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di Gennaro Fucile e Stefano Nincevich

 

Non si può sbagliare, si riconosce dalle primissime battute, una sezione introduttiva formata da una linea melodica brevissima (solo quattro note), cromatica, ripetuta. È un avviso di partenza, funziona come un imbarco: è il via all’ennesima avventura impossibile del più famoso tra gli agenti doppio zero. Il James Bond Theme non ha eguali nella storia della musica. Si inserisce la chitarra con il riff che si snoda su otto battute e si entra in azione.
Un brano esclusivo, dedicato al protagonista, quindi altrettanto seriale, vocato alla reiterazione, potrebbe risultare noioso e invece no. Il pericolo è evitato anche qui da 007, perché se proprio si è stufi di ascoltarlo nella classica versione originale, una raffica di cover vi raggiunge ovunque, qualsiasi sia il mood in cui vi trovate. Versioni che servono nuovamente il tema in mille salse diverse e che contraddicono quanto si afferma in uno dei capitoli della saga: non si vive solo due ma innumerevoli volte. Ecco perché sono pochi e di minor peso i concorrenti di Bond, nel senso del tema di Bond. C’è The Pink Panther, che viene in mente per simpatia, ma è meno longeva e soprattutto è una pista musicale meno battuta. C’è un discreto sciame di cover che si innalza dal tema di Shaft, anche lì per via di un intro micidiale, zeppa di effetti con il wah-wah, ma anche in questo caso la saga – una trilogia –terminò presto. Sono in buon numero i temi da film memorabili, A Man and A Woman (Francis Lai) oppure Il Buono, il brutto e il cattivo (Ennio Morricone), giusto per esemplificare; sono altrettanti quelli ripresi da musicisti di ogni taglia e misura, così come ci sono diversi i compositori, come Morricone, omaggiati da più parti. Infine, alcune sigle televisive hanno goduto di fama anche duratura e qualcuna ha rinverdito il successo con il remake/revival di turno, come nel caso di Mission: Impossible (di Lalo Schifrin), ma nessuno, proprio nessuno, può vantare un tema – dedicato al personaggio – dalle mille vite come il tema di Bond, che resiste anche alla concorrenza con se stesso, perché almeno metà dei film di 007 hanno un proprio tema e interpreti di alto profilo. Qui basterà citare la coppia Goldfinger/Shirley Bassey. 
Il tema è un motivo semplice composto da Monty Norman e arrangiato da John Barry per il primo episodio cinematografico: Dr. No. È il 1962, Barry ha un manipolo di uomini al suo servizio, compongono il John Barry Seven, combo noto anche come JB7 (anche qui una sigla). Ne faranno parte anche futuri militanti del british jazz – una corrente ancora di là da venire – come il chitarrista Ray Russel e il flautista Bob Downes. Soprattutto ne entra presto a far parte il chitarrista Vic Flick. Toccherà a lui srotolare il riff e farlo volare. Anche Barry poi volerà nell’olimpo degli autori di musiche da film, firmando una dozzina di soundtrack per 007, ma anche altri manufatti di pregio come Midnight Cowboy (da noi: Un uomo da marciapiede) e The Cotton Club, successoni come Out of Africa (La mia Africa) e Indecent Proposal (Proposta indecente) o il telefilm The Avengers (Agente speciale). Una carriera dal ritmo sempre più vertiginoso, come quel riff che poi prosegue riprendendone una prima parte su due battute che viene ripetuta tre volte, poi una conclusione sempre su semitoni si adagia sull’ottava misura, dando così il ritorno al riff, altre otto battute in tutto identiche alle precedenti. Una ricetta semplice, ma che ti afferra mentre tutto prende un’altra velocità, come quando sorseggi un cocktail coi fiocchi.
Il James Bond Theme fonda un genere, la spy music, che verrà coltivato negli anni Sessanta dando frutti saporiti, dal sapore intenso. Oltre al citato tema di Schifrin, vanno assaporate almeno le eloquenti Come Spy With Me di Smokey Robinson & The Miracles e I Spy (For The FBI) servita da Jamo Thomas & His Party Brothers Orchestra, Secret Agent Man a cura di Johhny Rivers e The Last Of The Secret Agent di Nancy Sinatra. La black music scorre a fiumi in questi brani e d’altra parte ammesso che sia possibile parlare di spy music, questa certo arriva dal cosiddetto crime jazz, ammesso che il genere a sua volta esista o sia mai esistito. Molte testimonianze lo provano, certo, da Touch of Evil (regia di Orson Welles e musica di Henry Mancini) a telefilm come Perry Mason (musica di Fred Steiner) e The Naked City (George Duning e Ned Washington). Ance e manette, un cocktail che funziona, che ne suggerisce altri, come la spy music, posto che sia mai esistita, come chissà se davvero si possa parlare di cocktail music, quella che Joseph Lanza colloca prima della psichedelia, del rock a base di acidi lisergici, una musica che non necessitava di misticismi orientali, di hippismi per cambiare lo stato di coscienza. La cocktail music è come un drink, prendi gusti diversi e li metti insieme, polka, jazz, canzoni d’amore delle isole del Pacifico, rock 'n' roll, motivi ballabili, popolari, festosi. Il tema di Bond non fa eccezione, quell’aroma jazzy, quella punta di rockabilly, e poi la costellazione 007 è come un firmamento im/mobile: una Bond girl, un villain, il tema del film, quello di Bond e un cocktail da sorseggiare. Rito del culto e culto del rito, è sempre Lanza a sostenere l’analogia tra la cerimonia del cocktail e quelle religiose, secolarizzazione in cui il barista è il sommo sacerdote, la bevanda il calice sacramentale, e gli ambienti lounge qualcosa di simile a un tempio o una cattedrale, dove si ricorre a luci, musica, e quant’altro per indurci in uno stato di relax, un benessere dell’anima più aggiornato. 
Vero? Di sicuro per Bond e prova ne sia la disponibilità del tema alla variazione, abbinabile con più generi e con cocktail diversi. A questo punto, però, se non reggete più di un sorso, se alla lunga quel riff vi sembra insopportabile, il suggerimento è di interrompere questa lettura; in caso contrario, benvenuti nei mondi della mixability e della cover. Rilassatevi, accendete lo stereo e godetevi questi lussureggianti rifacimenti del James Bond Theme accompagnati da altrettanti cocktail, a iniziare dal Vesper. Ricordate?

