LETTURE / SULL'ORIGINE DELL'ERMENEUTICA DEL SÉ


di Michel Foucault / Cronopio, Napoli, 2012 / pp. 114, € 12,50


E se il soggetto fosse una finzione?

di Livio Santoro

 

Se all’improvviso prendessimo per certo quanto sostenuto da Michel Foucault, soprattutto nella sua tarda produzione, allora in molti (tra noi consumatori di filosofia) ci accorgeremmo di non aver fatto altro che leggere romanzi, storie bizzarre, talvolta divertenti talvolta abbastanza tediose, il cui interprete principale, dapprima occupante totale dell’assito della narrazione, si sarebbe a poco a poco dimostrato come possessore di un profilo sfumato, un profilo che nel tempo non potrebbe far altro che dissolversi. In tal modo saremmo costretti ad ammettere che il soggetto, in quanto tale ed in quanto indiscusso protagonista della storia del nostro Occidente, probabilmente di per sé, ossia al di là della storia, non esiste. Non ce ne vogliano i tardivi apostoli di Edmund Husserl e i cantori post-moderni dell’identità: entrambi, forse, si sono affannati a cercare, a postulare o a dare per buono un oggetto mentre nel frattempo, presumibilmente, proprio nella loro opera di ricerca, essi non facevano altro che costruirne il profilo e le sfumature. Sarebbe un destino singolare, questo. Il medesimo destino che, nell’Epilogo del suo L’artefice, Jorge Luis Borges riserva a se stesso, ovvero ad un indistinto inventore di mondi e di finzioni, un narratore forse, oppure un metafisico, chissà (a dire dello scrittore argentino le due cose potrebbero essere la stessa): “Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto” (Borges, 1999). Forse Borges, raccontando di sé, menziona quello stesso volto impresso sulla sabbia nelle pagine che chiudono un celebre libro scritto da Foucault nel 1967 (intitolato programmaticamente Le parole e le cose): un volto che il filosofo si augura possa essere cancellato dal lavoro del mare e della risacca del tempo nell’erosione del profilo delle scienze. “L’uomo” conclude in quel caso Foucault “è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima. Se tali disposizioni dovessero sparire come sono apparse, se, a seguito di qualche evento di cui possiamo tutt’al più presentire la possibilità ma di cui non conosciamo per ora né la forma né la promessa, precipitassero, come al volgersi del XVIII secolo accadde per il suolo del pensiero classico, possiamo senz’altro scommettere che l’uomo sarebbe cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia” (Foucault, 1998a).

E dire che Le parole e le cose, per ammissione dello stesso filosofo di Poitiers (ibidem), nasce proprio da una traccia borgesiana (si veda anche Pauls, 2004). Ed è esattamente a questo testo, che si conclude con una speranza funerea seppure aurorale (alla morte dell’Uomo dovrà pur subentrare qualche altra cosa!), che Foucault aveva affidato un testimone; un testimone che, seppure mai abbandonato, egli avrebbe poi recuperato interamente anni più tardi, all’incrocio tra il suo grande progetto archeologico del Potere e l’incipiente vacillare del soggetto nel diagramma della produzione del Sapere.

In buona sostanza Foucault comincia a coniugare definitivamente questi termini nel suo proposito finale, luogo in cui emerge esattamente la messa in luce, tramite l’imperativo genealogico già ereditato da Friedrich Nietzsche, della storicità del soggetto. Dove soggetto dev’essere naturalmente inteso come attributo di quell’immagine più grande, l’uomo appunto, di cui abbiamo già ampiamente detto. Ecco come si delinea il proposito di cui stiamo parlando: “Lo scopo del mio progetto” sostiene Foucault “è di costruire una genealogia del soggetto; il metodo è un’archeologia del sapere, e il dominio preciso dell’analisi è ciò che definirei «tecnologie» – vale a dire, le articolazioni di certe tecniche e di certi tipi di discorso sul soggetto”.

