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ASCOLTI / ESKIMO


di Residents / Ralph Records, 2012


 

Il lato oscuro dell'antropologia

di Cristian Caira

Irriducibili seguaci della “teoria dell’oscurità” attribuita al fantomatico Nicolas Senada – un guru tedesco? Captain Beefhearth? –, a tutt’oggi i Residents, dopo quarant’anni di ininterrotto e proficuo operato, seguitano a celare con cura gelosa, maniaca le loro identità. Un cocciuto piglio anti-divistico, un compiaciuto vivacchiare nel bunker dell’anonimato che li ha paradossalmente proiettati su una non poco rutilante ribalta, quella delle celebrità “invisibili”, e che ne ha di conseguenza eclissato gli irrefutabili meriti creativi. Come, dunque, la notorietà di Thomas Pynchon appare saldamente legata alla sua frigidità mediatica (nessuna liaison con radio, tv e giornali) e alla sua velata apparizione nella famigerata serie animata dei Simpson (un sacchetto di cartone rovesciato ricopre la testa del suo personaggio), e non ai funambolismi letterari in cui eccelle, così il culto dei Residents sembra fortemente in debito non tanto con le loro ardite sperimentazioni musicali, quanto con i grotteschi travestimenti dietro cui sogliono nascondersi (e così, tra il ciarpame di Carnaby Street non troverete i loro dischi, ma apocrife t-shirt che li ritraggono nel loro aspetto più comune, mascherati cioè da bulbi oculari). Capirete, pertanto, quanto sia legittimo chiedersi: l’invisibilità è davvero dettata da un imperativo “oscuro” del tipo l’artista deve mostrarsi solo attraverso le proprie opere, oppure, ipotesi subdola ma non condannabile, è legata a una strategia obliqua volta ad alimentare un alone di curiosità attorno al proprio nome? Quesito certamente non da poco, ma su cui sarà bene, per evitare che la nostra indagine perda la bussola, non arrovellarsi troppo. Un’indagine che, tentando di eludere la fatidica domanda “Chi sono i Residents?” e la conseguente messe di congetture – tra gli altri la paternità del progetto è stata attribuita a Frank Zappa, Todd Rundgren e Beatles –, vuole azzardare un rendiconto sereno delle loro impareggiabili imprese musicali – inestricabili gineprai, impasti allucinati di maleolenti detriti consumistici, aberranti manipolazioni fonetiche e calcolate stonature dilettantesche – e del solido sostrato concettuale su cui si innestano. In particolare, Eskimo (1979) – ristampato dalla Ralph Records – ci offre lo spunto per accostarci alle sbruffonate iconoclaste, agli scherzacci postmoderni, all’inesauribile fantasia e alle tragicomiche pantomime della prima fase, certamente la più ispirata della loro carriera.

Hardy Fox, polistrumentista autodidatta, e Homer Flynn, musicologo esperto di suoni quotidiani e kitsch, entrambi originari della Louisiana, sono plausibilmente i fondatori del progetto. Giunti a San Francisco nell’era trionfale dei raduni e degli acid-test, i due incominciano a sperimentare nascondendosi dietro strambi nomi da mad doctor (Vanadium Zukofsky e Tychobrahe Samuellson). Nel 1971, la Warner Bros, seppur lusingata dalla loro corte, fa la schizzinosa (il materiale è giudicato nulla più che “originale”). Il demo, su cui vi è l’indirizzo ma non il nome del mittente, viene pertanto rispedito a “Residents, 20 Sycamore St., San Francisco” (ai residenti di 20 Sycamore Street). Delusi dall’essere andati in bianco con una major, ma almeno liberatisi dall’assillo di dover trovare un nome adeguato, i Residents incominciano a battere prepotentemente la via dell’autonomia culturale. Nel giro di qualche anno fondano un’etichetta, la Ralph Records, e un’agenzia destinata a fungere da interfaccia con l’esterno mediatico, la Cryptic Corporation. Allestiscono, inoltre, un quartier generale che ospita, oltre agli uffici della Ralph e della Cryptic, una camera oscura, uno studio grafico per progettare copertine e una sala insonorizzata per realizzare film e video (nel 1976, l’album Third Reich’n Roll verrà lanciato da una fantasmagorico clip promozionale che immerge caligarismo, fantasia meliesiana e nevrastenia dadaista in un plumbeo clima post-atomico; diverso tempo addietro, invece, il progetto filmico Vileness Fats – una commedia romantica musicale ambientata in un mondo di nani con un braccio solo, durata quattordici ore (!) – era crollato sotto la sua stessa ponderosa pretenziosità).

