un fangoso villaggio della pianura ungherese: quando la fattoria collettiva che dava lavoro ai pochi abitanti viene dismessa, tutti i desideri e i progetti sembrano paralizzati: si vive di espedienti, ingannandosi l’un l’altro. L’unico spiraglio è la possibilità di fuggire grazie alla piccola somma di denaro a cui hanno diritto gli abitanti del villaggio dopo il fallimento della fattoria. Irimiás, misterioso e carismatico personaggio tornato alla fattoria dopo una lunga assenza, saprà approfittare del disagio e dell’inettitudine di questi ultimi. Il riscatto offerto da Irimiás, mefistofelico falso profeta il cui nome suona come un sardonico rovesciamento del Geremia biblico, è solo un atroce inganno, come lo sono l’evasione attraverso l’ebbrezza, la sessualità o il ballo.

La vicenda non viene raccontata in modo lineare e da un unico punto di vista, ma attraverso diverse prospettive che si sovrappongono, così che uno stesso evento viene rappresentato da diverse angolazioni. Basti pensare che il nucleo visivamente più rappresentativo del film, il tango satanico del titolo, ricorre per ben tre volte nel corso della visione. È lo stesso procedimento che troveremo in Elephant (2003) dello statunitense Gus Van Sant, il quale ha apertamente dichiarato l’influenza esercitata da Béla Tarr su suoi film (Van Sant, 2001). Come già in Perdizione il tempo della realtà è letteralmente assorbito dalla macchina da presa, si pensi alle lunghe camminate sotto la pioggia o la sequenza iniziale sul bestiame del cortile. Attraverso l’uso massiccio del piano-sequenza, costruito su lunghe e lentissime carrellate, il film obbliga lo spettatore a instaurare un rapporto diverso con il tempo della fruizione cinematografica. Il risultato della forte staticità di Satantango è un’amplificazione della percezione sensoriale, sia sul piano visivo che su quello sonoro. Come ha giustamente osservato il critico Gábor Gelencsér, quelli di Tarr sono film “dell’attenzione intensiva” (Gelencsér, 2002): il cosiddetto tempo morto non è usato per motivi legati alla sperimentazione formale ma per rendere visibile il corso del tempo. Allo stesso modo, anche la musica di Mihály Víg lavora sullo stesso fronte, giocando sulla sottrazione e la ripetizione ipnotica di brevi sequenze di note. Con il successivo Le armonie di Werckmeister, ispirato al romanzo La malinconia della resistenza di Krasznahorkai, Tarr raggiunge un esito di straordinaria intensità espressiva. La storia è ancora una volta ambientata in un’imprecisata città della pianura ungherese. Qui il giovane János, venditore di giornali onesto e naïf, si occupa delle incombenze quotidiane per il signor Eszter, anziano uomo di musica tutto preso dall’elaborazione di una nuova teoria sull’armonia (il titolo del film si riferisce proprio ad Andreas Werckmeister, compositore e teorico musicale vissuto nel Seicento). La comunità viene sconvolta dall’arrivo di un circo che trascina un container misterioso, che ospita la carcassa di una gigantesca balena. Improvvisamente, senza nessuna ragione, la tensione raggiunge il parossismo: la furia esplosiva divampa e conduce ad uno scoppio di violenza e distruzione.

Facendo ricorso ad un bianco e nero più rigoroso che mai e agli abituali piani-sequenza, viene tratteggiata una storia gravida di mistero, in cui le cose accadono, almeno apparentemente, senza motivo. Nella folgorante apertura si mostra una ricostruzione del sistema solare nell’osteria dove János coordina un gruppo di ubriaconi facendoli girare su se stessi mimando il movimento dei pianeti. Questo incipit introduce i tratti vagamente poetici del personaggio di János, un giovane “idiota”, parente ungherese del principe Myškin: ingenuo, onesto, sensibile. Il giovane si ritrova suo malgrado testimone di una serie di conflitti, violenze e lotte di potere, che prendono la forma del ricatto, dell’imposizione autoritaria o della distruzione cieca, come quando una folla inferocita, armata di spranghe e bastoni, saccheggia senza motivo un ospedale. La macchina da presa inquadra frontalmente la folla con un camera-car, retrocedendo man mano che questa avanza, precedendola, da una distanza costante, con l’effetto paradossale che le persone stiano ferme, o meglio che marcino sul posto. A Gus Van Sant che gli chiede di rendere conto della durata spropositata dell’inquadratura (circa 5 minuti di marcia), Tarr risponde, con un candore che non ha niente di affettato o di ironico, che semplicemente “era una strada lunga” (Van Sant, 2001). A colpire sono anche gli elementi sonori: il rumore cadenzato dei passi, regolari come in una marcia militare, e soprattutto il silenzio con cui vengono perpetrati gli atti vandalismo e violenza. Nessuno grida o impreca. Nemmeno i pazienti dell’ospedale, quando vengono inspiegabilmente attaccati, piangono o lanciano urla, particolare che rende la scena ancora più violenta ed agghiacciante.

La marcia notturna e il pestaggio danno l’impressione di procedere sotto ipnosi, in uno stato di trance. Una trance da cui i partecipanti si scuotono solo alla vista del corpo nudo di un vecchietto, curvo e rinsecchito nella vasca da bagno dell’ospedale, immagine epifanica e lancinante che è uno dei momenti più forti del cinema di Béla Tarr.

