facebook
image

 

VISIONI / PIETÀ


di Kim Ki-duk, Kim Ki-duk Productions, 2012


 

Kyrie eleison risuona nel suburbio

di Livio Santoro

Dalle nostre parti abbiamo conosciuto per bene il regista sudcoreano Kim Ki-duk grazie a una straordinaria tripletta di pellicole che, tra il 2003 e il 2005, ha fatto incetta di premi e sensazione in alcuni dei più rinomati festival europei del cinema. Abbiamo spalancato gli occhi di meraviglia seguendo l’incedere ciclico di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2004), rintracciando quel confine sottile, impalpabile o forse addirittura immaginario che separa la colpa dalla redenzione; abbiamo apprezzato, in Ferro 3. La casa vuota (2005a), una narrazione fatta sostanzialmente di silenzio, di toni sommessi e di passioni irrinunciabili che si mimetizzano nella docilità di una calda bruma senza sostanza; abbiamo ragionato, dopo aver visto La samaritana (2005b), con occhi e riflessioni che non ci appartengono, sullo strazio della riconciliazione nello scenario dei più drammatici disastri familiari. In tutti e tre i casi l’ambivalenza della ricezione ci ha spinti a offrirci contemporaneamente al pianto del dolore e alla delicatezza di quella morbida e dolce sensazione che è la commozione: che affondi in un’aria severa e imperturbabile, conciliante e taciturna oppure accecata e furente non importa. Kim Ki-duk, in poche parole, ha disegnato per noi il profilo della vera compassione, quella più intima, che rifugge dal melenso e ci restituisce un’immagine di noi, per quanto apparentemente distante, in grado di metterci di fronte alla pratica monacale di sospendere il giudizio sul mondo, nella consapevolezza del fatto che bene e male, in fin dei conti, sono soltanto due parole al di là delle quali c’è soltanto il patire. Due cose poco importanti che, per dirla brutalizzando Voltaire, non destano né mai desteranno l’interesse degli dèi; che poi questi ultimi siano mai esistiti, esistano o siano solo un’invenzione… ebbene non è affar nostro.

Proprio in questo modo abbiamo preso confidenza con Kim Ki-duk, per accoglierlo immediatamente all’interno di una benedetta schiera di registi rari: quelli non direttamente impegnati nel soddisfare i facili umori del grande pubblico ma che allo stesso tempo non stanno tronfi a bearsi nella spocchia di maniera e nell’autocompiacimento di chi, con la competenza di un linguaggio esoterico e tecnico, parla soltanto a una circoscritta platea di uditori competenti.

Già prima del triennio 2003-2005, tuttavia, il cineasta coreano aveva raccontato l’ambivalenza di cui è sempre costituita la compassione, quando per esempio, nel film del 2001 Bad Guy (2009), aveva messo noi spettatori a guardare il marcio dal di dentro, dalla parte del “cattivo” e delle cose “cattive”, proponendoci all’estremo di provare a solidarizzare sia con il primo che con alcune delle seconde. Oppure come quando nel 2000, in Isola (2008), la dimensione insanabile di un’esistenza colpevole e inadeguata pervade ogni cosa, vestendo il romanticismo, l’abnegazione dell’amore e il darsi all’altro di una spessa coltre di dolore e di sostanziale solitudine.

Per dirla con secchezza, sembra che Kim Ki-duk, in questo caso a partire proprio da Isola, abbia voluto sempre provare a sorpassare le facili contrapposizioni della morale e dell’esperienza, ponendo su uno stesso piano termini che in generale sono vicendevolmente oppositivi (il bene e il male, appunto, ma anche il lecito e l’illecito, la giustizia e il suo contrario, la colpa con la pena, il perdono e la vendetta, i cuscini e le catene…) per risolverne le contraddizioni rintracciando le innumerevoli sfumature di quei confini che altrimenti li separerebbero nettamente. E ha fatto tutto questo anche attraverso la più efficace strategia narrativa che sia concessa in simili situazioni: il silenzio, la supremazia dei toni sommessi e della quiete. Una strategia che ci porta all’interno della stessa narrazione, non solo come osservatori, ma come personaggi noi stessi. Infatti tutte le pellicole fin qui brevemente ricordate seguono in sostanza proprio tale registro, muovendosi all’interno di uno scenario originariamente né soltanto distensivo o gradevole (bensì a volte anche truculento, a tratti, e sanguinario), che tuttavia nella necessità di imporsi, in quanto realtà sottostante di cui forse siamo fatti noi esseri umani, diventa lirismo, si fa poesia dell’immagine, armonia del non detto. Probabilmente proprio per questo motivo Kim Ki-duk ci ha sempre presentato, essenzialmente, una galleria di protagonisti chiusi in se stessi, più muti che logorroici, quasi rifugiatisi nell’autismo, in cui l’impossibilità del “dirsi” oltrepassa anche l’incomunicabilità pirandelliana dell’equivoco e del mascheramento. Quello di Kim Ki-duk è allora un mondo in cui sembra non sussistere autentica comunicazione, un mondo di cui quest’ultima non può affatto esserci, e non tanto perché non si abbiano le parole per dire le cose agli altri, quanto perché la gravità del vissuto dei personaggi che lo popolano impone quasi wittgensteinianamente l’assenza di lessico, lasciando che sia il silenzio a farla da triste, forse severo, padrone. E allora è solo il patire che, seppure in maniera sottile, fragile e (direbbero alcuni) perversa, lega a vicenda coloro che hanno avuto la disgrazia di nascere umani in questo mondo.

