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VISIONI / COSMOPOLIS


di David Cronenberg / 01 Distribution, 2012


 

Dal barbiere per una sfumatura altra

di Fabio La Rocca

La figura dell’uomo-macchina e la contaminazione tra organico e meccanico sono una particolare suggestione della raffigurazione cinematografica. L’opera di David Cronenberg in questo senso ci offre molteplici spunti attraverso un approccio particolare al “corpo” e alla sua congiunzione con la tecnica e la macchina.

La macchina, nel nostro immaginario, ha sempre esercitato fascino sull’uomo, che la vedeva come una possibilità di immortalità. Il movimento futurista di Filippo Tommaso Marinetti, in effetti, si fondava sull’evoluzione tecnologica come una specie di religione della macchina. Macchina come divinità, mito futurista e delle espressioni avanguardiste. Allo stesso modo il cinema fin dagli inizi è contaminato dall’influenza tecnologica e dalla rappresentazione meccanica, com’è possibile riscontrare in un certo cinema sperimentale dove si manifesta il desiderio di rendere la macchina protagonista. Nel tempo questa macchina assumerà delle sembianze sempre più umane dando vita a vere “creature”. Si pensi all’idea del mostro, del Golem o di Frankenstein, in cui si comincia a intravedere la relazione tra uomo e macchina, che in certa misura ritroviamo condensata nelle figure cinematografiche emblematiche di Metropolis di Fritz Lang o Blade Runner di Ridley Scott.

Se un certo tipo di letteratura (come quella cyberpunk o più in generale quella di fantascienza) ci suggeriva un’unione tra corpo, tecnologia e macchina, un nuovo rapporto organico che permettesse l’estensione delle capacità umane, nella sua trasposizione cinematografica questo universo di contaminazione intraprende una riflessione sulla penetrazione e sulla fusione della macchina con e nel corpo umano, naturalmente, con la logica conseguenza di influenzare i fattori sociali. Questa modalità di fusione diventa una mutazione che si opera sul, e attraverso il, corpo umano e costituisce una caratteristica fondamentale del cinema di Cronenberg, che mette in scena un corpo non più rappresentativo dell’unità dell’essere, ma che si sdoppia e si mescola ad altri elementi che lo contaminano e trasformano. Il tema dell’uomo-macchina in David Cronenberg si costruisce sull’idea di una contaminazione progressiva e virale che la macchina opera sull’uomo. Nel suo universo filmico il regista non cerca il mostruoso nell’alieno, ma all’interno dell’uomo stesso trattando la metamorfosi con un’attitudine alquanto “medicale” e non ideologica. Nei suoi primi film, come Crimes of the Future (1970) ad esempio, l’idea centrale è quella di un corpo che cerca di affermare la sua sessualità ribellandosi alle forze che lo controllano. Cronenberg quindi si interessa alle “creature”, al destino dei suoi Frankenstein; e nel personaggio di Max in Videodrome (1983) possiamo riscontrare il contrasto tra la razionalità della tecnica e il suo inconscio, la sua parte istintiva. Ed è il contatto-scontro con la macchina, ad esempio in La zona morta (1983) e Crash (1996), che permette al corpo di liberare le sue pulsioni telepatiche e sessuali. Secondo Gianni Canova (2002), Cronenberg penetra le immagini al fine di cercare il movimento, la mutazione. Attraverso questa estetica, corporeizza la tecnica nel suo universo cinematografico. Un universo che bisogna considerare come rivelatore di un sostanziale cambiamento della visione del corpo e della macchina, dunque di una nuova pelle e carne proiettata nello schermo, che riflette i cambiamenti del corpo umano divenuto sempre più un ibrido.

