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ASCOLTI / THE LOST TAPES


di Can / Mute, 2012


 

L'enciclopedia dimenticata

di Cristian Caira

Nel paesaggio ampio e variegato, in rapida e inafferrabile evoluzione (de-evoluzione?) del rock odierno, intenditore e tassonomista condividono un percorso imprevedibile, largamente oppresso da una coltre di dejavù, chiazzato qua e là di luce salvifica, di rado folgorato da trascendenti epifanie. Più che naturale, dunque, affidarsi sempre più spesso a puntate sicure e rifugiarsi nell’ennesima antologia, nella rassicurante ristampa, in preziose rarità o inediti inattesi, specie se appartenenti a band che Critica e Storia non han potuto esimersi dal canonizzare. È questo evidentemente il caso di The Lost Tapes triplo box dei Can, band tedesca ormai di culto, edito lo scorso 18 giugno dalla Mute, a pochi mesi dalla ristampa dell’epocale Tago Mago (contenente inediti, soundtrack di film realizzati e non e materiale live – ma non outtakes, tiene a precisare il sito della casa discografica di proprietà della stessa band). Curioso apprendere come tale materiale sia emerso. Nel 2007 il German Rock ‘n’ Pop Museum di Gronau ha proceduto all’acquisto dell’intero materiale ospitato nel leggendario studio dei Can (l’Inner Space) a Weilerswist, nei pressi di Colonia, studio collocato in un’ala di un castello abbandonato (la surprise finale giustifica dunque l’utilizzo di “leggendario”, aggettivo che il lettore esigente aveva forse giudicato “gratuitamente enfatico”). Tra il bric-à-brac rinvenuto, oltre ai materassi fissati alle pareti per insonorizzare l’ambiente, anche dei polverosi nastri dimenticati. Dimenticati dunque, non perduti (il titolo della raccolta – sottilmente tendenzioso – mira ad ammantare di mitico l’origine delle registrazioni). Sulle ben trenta ore di materiale registrato dai Can tra il 1968 e il 1977 si mettono all’opera Irmin Schmidt – tra i fondatori del gruppo – e il DJ Jono Podmore, in arte Kumo, assiduo collaboratore di Schmidt. Ne ricavano circa tre ore di (pan)musica zeppe di arditezze avanguardiste – alea, atonalità, musique concrete e minimalismo in varie dosi – atmosfere arcane, paesaggi ora utopici ora disastrati, beffardi e stralunati divertissement, oscuri cerimoniali in bilico tra meccanicità post-industriale e ritualità ancestrale, ma soprattutto sorprendenti, spiazzanti anticipazioni. L’ascoltatore erudito, infatti, sempre se facilmente sbalordibile e disposto a sorvolare sulle pesanti tracce sixties presenti nel loro sound, vedrà in The Lost Tapes una ponderosa enciclopedia redatta prima che delle voci in essa raccolte ne venisse appurata l’esistenza. Schegge di post-punk sono ovunque disseminate: dalle agoniche trenodie industriali dei This Heat al terrorismo sonoro dei Throbbing Gristle, dal nervoso ethno-funk dei Talking Heads al pandemonio funk-jazz-reggae del Pop Group, dalle informali declamazioni di Mark E. Smith (The Fall) alle salmodie paranoiche di John Lydon (P.I.L.). Ulteriori frammenti sonori giungono da futuri ancor più remoti: dalle tormente di rumore bianco dei Sonic Youth al drumming anfetaminico dei Black Flag, dalla violenza nichilista dei Big Black all’inesorabile potenza del sound Kyuss, dalle suite proteiformi dei Tortoise all’incedere narcotizzato dello slo-core, dal languore avvolgente del trip-hop alle chitarre rarefatte di Roy Montgomery, dalle improvvisazioni astratte dei Supersilent alle cacofonie apocalittiche dei Gnaw Their Tongues. Lo avrete capito, insomma: ben lontana dall’essere una nostalgica opera autocelebrativa destinata ai più irriducibili aficionados, The Lost Tapes, ennesima espressione del programmatico eclettismo dei Can, giunge a puntellare la loro già solida posizione nel Pantheon delle band più influenti del secolo scorso. Pantheon che dividono con diversi protagonisti del Krautrock, termine che – con una punta di invidia politically incorrect – la stampa anglosassone coniò per designare l’eterogenea ondata di spregiudicatezze sonore che travolse la Germania negli anni Settanta. I nomi sono quelli, ormai noti anche ai più apatici flaneurs dei blog musicali, di Tangerine Dream, Klaus Schulze, Popol Vuh, Faust, Neu!, Kraftwerk. Attingendo per trent’anni all’opulento bagaglio delle loro intuizioni – sequencer e sintetizzatori possono sostituirsi interamente alla strumentazione tradizionale, il ritmo non è poi così essenziale, comporre musica non è un atto così diverso dal dipingere o dallo scolpire (i concetti fondamentali di soundpainting e soundsculpting, poi sviluppati da Brian Eno con maggior coscienza), anche il rumore ha qualcosa da dire – la musica popolare amplierà a dismisura lo spettro dei propri linguaggi: l’ambient, privandole della loro teutonica grandeur, diffonderà su larga