Così anche in Pietà (pellicola recentemente premiata d’oro che ha raccolto il maggior plauso della Mostra del Cinema di Venezia), partendo dalla contraddizione di un’altra apparente opposizione di concetti, fatta di dannazione e redenzione, a reggere le travi del racconto ci sono i temi del silenzio, della confusione tra la violenza più estrema e la delicatezza più soffice, della pervasività della colpa, delle ambiguità della vendetta. Seguendo la strada già solcata nei suoi film precedenti, Kim Ki-duk traccia in Pietà la fase ultima (ovvero più recente) della parabola intimista del dolore presentandoci un palcoscenico valido per tutti i suoi possibili spettatori, uno scenario da suburbio industriale come ne hanno tantissime città maledette, uguali a Oriente come a Occidente, al Nord e al Sud del mondo. Qui in una serie angusta di officine striminzite, tra i dedali del dismesso labirinto verticale e orizzontale del sobborgo, una pletora di esseri umani abbrutiti che maneggia strumenti rumorosi e obsoleti sta messa a fare i conti con una vita non certo fortunata (una vita che è pur sempre vita, direbbero i più ottimisti). Esseri umani viscidi o serici, sgradevoli o amabili: non importa. Quando sospendi il giudizio non importa. Resta la polvere delle officine; resta la loro sofferenza. Resta la scia antracite che si porta appresso un marcio capitalismo nella definizione degli spazi e dei ruoli delle persone, dell’anima loro. È esattamente in questo quadro che si muovono i due veri protagonisti di Pietà, fondativamente saturi di dolore: lo scagnozzo iperviolento di uno strozzino che, per incassarne il denaro delle assicurazioni sugli infortuni, strazia, percuote, ammorba e amputa i debitori insolventi, messi tutti a popolare quelle officine di periferia che fanno da scenario di cornice al film; la madre di uno di questi ultimi debitori insolventi, inconsolabile orfana del figlio. Entrambi, come tutti – in un modo o nell’altro – costituiti dal dolore, negheranno se stessi concimando la terra con il proprio sangue: per la vendetta, per il perdono, per la colpa, per la redenzione. Entrambi, nella narrazione, si muovono tra un ruolo e l’altro, mascherandosi a noi che stiamo da quest’altra parte dello schermo. Lui è solo, non ha che i suoi debitori e lo strazio che provoca loro (nemmeno è proprietario, come l’operaio alienato di Karl Marx, del denaro che riscuote, ossia il prodotto del suo lavoro). Lei è sola, non ha che la sua perdita filiale e l’impellenza della vendetta che la determina. Entrambi vivono nel vuoto degli affetti sradicati dall’intollerabile violenza di un contesto per cui gli esseri umani non sono altro che carne e calorie. Nel rapporto che tra loro si va creando entrambi vivranno una tensione incestuosa talmente raccapricciante da arrivare perfino a sfiorare la tenerezza. Tensione che nel suo parossismo si risolverà senza soluzione, ammesso che la fine non sia una soluzione essa stessa. I protagonisti di Pietà, danzando con un incedere tremendo, cavalcano in tal modo il confine delle contraddizioni che rappresentano, contraddizioni che sono costitutive del loro mondo (che poi sarebbe anche il nostro), e provano a calcare il tragitto tortuoso che giunge fino alla salvezza: una salvezza di certo non mondana ma – e questo la rende ancor più difficile da raggiungere o soltanto da individuare – nemmeno trascendente. Una salvezza che si risolve in un tonfo sordo sprigionato dall’incontro di carne e suolo e in una scia di sangue a seguire l’asfalto umido sul far del giorno, mentre un Kyrie eleison risuona nel suburbio.

 


 

VISIONI

Filmografia selezionata di Kim Ki-duk:
 Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Cecchi Gori Home Video, 2004.
Ferro 3. La casa vuota, Cecchi Gori Home Video, 2005a.
La samaritana, Cecchi Gori Home Video, 2005b.
Isola, Minerva Video, 2008.
Bad Guy, Minerva Video, 2009.