È in questa direzione che possiamo interpretare l’ultima pellicola, Cosmopolis, adattamento del romanzo di Don DeLillo. Un’ossessione visionaria e caleidoscopica del corpo e della macchina sullo sfondo del teatro urbano di New York in cui si “muove” il percorso della limousine bianca come forma esperienziale. Abbastanza fedele al romanzo (anche se bisogna segnalare la mancanza dell’intensa descrizione di New York al mattino presente nelle pagini iniziali), Cronenberg presenta la lettura della crisi economica basandosi sulla sua classica dicotomia uomo-macchina. È da questo elemento che il regista canadese interpreta la riflessione contemporanea sul potere della tecnica e della macchina: da un lato il corpo diventando immagine sullo schermo si separa dalla sua natura vivente, dall’altro le immagini stesse sono corporeizzate. Questa corporeizzazione si concretizza attraverso la costruzione di una bolla: la visione della limousine bianca iperlussuosa con la quale il golden boy (Robert Pattinson) Eric Packer attraversa la Grande Mela in pieno caos e in cui sfilano e sono ospitati i vari personaggi che partecipano alla scena. La limousine come scena teatrale, come palcoscenico, diventa quindi un oggetto estetico che, sfuggendo alla classica visione stereotipata del fascino estroso, diventa protagonista e abita l’universo dell’immaginario contemporaneo con una sua potenza simbolica. Un vero feticcio che si trasforma in decoro/personaggio sia nella New York di Cosmopolis che nella Parigi di Holy Motors di Leos Carax. La similitudine tra i due film, o meglio la presenza e l’uso della limousine come personaggio, rispecchia questo immaginario simbolico della macchina che al di là delle sue classiche funzioni di veicolo diventa l’abitacolo che racchiude il vissuto. Una sorta di ibridismo riproduce l’interesse di un’estetica cinematografica che riecheggia una qualità dell’immaginario contemporaneo, del vissuto quotidiano, in cui, seguendo Bruno Latour (2009) c’è una proliferazione degli ibridi che investe un insieme di campi, dall’artistico al sociale, dallo storico all’economico, dalla tecnologia alla medicina. Potremmo in sostanza dire che, nel cambiamento di paradigma nel passaggio storico-sociale dal moderno al postmoderno, c’è un’implosione delle forme ibride che contraddistingue il mutamento ontologico e culturale. Ibridismo, quindi, che è un atto di trasformazione e modifica di oggetti, corpi, pratiche sociali che cambiano l’approccio e la visione delle forme di costruzione del vissuto e della visione del reale.

In questa riflessione sulle forme ibride, e, in particolare, sull’influenza della tecnica, ci appare evidente la prossimità tra le proposte cinematografiche di Cronenberg e alcuni studi sulla nostra contemporaneità. In tal senso l’influenza di Marshall McLuhan ci sembra appropriata. Se per McLuhan i media sono un’estensione del corpo umano, i personaggi di Cronenberg comunicano con i corpi in quanto la mente ne è un’estensione. Partendo dall’idea che la struttura biologica del corpo determini la sua intelligenza e le sue sensazioni, McLuhan afferma che un’alterazione di questa struttura è all’opera in quanto la tecnica produce i suoi effetti direttamente sul corpo. Per questo i media sono estensioni del sistema nervoso. Si può quindi osservare, ad esempio, che la macchina da scrivere è un’estensione del corpo di Bill ne Il pasto nudo, i personaggi di Crash necessitano di “prolungarsi” con e nelle vetture per provare desiderio e avere una relazione sessuale, la limousine bianca in Cosmopolis diventa la fusione identitaria e l’estensione del corpo di Packer.

Insomma, nei film di Cronenberg l’uomo si ibrida per sognare d’essere un uomo nel momento in cui la possibilità di creare il suo ambiente diventa la possibilità di creare se stesso. Steven Shaviro (1995), riprendendo le teorie di McLuhan, parla (partendo dall’analisi specifica del film The Fly) di “biologia postmoderna” mostrando l’innovazione dell’idea dell’ibrido che si crea dal mélange come una forma di virus. Ebbene questo mélange lo possiamo riscontrare nella bolla della limousine di Cosmopolis, dove il corpo umano si estende e si riflette modificando lo spazio interno secondo i propri desideri così da rispecchiare la creazione del proprio universo. Universo formato da una riconfigurazione nel tempo reale degli schermi e della spettacolarità, delle connessioni incessanti e dei flussi digitali che scandiscono il quotidiano di questa “bolla”. Cosmopolis è quindi un film di interni, quasi una suggestione di design “corporale” dove il desiderio si incarna nella struttura stessa dell’abitacolo che modifica le esperienze sensoriali. Un interno confinato in un luogo ben prestabilito, ma comunque in movimento, in transito. Ed è in questo attraversare la città di New York che si “muove” la particolarità della vita quotidiana di Packer e dei suoi “ospiti”. Un movimento lento che si percepisce nell’isolamento acustico (il lavoro sul suono è qui notevole) e luminoso della macchina, dove il rapporto con l’esterno si vive nel flusso informativo dei molteplici schermi e attraverso i vetri fumé che orientano lo sguardo verso la società che sta esplodendo nel caos, nella guerriglia urbana, nelle manifestazioni di protesta; il tutto in una forma urbana carnevalesca. Si tratta dunque di un sdoppiamento tra interno ed esterno, tra chi è sistema e chi anti-sistema, il tutto avvolto nel movimento-mutamento.