scala le epopee cosmiche di Tangerine Dream e Klaus Schulze, fondate su aritmiche ed eterne volute di suono; la new age, cogliendone soltanto la superficie, volgarizzerà le profonde e meditabonde composizioni dei Popol Vuh; la techno dionisiaca dilagante nei rave party prenderà le mosse dal feroce tribalismo post-industriale dei Neu!; i noise-makers dell’industrial più colta saranno influenzati dall’inclassificabile marchio Faust (psichedelia post-nucleare? Psycho-ambient?); gli edonisti della dance-pop britannica invaderanno classifiche e MTV agghindando ulteriormente il già leccato sound di The Man Machine, album dai momenti non poco ballabili con cui i Kraftwerk abbandonano nel 1978 ogni pretesa intellettuale. Da questo magma ribollente popolato di impavidi cosmonauti, mistici imperturbabili, spietati iperrealisti, astrattisti apocalittici e bardi dell’“uomo-macchina” e di un prossimo Rinascimento Cibernetico, i Can, con le loro glaciali e ipnotiche jam acid-jazz-rock impreziosite da teorie e tecniche dell’avanguardia – l’atonalità di Arnold Schoenberg, l’aleatorietà di John Cage, le manipolazioni elettroniche di Karlheinz Stockhausen – furono i primi ad emergere. La band si forma a Colonia nel 1968 per opera del tastierista Irmin Schmidt e del bassista e sound engineer Holger Czukay – al tempo già titolare di un ragguardevole disco solista, Canaxis 5 (2007), di fatto un esempio di world-music avant la lettre – entrambi allievi proprio di Stockhausen. Ad essi si uniscono il batterista jazz Jaki Liebezeit, il giovanissimo – appena diciannovenne – chitarrista di stampo rock Michael Karoli e il vocalist improvvisato Malcom Mooney, pittore e scultore afro-americano. La prima pubblicazione nel 1964, Monster Movie (2004a), non fa registrare un netto balzo in avanti rispetto alle band psichedeliche dell’epoca. Pink Floyd e Velvet Underground non sono troppo lontani, eppure lunghi brani come Father Cannot Yell e Yoo Do Right mostrano già l’andatura inesorabile e le atmosfere occulte dei più ispirati episodi successivi. Dopo un album di passaggio – Soundtracks (2004b), del 1970, è una raccolta di commenti sonori per cinema e teatro – e un cambio nella line-up, su suggerimento del suo analista Mooney abbandona e gli subentra l’intenso giapponese Kenji “Damo” Suzuki, è già tempo di capodopera. Anno 1971: con Tago Mago (2004c) i Can, accantonati i cliché rock, disseminano le loro sornione, sommesse e minacciose composizioni di riverberi cosmici, vibrazioni atonali e dissonanze free-jazz. La chitarra di Karoli, passata in secondo piano, si fa tagliente, guizzante o stridente; l’incessante drumming di Liebezeit è sincopato, meccanico, impersonale; il greve basso di Czukay si riduce a uno sporadico ciondolare; dalle tastiere di Schmidt giungono stranianti sibili, gelide folate, bizzarri gorgheggi e tese sferzate; quello di Suzuki è “il rapporto di un recluso nel manicomio cosmico” (prendiamo in prestito, senza alcuna forzatura, l’espressione che James Graham Ballard ha utilizzato per definire l’opera di William S. Burroughs). L’album che segue un anno dopo, Ege Bamyasi (2004d), è meno ambizioso, più rilassato, ma vanta comunque almeno un paio di momenti notevoli: One More Night, cristallina suite ambientale che precorre di un paio di decadi il post-rock, e Spoon, che, con la sua rudimentale e ipnotica drum machine e gli avvolgenti arabeschi di tastiera à la Ray Manzarek (The Doors), può facilmente passare per un outtake dei Suicide (scartato, naturalmente, perché non abbastanza psicotico). Il 1973 è l’anno di un nuovo zenit creativo. Lontano anni luce dall’opprimente tensione drammatica di Tago Mago, il gelido, anti-emozionale Future Days (2004e) sfoggia un sound levigato, luccicante, frutto di una maniacale produzione. I disparati generi a cui attingono – boogie, jazz, funk, musica etnica… – sottoposti a un processo di rarefazione, perdono ogni identità. Ogni strumento, compresa la voce di Suzuki, partecipa a un meticoloso processo di tinteggiatura del suono. Ancora una volta i Can, con deliziose suite atmosferiche come Spray e Bel Air, si rivelano i padri concettuali del post-rock, e in particolare dei Tortoise. Lo stesso anno Suzuki, dopo aver sposato una testimone di Jehovah, lascia il complesso. Alla sua dipartita segue il tracollo artistico dei compagni. Nei sei anni successivi, dal 1974 al 1979, i Can licenziano altrettanti dischi, ma nessuno di essi si può considerare un successo estetico. Da segnalare, forse, Landed (1975), che segna il passaggio ad una major e ad una produzione più professionale, e Flow Motion (1976a), che annovera il loro unico hit, I Want More. Nel 1989 Schmidt, Czukay, Karoli, Liebezeit e la voce originaria Malcom Mooney danno vita a una poco convinta reunion con l’album Rite Time (1989).