Adattato con la collaborazione di Krasznahorkai dall’omonimo romanzo di Georges Simenon, L’uomo di Londra riesce a vedere la luce dopo una serie di interruzioni e difficili vicende produttive. Nel 2005, dopo due giorni di riprese in Corsica, Tarr viene costretto a sospendere i lavori a causa del suicidio del produttore Humbert Balsan. Solo dopo molte peripezie vengono trovati i fondi per finanziare il film, che viene presentato a Cannes nel 2007.

La storia è ambientata in Corsica ed offre l’occasione per tornare ancora una volta su un tema che Tarr ha frequentato con ossessione: la corruzione di una società materialista e meschina. Dopo aver assistito ad un omicidio, il protagonista, Maloin entra in possesso di una valigia piena di soldi, ritrovandosi così coinvolto in un caso intricato e pericoloso. Grazie alla splendida fotografia di Fred Kelemen, ex allievo di Tarr, le immagini di apertura del film sono geometrie di luci quasi astratte. Man mano che i lenti movimenti di macchina sfidano il buio distinguiamo, nelle ombre inquietanti di un elegantissimo bianco e nero, un molo, una nave o le linee di una ferrovia.

Come d’abitudine, l’omicidio e la vicenda di Maloin sono poco più di un pretesto per compiere l’ennesimo viaggio nelle vite degli uomini. Ancora una volta, l’obiettivo di Tarr vuole registrare impressioni e sfumature più che raccontare fatti. La lentezza del movimento di macchina esercita una paradossale forza ipnotica, un fascino che non deriva solo dalla sfida radicale ai canoni cinematografici, ma dal sospetto che, oltre l’occhio della macchina da presa, il fuori campo nasconda qualcosa di mostruoso e inafferrabile.

Con Il cavallo di Torino, il regista ungherese produce forse la sintesi più concisa (e non solo per la durata) della sua poetica cinematografica. Ispirato al celebre episodio della vita di Friedrich Nietzsche che si commuove davanti a un cavallo frustrato dal cocchiere, il film relega la vicenda del filosofo a semplice antefatto per concentrarsi sulla vita del cocchiere e di sua figlia. Nel magnifico piano-sequenza d’apertura, la faticosa traversata nel vento del cocchiere che torna a casa ci immerge subito in un universo che ha poco a che vedere con la storia della filosofia. Nel modesto rifugio dove il cocchiere abita con la figlia, la vita viene scandita da una serie di operazioni sempre uguali (vestire il padre, prendere l’acqua al pozzo, preparare i pasti, imbrigliare il cavallo). Giorno dopo giorno questa routine di gesti indispensabili alla sopravvivenza diventa sempre più difficile e stancante: il cavallo rifiuta di alimentarsi, l’acqua del pozzo sparisce misteriosamente. Padre e figlia tentano di fuggire via ma, stremati dal vento che infuria, sono costretti a desistere. Capolavoro finale del percorso tarriano, Il cavallo di Torino si avvale di un apparato formale cesellato alla perfezione per dare forma, in 146 minuti e trenta piani-sequenza, ad un’inarrestabile discesa agli inferi, che viene scandita nell’arco di sei giorni come un’apocalisse immanente.

I film di Béla Tarr sono una sfida che può rivelarsi sorprendentemente gratificante per chi sappia raccoglierla. L’occhio artificiale della macchina da presa ci conduce a un’indagine ontologica sul mezzo cinematografico, attraverso una dimensione temporale espansa che oltrepassa la superficie del visibile. Il cinema, sembra suggerire Tarr, può essere una lente per guardare il mondo. In modo libero, coraggioso e non allineato.

 


 

LETTURE

  Pinter Judit (a cura di), Quando si comincia a girare un film nuovo, si parte sempre da zero – Intervista a Béla Tarr, in Angelo Signorelli Angelo e Vecchi Paolo (a cura di), Béla Tarr, Bergamo, Film Meeting, 2002.
Van Sant Gus, The Camera is a Machine, in AA.VV., Béla Tarr, Filmunió Hungary, Budapest 2001.
Gelencsér Gábor, “Danse macabre”, ovvero esiste la vita prima della morte. La filosofia delle immagini in movimento nell'arte di Béla Tarr, in Angelo Signorelli Angelo e Vecchi Paolo (a cura di), Béla Tarr, Bergamo, Film Meeting, 2002.

 


 

VISIONI

Selezione delle opere di Béla Tarr citate:

  Nido familiare, Eye Divison, 2013.
Szabadgyalog, Outsider, Facets Video, 2005 (sott. inglese).
Panelkapcsolat, The Prefab People, Facets Video, 2005, (sott. inglese).
Macbeth, Facets Video, 2005 (sott. inglese).
Öszi almanach, Almanac of Fall, Facets Video, 2006 (sott. inglese).
Perdizione, Eye Divison, 2012.
Le armonie di Werckmeister, Eye Divison, 2012.
L’uomo di Londra, Eye Divison, 2013.
The Turin Horse, Artificial Eye, 2012 (ed. inglese).