La copertina dell’album d’esordio Meet The Residents (1974) deve aver sollevato più di un brusio di indignazione tra gli accoliti dei Beatles (non certo pochi, data l’attendibilità del tronfio proclama lennoniano “Siamo più famosi di Gesù”): i volti dei Fab Four di Liverpool – John Lennon, appunto, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr – vi si presentano duchampianamente sfigurati. Monellesco sberleffo o fiera, perentoria presa di distanza dalla musica di consumo, di cui i Beatles, naturalmente, incarnano la sacra effigie più idolatrata? Il contenuto del disco dimostra che i Residents non vogliono buttarla esclusivamente in parodia. Meno goliardici e provocatori di Zappa, al cui metodo compositivo, fondato sull’accumulo e il montaggio di elementi eterogenei, comunque si ispirano, ad essi non preme tanto lo screditamento dell’ubiqua e banale mitologia musicale, quanto lo svelamento della sua natura “mostruosa”. I cori doo-wop, le canzonette da cafè-chantant, l’easy-listening orchestrale, i jingle pubblicitari, i ritmi beat-garage e gli inni patriottici interpolati nelle loro aggrovigliate composizioni, poiché manomessi, deturpati e decontestualizzati, assumono insospettabili connotati ripugnanti. Ma le crudeli rielaborazioni di motivi popolari e il montaggio zappiano non sono gli unici elementi su cui fanno perno le amebiche, umorali e cangianti suite raccolte nell’album. Enumeriamo di seguito quelle peculiarità che, vistose e stranianti, emergono con forza al primo ascolto. Innanzitutto, il processo di disumanizzazione, o meglio di sub-umanizzazione a cui vengono sottoposte le voci. Soffocate, nasali, abbrutite, psicotiche e decerebrate, esse paiono fuoriuscire da rachitici e orripilanti freaks vampirizzati dalle più indicibili paure. Alle cupe e alienanti manipolazioni fonetiche di sorgenti sonore raccolte chissà dove, funge da contrappunto uno sterminato catalogo di esilaranti bizzarrie strumentali: bislacchi accordi di clavicembali demodè, pianismo goffo e claudicante, grossolani stacchetti funky di tromba, kazoo sbilenchi, tromboni rodomonteschi, chitarre scatenate in orge di wah-wah e progressioni latin-jazz, sax in preda a spasmi beefheartiani o a languori mediorientali, dissonanti percussioni metalliche, paludosi tam-tam equatoriali, vibrafoni striduli, imbarazzanti dialoghi tra trombette e clarinetti. Straripante di invenzioni, stili e suggestioni, Meet The Residents si configura come un esercizio ineguagliabile di musica totale. Ma c’è dell’altro. I Residents, infatti, ricorrono a un titanico massimalismo per mettere in scena, sullo sfondo di un diroccato paesaggio retro-futurista, un delirante e sconnesso resoconto di quell’umanità devoluta su cui di lì a poco deporranno la pietra tombale. In Not Available – composto nel 1974, ma, probabilmente in ossequio a qualche ignoto dogma dell’oscurità, licenziato soltanto nel 1978 – la cifra ludico-fumettistica connaturata alla loro poetica si riduce quasi a zero. A prevalere è un registro inusitatamente tragico, un’opprimente atmosfera psichica, un’aria di dolente commiato: la loro buffa e sconsolata sub-umanità si mette in ghingheri per sfilare (strisciare?) un’ultima volta. Un grandioso poema sinfonico che riesce a evocare, nel magniloquente crescendo epico di Never Known Questions, la grottesca desolazione e la solennità kitsch delle variopinte parate di James Ensor e, nel montaggio di voci angosciate di Ship’s A’going Down, la disperazione collettiva dei dannati serragli di Hieronymus Bosch. All’affresco visionario di Not Available segue Third Reich’N’ Roll (1976), un’orwelliana visione del pop da classifica come espressione del totalitarismo, con Dick Clark, conduttore del programma televisivo American Bandstand, in copertina vestito da Hitler. Swastikas on Parade e Hitler was a vegeterian, i due lunghi medley atonali che compongono il disco, presentano una carrellata di hit – Let’s Twist Again, Light My Fire, Yummy Yummy Yummy ed Hey Jude tra le altre – seviziate e coperte da sinistre sonorità belliche: sirene antiaereo, bombardamenti in picchiata, fuoco di mitragliatrici (la ristampa cd del 1988 comprende anche (I Can’t Get No) Satisfaction, sfrontata profanazione del classico dei Rolling Stones). Di fronte a questa (capziosa) operazione, la cui matrice è inequivocabilmente zappiana, non possiamo che convenire con uno dei versetti del loro Corano: “l’hit parade è il cimitero delle orecchie”. Il divertissement smaccatamente postmoderno di Third Reich’N’ Roll presagisce la parentesi “leggera” di Fingerprince (1976) e Duck Stab (1978), album in cui i Residents, pur non rinunciando agli stilemi del loro sound devoluto – arrangiamenti naif, vocalità sub-umana e ritmi spastici –, si avvicinano a una più convenzionale forma-canzone. Con Eskimo (1979), ambizioso concept dedicato agli eschimesi, si torna a fare sul serio. Un’ardua esperienza d’ascolto, un’opera disorientante di cui è difficile stabilire il vero senso: documento antropologico? Commosso tributo a un popolo in via d’estinzione? Raro esempio di ambient music artica? L’album contiene sei “gelide” vignette di vita artica. In The Walrus Hunt ad essere narrato è il rito della caccia al tricheco. Il cacciatore procede in kayak verso la preda impaurita. Le sferzanti folate di vento polare, il denso sciabordio dell’acqua, il lamento circolare del corno di narvalo e i cori direzionali delle donne lo accompagnano. Birth evoca l’incedere solitario e faticoso di una gestante verso la Grotta di Ghiaccio, dove l’Angakok (la guida spirituale) la aiuterà a partorire recitando una preghiera. In Arctic Hysteria un ipnotico strimpellio di kooa, lancinanti sibili elettronici e una formula ossessiva (Chukaroq… Chukaroq… Chukaroq) circondano una donna prossima al baratro della follia (sono soprattutto le donne, infatti, a patire l’isteria artica, il noto fenomeno indotto dalle deprivazioni sensoriali del lungo buio invernale). L’Angakok è un tipo iracondo, meglio non provocarlo. Con un fiacco tribalismo e insistiti cori nasali (Necki! Necki! Necki!) la tribù eschimese solleva dei dubbi sulle sue reali potenzialità magiche. L’uomo li interrompe con un urlo brutale, poi lancia una maledizione di cui un maelstrom elettronico lascia presagire le conseguenze. Questa è The Angry Angakok. Eccovi, invece, A Spirit Steals A Child. Il brioso vibrafono e i gridolini di giubilo segnalano che c’è eccitazione nella tribù. All’improvviso irrompono dei vagiti: un bambino giace incustodito in un igloo. Lo “spirito della foca piangente” ne approfitta e lo rapisce avvolgendolo in fasce di synth. Il padre del piccolo – imperdonabile distrazione la sua! – chiede aiuto all’Angakok. Fitto conciliabolo: che fare? Epico crescendo di tam-tam e latrati di cani: ci si dirige in slitta verso la tundra. Ecco palesarsi “lo spirito del cane” invocato dall’Angakok per liberare il bambino. Due lingue di synth si attorcigliano nell’aria: gli spiriti si affrontano. Dissolvenza (il bambino tornerà nell’igloo?). In The Festival of Death sonnacchiose percussioni, disorganici canti propiziatori, tintinni orientali e ariose trame di synth salutano il ritorno del sole (il “Festival della Morte” è una cerimonia che si tiene alla fine della lunga notte polare). Percussioni, musique concrete, elettronica e voci: ai Residents bastano questi quattro elementi per evocare vividamente la desolazione e l’ostilità del paesaggio artico, le fatiche e le speranze dei suoi abitanti perennemente imbacuccati. Eskimo è dunque una colonna sonora che non ha bisogno del film.

 


 

ASCOLTI

Gli album dei Residents usciti negli anni Settanta:
Fingerprince, East Side Digital, 1997.
Duck Stab / Buster And Glen, East Side Digital, 1997.
The Third Reich 'N' Roll, Mute, 2005.
Meet The Residents, Ralph Records, 2011.
Not Available, Ralph Records, 2011.