Il nostro filosofo pronuncia queste parole durate la prima delle due conferenze tenute tra il 17 e il 24 novembre 1980 al Dartmouth College, nel New Hampshire, che ora portano il titolo di Sull’origine dell’ermeneutica del sé (con integrazioni al testo parlato in quell’occasione tratte da conferenze pressoché identiche pronunciate un mese prima all’Università di Berkeley). Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo (quegli scampoli di anni Ottanta che a Foucault furono concessi di vivere), è stato infatti un continuo parlare di questo progetto, si prendano per esempio il colloquio datato 1978 con Duccio Trombadori, intitolato Il soggetto, il sapere, la «storia della verità» (Trombadori, 2005), e il seminario Tecnologie del sé, tenuto nel 1982 all’Università del Vermont (Foucault, 1992). Inoltre a ben vedere, anche tracciando la linea continua degli ultimi corsi al Collège de France, il diario più puntuale per chi voglia decifrare il pensiero di Foucault, questo proposito emerge definitivamente e con chiarezza (per restare purtroppo incompiuto) esattamente nei primi anni Ottanta (Foucault, 2009a; 2011a; 2011b; su quest’ultimo cfr. anche Santoro, 2012, in Quaderni d'Altri Tempi n. 36). Allo stesso modo gli ultimi due lavori monografici di Foucault, pubblicati entrambi nel 1984 – il secondo e il terzo volume di quella che nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto essere una storia della sessualità moderna al modo dei precedenti grandi quadri genealogici che hanno ritratto la clinica (1998b), la follia (2011c, cfr. anche Santoro, 2011, Quaderni d'Altri Tempi n. 35) e il sistema punitivo (1993) –, hanno viaggiato lungo lo stesso sentiero (Foucault, 2008; 2009b).

Ma torniamo alle parole pronunciate in occasione delle conferenze del Dartmouth College, e all’obiettivo di costruire una genealogia del soggetto tramite la fissazione di quelle che lo stesso Foucault ha più volte definito tecnologie del sé. Grazie a queste ultime ci sarebbe la possibilità di tracciare una sorta di linea di discontinuità che faccia distinguere tra i giochi di verità dell’antichità classica e quelli del primo cristianesimo. Detto in altri termini, Foucault mette in relazione il rapporto che il discepolo intrattiene con il suo maestro nelle Scuole filosofiche antiche (per lo più nelle Scuole cosiddette ellenistiche: in particolare nello stoicismo) e quello che il monaco della prima era cristiana intrattiene con il suo confessore. I due rapporti, per Foucault, sarebbero caratteristici di due differenti modalità di porsi nei confronti della verità, o meglio sarebbero due modi di porsi al cospetto di due diverse verità. Naturalmente qui Foucault non parla solo di quella Verità maiuscola di cui aveva già parlato per esempio ne L’ordine del discorso (2001), ossia quella verità che fuoriesce dalle trame del Discorso del Potere; bensì parla di una verità minuscola, che ha a che fare con la definizione singolare dell’etica, della modalità di porsi del singolo soggetto all’interno di quel diagramma discorsivo le cui linee talvolta s’accavallano o si allontanano, lasciando trasparire quelle soglie che rappresentano una via di fuga data al soggetto per evadere dalle costrizioni totali del Potere. Seguendo le parole di Gilles Deleuze il lavoro di Foucault insiste esattamente su tali soglie: “Estetiche per esempio, che mobilitino un sapere in una direzione diversa da quella di una scienza […]. O anche soglie etiche, soglie politiche: [grazie ad esse] si mostrerebbe così come certi interdetti, esclusioni, limiti, libertà, trasgressioni siano «legati a una pratica discorsiva determinata», in rapporto ad ambiti non discorsivi, più o meno in grado di avvicinarsi a una soglia rivoluzionaria” (Deleuze, 2002).