Nel cinema cronenberghiano si può affermare che tutto è in mutamento: i corpi degli attori sono instabili così come il loro punto di vista e, allo stesso tempo, le immagini. Quello che interessa Cronenberg è essenzialmente la mutazione, insistendo quindi sull’idea di processo, di work in progress che condiziona le corporeità. E in un certo senso questo si avvicina alla nozione di “macchine desideranti” elaborata da Gilles Deleuze e Felix Guattari (1975), quel divenire macchina del corpo umano, oppure in un’altra direzione di mutazione a un “uomo semplificato” (Besnier, 2012) che vive l’esistenza con una molteplicità di protesi simboliche performanti, che si adatta agli stimoli della macchina. Possiamo evidenziare questa sensazione, ad esempio, nei rapporti sessuali che vengono consumati nella limousine bianca di Cosmopolis, dove Packer agisce in maniera meccanica e discute di temi divergenti come distaccato dal corpo in effusione. Sembra quasi che l’erotismo in questo caso sia piuttosto orientato verso i rivestimenti in pelle della limousine, ai vetri fumé e alle luci degli schermi che erotizzano lo spazio.

Facendo un parallelo, il corpo in Crash non suscita più voyeurismo o erotismo, sono invece le macchine che sono guardate e toccate con eccitazione arricchendo le coppie umane di un terzo soggetto meccanico indispensabile al desiderio. Allo stesso modo nel rapporto tra Max e Niki in Videodrome, la protagonista raggiunge il suo oggetto del desiderio soltanto attraverso lo schermo del suo televisore, fondendosi con una macchina che costituisce l’elemento che libera il desiderio diventando molle e sinuosa come un corpo femminile. O ancora ne Il pasto nudo, Joan, Bill e la macchina da scrivere fanno l’amore a tre! In Cronenberg l’interesse per l’ibrido uomo-macchina è dunque un elemento centrale, quasi iniziatico. In Crash le vetture non sono elementi esterni al corpo dei personaggi, i quali non desiderano altro che aggiungerle ai loro corpi, fondersi e fusionare con esse nell’atto della copulazione. In Cosmopolis la limousine è l’involucro, il cocoon, la matrice che a tratti respinge e ingoia il suo abitante e le persone da lui ospitate per istanti precisi, e dediti ognuno a una specificità, ad accompagnare l’esistenza quotidiana di Packer: il giovane geek esperto di finanza digitale, la venditrice di arte (una sublime Juliette Binoche), la consulente teorica, una sorta di guru filosofico, il medico con il suo check-up esistenziale e la rivelazione della prostata asimmetrica, l’amico del rapper con cui condividere la tristezza della morte nelle immagini del funerale che sfila in maniera spettacolare (da apprezzare la corporeità della danza dervish che accompagna il feretro con il corpo del rapper esposto alla folla) in contemporanea alla rivolta nelle strade di New York… E inoltre i personaggi “esterni”, quelli del “di fuori”, che paradossalmente sono, al contrario, i più “vicini” in una ricerca di rapporto “affettuoso”: la moglie bionda luminosa che Packer non conosce nell’intimità e nelle attitudini e che sembra essere un prolungamento virtuale di un desiderio represso; il barbiere che rispecchia il viaggio di un ritorno alle origini, alle radici; l’autista che si rivela allo sguardo nel finale raccontando il suo vissuto; il suo alter ego della scena finale con cui condividere la pulsione di morte in un rapporto creatore/creato. Paura della morte ma allo stesso tempo anche ricerca della morte come forma di liberazione e di comprensione dell’essere che possiamo evincere nell’andare all’incontro con il suo potenziale assassino: quel Benno (Paul Giamatti) che sembra un refuso umano reso perdente e abbandonato da quello stesso mondo, la finanza, che lui ha contribuito ad alimentare, ma che Packer, il suo “creatore”, ex-datore di lavoro, ha confinato nell’oblio e nella depressione. Due personalità, due corpi assimilati dall’asimmetria della prostata come segno di un destino comune, di un riavvicinarsi emozionale di una perpetua insoddisfazione dell’essere che, in sostanza, sembra creare una vera relazione “normale”, una reciprocità emozionale: “Volevo che lei mi salvasse” oppure “Perché mi hai abbandonato?” come naturale interrogativo o invocazione di redenzione della creatura verso il proprio creatore per giustificare l’atto da compiere o il vuoto senza fine.