 

La discografia dei tedeschi abbonda di raccolte: Limited Edition (1973), Unlimited Edition (1976b) e Radio Waves (1997) tra le altre. Ad esse si aggiunge The Lost Tapes, che, come si è detto, con la qualità del suo materiale ribadisce la centralità ancestrale del gruppo di Colonia per il rock fin de siecle e oltre. È giunto dunque il momento di passare in rivista i brani più eccitanti della raccolta. Collage cubisti, sperimentalismi audaci e trascinanti jam vanno a comporre il primo disco. Millionenspiel è un’ibrida, angolosa creatura in cui si alternano ossessivi pattern ritmici, riff al vetriolo, una flautata apertura pastorale, vibrazioni elettroniche, un sax convulso e percussioni afro. Lo stesso babelico disordine caratterizza Evening All Day, un cabaret dell’oltretomba: un colloso giro di basso scandisce un incedere enigmatico, indecifrabile; ad interromperlo un lancinante strappo noise; a seguire un brulichio disarticolato di sound effects; chiusura thrilling con una nuova sferzata di rumore. In esperimenti come When Darkness Comes e Blind Mirror Surf la vena avanguardista dei Can si inturgidisce ulteriormente. Il primo è un oscuro esercizio atonale, in cui basso, voce e tastiera sembrano evocare il minaccioso avanzamento di un astro verso la Terra. Il secondo è una vera gemma: allo sfiatare malinconico di un macchinario zoomorfo (una creazione di Max Ernst?) si sovrappongono frammenti di musique concrete, voci distorte, suoni casuali e dissonanze. Come definirlo? Un inusitato esempio di surrealismo atonale? Un affresco postcataclismico in stile Faust? Eccoci giunti alle lunghe improvvisazioni ad alto tasso di aleatorietà: Waiting For The Streetcar, uno sferragliante convoglio acid-jazz-funk trascinato dal rap mantrico di Mooney; Bubble Rap, un poderoso stoner-rock – basso cavernoso e affilati riff di chitarra – che funge da veicolo per un disperato psicodramma di Suzuki; infine la demoniaca, proteiforme Graublau, che inizia con un grezzo acid-rock, si tramuta in un pandemonio space, passa a un canonico jazz-rock disturbato da voci campionate e nel finale si volge inaspettatamente al futuro con il drumming cupo e ossessivo di Liebezeit avvolto da synth industrial e crittogrammi alieni. Chiudono il pezzo – così astratto da sembrare diverso ad ogni ascolto – inquietanti pulsazioni prodotte dalla tastiera di Schmidt. Episodi minori del disco I sono Deadly Doris, epilettica performance di Mooney su un febbrile ritmo boogie, e Oscura Primavera, paesaggio ameno attraversato da allarmi e inquietudini. Il disco II fa perno su una formidabile versione live di un loro classico, su una sorprendente suite rapsodica e sconnessa e su una delle composizioni circolari senza inizio né fine care alla band. Spoon(Live) è a dir poco elettrizzante. Sul palco sembra si siano presentati i Neu!: sull’incalzante “motorik beat” di Liebezeit si innestano le cupe pulsazioni di Czukay, le esili figure funky di Karoli e le allarmanti sirene di Schmidt. Frippiane cascate di effetti fanno acquistare gradualmente densità alla progressione. L’ingresso della nevrotica chitarra ritmica di Fantomas Karoli (prima Michael Rother, poi Robert Fripp e ora Lou Reed) la fa poi precipitare in un vertiginoso sabba proto-hardcore. Si resta a bocca aperta. In Dead Pigeon Suite un arioso tema bucolico tipico della scuola di Canterbury