Nel caso dei due rapporti sopra descritti, si evidenzierebbero dunque due diverse modalità di rapportarsi alla verità che, costituendo due diverse entità, entrambe definibili in termini di sé (il primo, al contrario del secondo, non soggetto ad interpretazione), renderebbero la cifra della variabilità del concetto più ampio di soggetto che sovrasta in termini assoluti entrambi i rapporti. A dare la misura di tale differenza sarebbero allora esattamente quelle pratiche che i diversi soggetti storici (nelle loro occorrenze singolari) hanno agito in questo loro rapportarsi alla verità. Ecco comparire le tecnologie (o tecniche) del sé: “operazioni [degli individui] sui propri corpi, sulle proprie anime, sui propri pensieri, sulla propria condotta”. In epoca ellenistica, per esempio, il rapporto del discepolo con il maestro avveniva tramite il verum fateri (letteralmente il “dire il vero”) in una comunicazione che non intendeva ricercare e mettere in luce la presenza di colpe. L’attenzione del verum fateri era posta invece sulla ricerca dell’errore. E questo proprio perché lo scopo finale del rapporto dialogico del discepolo con il proprio maestro aveva come obiettivo la ricerca della felicità terrena del primo e la sua liberazione dalle dipendenze moralmente costrittive. Nel caso del primo monachesimo cristiano, invece, questo rapporto si modifica e, pur provenendo dalla matrice delle Scuole ellenistiche, è tuttavia teso alla “contemplazione di Dio”. Tra le tecniche che contraddistinguono questo rapporto c’è per esempio quella che i Padri greci chiamavano exomologesis, ossia l’elencazione confessionale delle colpe commesse. Ecco comparire uno scarto fondamentale nella storia che stiamo seguendo: quello che gli ellenisti definivano errore nei primi secoli dell’era cristiana diventa colpa, in quanto termine che tende ad avere come correlato una verità oltremondana. Dunque la verità a cui si riferisce lo scopo del rapporto dialogico muta drasticamente, pur emergendo con l’utilizzo pratico di tecniche confessionali apparentemente simili. L’exomologesis, continua Foucault, si esplicita tuttavia come elemento messo alla base della conduzione quotidiana della vita, di quello che in altri contesti Foucault ha definito stile etico-estetico: la publicatio sui (la “resa pubblica del sé”). Scopi della publicatio sui erano precisamente “cancellare il peccato [… e] restituire al peccatore la purezza acquisita precedentemente, al momento del battesimo; ma [essa] mira[va] anche a mostrare il peccatore come egli è nella realtà – sporco, corrotto, sudicio”. In tal modo la confessione cristiana diventa una sorta di riproduzione quotidiana del martirio e si pone come termine finale la conseguente rottura con se stessi e con il proprio passato.

Sottolineare la variabilità di tali tecniche confessionali significa, per Foucault, insistere sul mutamento drastico della concezione di soggetto, di sé, in quella tensione storica che lo connota nel suo percorrere le epoche. Una variabilità che è cifra di un proposito più ampio: dimostrare, appunto, l’essenza anti-dogmatica e in costante riformulazione che le scienze, riflettendosi nello specchio dei loro stessi contetti, dovrebbero acquisire dall’imperativo della storicità. In questo modo, ammettere la storicità di un concetto, di un fatto, sarebbe esattamente come ammetterne la natura convenzionale e congetturale. Seguendo Foucault, infatti, tutto sarebbe riducibile a questi ultimi due aggettivi perché, come sottolinea Paul Veyne, nell’opera foucaultiana “non si dà a priori che non sia storico” (Veyne, 2010, cfr. anche Santoro, 2010, in Quaderni d'Altri Tempi n. 28). Nella considerazione dell’uomo in quanto soggetto, nella produzione concettuale delle scienze e nelle fasi di soggettivazione quotidiana ciò ha una conseguenza basilare: “Il soggetto non è «naturale», in ogni epoca è modellato dal dispositivo e dai discorsi in auge, dalle reazioni della sua libertà individuale e dalle sue eventuali «estetizzazioni» […]. Così come, senza un discorso, non ci sarebbero per noi oggetti conosciuti, non esisterebbe soggetto umano senza una soggettivazione. Generato dal dispositivo della propria epoca, il soggetto non è sovrano, ma figlio del suo tempo; non tutti i soggetti sono possibili in ogni epoca” (Veyne, 2010, corsivo nostro).

Cosicché la storicità trascini con sé termini come congettura, convenzione, finzione. D’altronde, al di là della storia, non vi è altro che questo.

 


 

LETTURE

Borges Jorge Luis, L’artefice, Adelphi, Milano, 1999.

Deleuze Gilles, Foucault, Cronopio, Napoli, 2002.

Foucault Michel (a cura di Martin Luther, Gutnam Huck e Hutton Patrick), Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.

Foucault Michel, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1993.

Foucault Michel, Le parole e le cose, Bur, Milano, 1998a.

Foucault Michel, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Einaudi, Torino, 1998b.

Foucault Michel, L’ordine del discorso, in Il discorso la storia la verità, Einaudi, Torino, 2001.

Foucault Michel, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano, 2008.

Foucault Michel, Il governo del sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano, 2009a.

Foucault Michel, La cura di sé. Storia della sessualità 3, Feltrinelli, Milano, 2009b.

Foucault Michel, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano, 2011a.

Foucault Michel, Il coraggio della verità: Il governo del sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano, 2011b.

Foucault Michel, Storia della follia nell’età classica, Bur, Milano, 2011c.

Pauls Alan, El factor Borges, Editorial Anagrama, Barcelona, 2004.

Trombadori Duccio, Colloqui con Foucault, Castelvecchi, Roma, 2005.

Veyne Paul, Foucault. Il pensiero e l’uomo, Garzanti, Milano, 2010.