Lo spettatore dell’universo cronenberghiano si trova allora in una posizione di confusione, in un’esperienza visuale e corporale (bisogna dire che tutti i sensi nell’atto della visione entrano in gioco) in cui diventa difficile distinguere l’immagine “realista” da quella allucinatoria. Lo spettatore, in questa confusione tra reale e allucinatorio, prova una sensazione di vertigine che rende tutto ambiguo, mutante, doppio, fino a porsi degli interrogativi su se stesso e sulla nostra propria realtà. Inoltre nell’universo cronenberghiano è possibile riscontrare la parte dell’incosciente che prende corpo nelle figure. Sembra che Cronenberg immagini una continua congiunzione tra tecnologia prodotta dall’Io (la parte razionale) e paura e angoscia proprie dell’Es (l’incosciente). Una lettura di Sigmund Freud ovviamente compare anche in Cosmopolis, dove Eros si scontra con Thanatos e vede sorgere questa pulsione di morte e di abbandono che accompagna l’attraversamento urbano esistenziale di Packer. Si può altresì evidenziare lo sdoppiamento di personalità tra l’interno e l’esterno della limousine: una volta fuori Packer sembra denaturalizzato, perso, tanto il suo corpo e le sue sensorialità sono legate all’involucro della macchina che gli permette di far entrare l’esterno per assorbirlo. Particolare sembra essere anche l’accento messo sugli odori che simboleggiano desideri, come l’odore dei soldi, del sesso e del sangue. Desiderio, paura, rabbia si corporeizzano dunque sullo schermo suggerendoci che tutto quello che nel cinema di Cronenberg si fa corpo non è altro che una parte di noi. Dare corpo alle pulsioni nella forma dell’ibrido uomo-macchina che confonde i limiti non solo nella diegesi ma anche nei personaggi protagonisti di questa mutazione in divenire; come nello spettatore e, forse, nell’allucinazione dello stesso attore.

Tra l’altro la traversata cosmopolitana di Packer, che sembra una specie di deambulazione o flânerie automobilistica, o meglio un cruising urbano in forma di caleidoscopio nei meandri di una città-mondo, la Babilonia peccaminosa dell’Occidente, è un attraversamento allucinogeno che lungo il percorso si riempie di simboli dal punto di vista delle emozioni e degli effetti sociali. Riscontriamo quindi il tema della metamorfosi, così come le angosce, le paure, ma anche la redenzione. Il tutto in uno scenario esterno apocalittico, di crisi, di un capitalismo forsennato, di dominio finanziario, di oscillazioni del cyber-capitalismo ridotto a un sistema interno, la limousine che come metafora potrebbe racchiudere vari sensi della società. L’essere posseduti più che possedere (ricordiamo in proposito il personaggio Tyler Durden incarnato da Brad Pitt nel Fight Club di David Fincher quando afferma: “Le cose che possiedi finiscono per possederti”) è allora un’incarnazione della dicotomia uomo-macchina. La limousine come “essere” da cui non ci si può staccare e separare, che sembra liberare lo spirito dall’atmosfera schiacciante e soffocante dello spettro del capitalismo che invade la società e allo stesso tempo ci proietta nell’immobilità contro il caos. Siamo ancora nell’ottica della dualità, tema sul quale Cronenberg regge il filo della trama esistenziale. Qui, in Cosmopolis, troviamo le dicotomie controllo-liberazione, simmetria-asimmetria, razionalità-istinto, materiale-immateriale, interno-esterno, capitalismo-anticapitalismo. Elementi essenziali nel determinare lo sviluppo, freddo e cinico, della traversata nel cuore della città e quindi nel cuore del mondo, della società, per raggiungere una libertà interstiziale nella diagonalità di flussi e spazi lisci di Manhattan: il quartiere a sud per un semplice taglio di capelli. Questo “taglio” è ben più profondo ed espressivo: è la ricerca di se stessi, un ritorno dell’enfant perdu, metafora di un ritorno all’intimo e all’affettivo. Quindi il barbershop come luogo esistenziale, vero, di un altro tempo, quello del ricordo che aiuta a vivere e a riflettere su se stessi, luogo della conversazione banale e fondatrice del vissuto quotidiano al di là delle peripezie del cyber-capitalismo e dell’immaterialità della finanza. Anche questa è un’asimmetria?

