titolo_orientamenti02_q38 di Gennaro Fucile

 

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Quarant’anni fa, Gerald Bostock aveva otto anni e poteva dirsi un bambino prodigio: scriveva bellissime poesie. Le sue vennero giudicate liriche già mature, e si imposero all’attenzione della scena nazionale (inglese).
Il quotidiano St. Cleve Chronicle gli dedicò l’intera prima pagina il 7 gennaio 1972, in occasione della premiazione dell’occhialuto Gerald, premio poi ritiratogli, perché al birbante scappò una parolaccia in televisione. THICK AS A BRICK, titolava a caratteri cubitali il quotidiano… finto, la perfetta riproduzione di un tabloid che i Jethro Tull misero in scena confezionando una copertina memorabile per il loro concept album, Thick As A Brick, appunto.
Quarant’anni dopo, il leader del gruppo e unico membro della formazione originaria ancora militante nei Jethro Tull, tuttora in attività, Ian Anderson, fa uscire il seguito di quella vicenda, partendo da una domanda semplice semplice: che fine ha fatto Bostock? Molti erano i futuri ancora ipotizzabili all’epoca della fanciullezza di Gerald, radiosi oppure oscuri. Diverse erano le visioni del domani che nascevano sotto il segno delle utopie: quella della società senza classi, oppure del mondo senza tabù, libera tout court, o quell’altra ancora fondata sulle meraviglie della scienza, della tecnica e dei consumi no limits che rendevano possibili. A loro volta, gli scenari cupi, negativi – l’apocalisse atomica, il regno del male, del terrore rosso, ecc.  – che si prefiguravano erano sempre nel segno di un cammino della storia. Erano scampoli di futuro, solo tre anni dopo, sempre dall’Inghilterra si sarebbe levato sgraziato il grido No Future, dei Sex Pistols. Intanto Gerald cresceva ed eccolo di nuovo qui, a darci una misura del tempo trascorso. Anzi a darcene diverse, perché quello che Anderson ha immaginato sono cinque futuri paralleli, affidandosi quindi a un luogo classico della collaudatissima quanto oramai decaduta fantascienza.  Musicalmente il disco è pallida controfigura dell’originale (diciamo così), ma non è di questo che qui si discetterà.

 

jethro_tullTornando al racconto, la prima cosa a saltare all’occhio è che l’unica novità davvero fantascientifica, al punto da non essere ipotizzabile dalla sf quarant’anni fa, consiste nel fatto che in questo capitolo due, il quotidiano appare trasformato in un giornale online: www.StCleve.com. Cosicché, l’elemento reale al presente di una storia di sf sarebbe stata all’epoca del primo disco l’unico elemento che avrebbe potuto far distinguere la fiction dell’album dalla realtà che vendeva per autentica.
Al contrario, le cinque vite ipotetiche di Bostock sono assolutamente iperreali: l’ex poeta s’immagina qui nei panni di un predicatore evangelista, di un soldato reduce dall’Afghanistan, di un homeless, di un operatore del mondo della finanza e di un gestore di negozio di vicinato. Millenarismi di ritorno ipocriti e grossolani, guerre pacifiste, povertà occidentale generalizzata, arroganza, e strapotere delle Borse e delle Banche, commercio tradizionale messo in crisi dalle multinazionali della distribuzione: un quadro fedele di quasi tutti gli assi portanti del presente. Cosicché Gerald Bostock poeta non lo è più diventato, il suo futuro più possibile non si è realizzato e lui, invece di crescere seguendo la sua strada in un tempo che sembrava a sua volta procedere verso orizzonti variegati ma possibili, è scivolato in un presente che ha inghiottito tutti i tempi possibili. Si estremizza, certo, però sarà un caso che i grandi concept album del rock vedessero per protagonisti ragazzini e adolescenti, (pensiamo a Tommy e The Wall) e oggi nessuno più scrive storie del genere? Perché la gioventù non ha un futuro da immaginare, neanche individuale? Soprattutto nel rock, la sua musica di riferimento ne  racconta l’assenza, ci invita a guardare ancora più in profondità ai danni devastanti sul piano esistenziale che il liberismo economico continua a produrre. Ci suggerisce di essere più guardinghi, o almeno attenti alle modificazioni indotte dalle tecnologie friendly sulla memoria, sulle relazioni interpersonali, sulle emozioni e le esperienze mediate. Ecco, forse a questo secondo capitolo manca un paragrafo, quello dedicato a illustrare il giorno in cui il poeta Gerald Bostock, giunto al crocevia dei futuri possibili, si inabissò nel presente. In che punto della Storia è ancora difficile stabilirlo, questa favola di Ian Anderson divenuta racconto ci invita forse a individuarlo. Oppure no, non c’è un attimo fatale da scoprire, è qui la differenza (la verità, si potrebbe dire ambiziosamente); vano è cercare la frattura storica, l’evento epocale, il fatto, l’accidente sociale, insomma la causa che ha cancellato la vita possibile del giovane poeta in erba. L’agire invisibile dell’economia e del quotidiano, occupando tutto lo spazio dell’immaginario, ha prodotto lo scarto fatale. 
Così è capitato che il giovane Bostock in realtà perdesse la vita da adolescente qualche anno dopo senza che nessuno se ne accorgesse e resuscitando anni dopo, quaranta per l’esattezza, scoprendo che alcuni avatar, cinque per la precisione, tutti con il medesimo nickname, avevano attraversato tra fallimenti assortiti questi quattro decenni, senza che nessuno se ne rendesse conto, ognuno alle prese con le proprie allucinazioni e con quelle collettive. È una congettura, Anderson tutto questo non lo racconta, ma ormai tanto vale insistere, guardando con gli occhi di Gerald queste figure spettrali, protagoniste di non vite intrise di autentica tristezza, abitanti di un mondo indaffarato a far la conta dei fallimenti. E chissà perché tutta la scena sembra circondarci.