viene senza tregua interrotto. Ad esso si alternano: sfaccettate ed esuberanti poliritmie, frenetiche aperture jazzy – con la tastiera che ora svolazza ora zampetta – funky d’assalto e, soprattutto, Suzuki, con il suo psicotico catalogo di sussurri, gemiti e urla perforanti. Abra Cada Braxas si avvia in cadenze di “tranquilla” jam acida con divagazioni cosmiche. Ma l’infittirsi delle trame sonore e il crescendo del drumming la fanno improvvisamente deflagrare. Sul cumulo di rifiuti noise generato c’è Suzuki, che, bellamente accovacciato, si diverte a recitare formule dadaiste (?), pseudomagiche (?). Il resto del disco non presenta particolari acuti. Meritano forse una menzione Your Friendly Neighbourhood Whore (un flebile sussurro atonale su un meccanico ritmo ethno-funk) e True Story (spoken-word su una bizzarra muzak da cappella), mentre deludono fortemente le parassitarie Midnight Sky (virile blues hendrixiano) e The Loop (sincopato country-blues alla maniera dei Led Zeppelin). Anche il disco III è afflitto da brani poco esaltanti (On The Way to Mother Sky, non lontano dalle espressioni più rudi dello space-rock degli Hawkwind, e la francamente imbarazzante Barnacles, ballabile jazz-funk per club di grido), che vengono però riscattati in pieno da tre scatenate bizzarrie. Midnight Men fa il suo straripante ingresso con un anfetaminico passo marziale e un pompato basso thrilling (sono i Sonic Youth di Daydream Nation a nascondersi dietro gli strumenti?). Ad aprirsi poi è uno spigoloso paesaggio ambient, d’un tratto spazzato via da uno spassoso dialogo tra una nervosa batteria jazzy e uno scivoloso basso funky. Una nuova apertura ambient, stavolta più distesa, prepara il terreno a un’inesorabile progressione minimalista (batteria sfaccettata come la superficie di un cristallo, poche note reiterate all’infinito: ad essere evocato è ancora una volta il chirurgico post-rock dei Tortoise). Con Networks Of Foam, impetuosa improvvisazione noise-jazz à la Supersilent – la band a loro concettualmente più vicina – i Can danno vita all’equivalente in musica dell’espressionismo astratto di Jackson Pollock. Nell’eclettico delirio di Messer, Scissors, Fork and Light, tra i richiami a Spoon, gli inquietanti clangori metallici di macchinari in agitazione, un “a solo” tribale di batteria e il sussurro decontratto, stranamente intelligibile di Suzuki, riesce a farsi largo anche una sensuale atmosfera afro anticipatrice del trip-hop. Un cenno lo merita senz’altro anche Mushroom (Live), una versione narcotizzata, sotto gardenal, slo-core (?) del loro brano più celebre. Una nota (destinata ai cinefili): nel terzo disco è presente anche il gelido paesaggio sintetico di Alice, un breve frammento della colonna musicale composta dai Can per Alice nelle città (2006), road movie esistenziale del 1973 firmato Wim Wenders.

 


 

ASCOLTI

  Can, Limited Edition, UA, 1973.
Can, Landed, Virgin, 1975.
Can, Flow Motion, Harvest, 1976a.
Can, Unlimited Edition, Harvest, 1976b.
Can, Rite Time, Mercury, 1989.
Can, Radio Waves, Sonic Platten, 1997.
Can, Monster Movie, Mute, 2004a.
Can, Soundtracks, Mute, 2004b.
Can, Tago Mago, Mute, 2004c.
Can, Ege Bamyasi, Mute, 2004d.
Can, Future Days, Mute, 2004e.
Holger Czukay, Canaxis 5, Revisited, 2007.

 


 

VISIONI

Wenders Wim, Alice nelle città, Sony Pictures Home Entertainment, 2006.