L’universo cinematografico di Cronenberg, in sostanza, è prossimo all’esperienza sensoriale piuttosto che allo spettacolo, che invece presuppone una distanza. Questo ci fa pensare ai “film concerto” di cui parla Laurent Jullier (1997), cioè film che propongono un’esperienza corporale e sensoriale a uno spettatore la cui ricezione non è né apatica né sovraeccitata, ma prossima all’esperienza dell’ebbrezza. Ci sembra, dunque, che il cinema cronenberghiano, e in particolare Cosmopolis, si avvicini a questa nozione, poiché lo spettatore ha la possibilità di tuffarsi nella conoscenza della propria identità uomo-macchina e, conoscendo il processo di fabbricazione dell’immagine, trova in questa esperienza una possibilità di esplorare la propria cultura in una definizione dell’umanità che redistribuisce le tipologie dell’uomo e della macchina in un tragitto dell’attualità e della condizione socio-umana.

 


 

LETTURE

Battestini Paul-Marie, Crash. Pensée d’un corps, pensée d’une peau, Dreamland, Collection Cine Films, Paris, 2002.
Besnier Jean-Michel, L’homme simplifié. Le syndrôme de la touche étoile, Fayard, Paris, 2012.
Canova Gianni, David Cronenberg, Il Castoro, Milano, 2002.
Cronenberg David, Entretienne avec Serge Grunberg, Cahiers du Cinéma, Paris, 2000.
Deleuze Gilles, Guattari Felix, L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino, 1975.
DeLillo Don, Americana, Il Saggiatore, Milano, 2000.
DeLillo Don, Cosmopolis, Einaudi, Torino, 2003.
Jullier Laurent, L’écran postmoderne. Un cinéma de l’allusion et du feu d’artifice, L’Harmattan, Paris, 1997.
Latour Bruno, Non siamo mai stati moderni. Saggio d’antropologia simmetrica, Elèuthera, Milano, 2009.
McLuhan Marshall, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967.
McLuhan Marshall, Fiore Quentin, Il medium è il messaggio, Feltrinelli, Milano, 1968.
Shaviro Steven, David Cronenberg, in Doom Patrols: a theoretical fiction about postmodernism, Serpent’s Tail, London, 1995.

 

VISIONI

Una selezione dell’opera di David Cronenberg:
Stereo, in Collected Screenplays 1, Faber & Faber, 2002.
Crime of the future, in Collected Screenplays 1, Faber & Faber, 2002.
Il demone sotto la pelle, Storm Video, 2008.
Rabid sete di sangue, Cecchi Gori Home Video, 2011.
Brood. La covata malefica, Eagle Pictures, 2007.
Scanners, Eagle Pictures, 2007.
Videodrome, Universal Pictures, 2011.
La mosca, Cecchi Gori Home Video, 2010.
Inseparabili, Cecchi Gori Home Video, 2010.
Il pasto nudo, Eagle Pictures, 2011.
M. Butterfly, Warner Home Video, 2009.
Crash, Cecchi Gori Home Video, 2000.
eXistenZ, Cecchi Gori Home Video, 2000.
Spider, Cecchi Gori Home Video, 2006.
A History of Violence, 01 Distribution, 2010.
La promessa dell’assassino, Eagle Pictures, 2008.
A Dangerous Method, Rai Cinema - 01 Distribution, 2012.