 

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“Un Dry Martini”, dice. “Uno in un ampio calice da Champagne”. “Oui, monsieur”, risponde il barman. “Solo un momento. Tre misure di Gordon, una di vodka, mezza misura di Kina Lillet. Lo shakeri molto bene fino a quando è ghiacciato, quindi aggiunga una grande fetta sottile di scorza di limone. Capito?”. Facile riconoscere il piglio. È il nostro agente nelle vesti di burattinaio. Il suo teatrino è il bar. La marionetta il barman. Il romanzo è Casino Royale, Ian Fleming, anno bondiano 1953. Il drink, creato dall’amico di Fleming Ivar Bryce, porta il nome di Vesper Lynd, gioco di parole su “West Berlin”, e nome d’arte delle due splendide creature che hanno interpretato la protagonista femminile nel film. Ursula Andress nel 1966 ed Eva Green nell’adattamento del 2006. Se vi saltasse in mente di prepararvi il Vesper a casa, vi avvisiamo: non troverete più il Kina Lillet, ma un degno sostituto noto come Lillet Blanc. In alternativa c’è sempre un buon vermouth bianco. Classico, che più classico non si può. È il cocktail simbolo di James Bond, anche se in realtà l’agente con licenza d’uccidere lo ha ordinato solo una volta in anni di onorata carriera alcolica. Da sorseggiare lasciandosi circuire dal James Bond Sextet. Una tribute band fedelissima all’originale, nelle note e nelle atmosfere, sorta in California. In azione fior di jazzisti, come Harold Land e Buddy Collette, capitanati da tale Jimmy Bond, ribattezzatosi James “Jimmy” Bond, uno armato di contrabasso che di professione faceva il session man. L’aderenza allo spirito originale è tale che puzza di doppiogioco. Meglio ordinare un Martini Cocktail (aka Dry Martini) e ricordare che ha un antenato di nome Martinez nato dalle parti di San Francisco intorno al 1860. Il nome del drink è legato a doppio filo con la vicenda dell’emigrante Martini di Arma di Taggia che, tra il 1911 e il 1912, mentre era alla guida del banco del Knickerbocker Hotel di New York confezionò Sua Maestà il Cocktail Martini per John D. Rockfeller, il re del petrolio. Il Martini, come lo chiamano gli intimi, è come la maieutica: sa come far partorire le menti. Dorothy Parker dichiarò schiettamente: “Mi piacciono i Martini. Due al massimo. Tre sono sotto il tavolo, quattro sono sotto l’ospite”. James Thurber, altro appassionato del genere, diceva: “Un martini è okay. Due sono troppi, tre non sono abbastanza”. Bond lo ama alla follia, anche se i puristi dicono che, con la sua fissa dello “Shaken not stirred”, lo ha un po’ bistrattato. Perché il drink, da copione, va mescolato. Anzi, di meglio, va massaggiato delicatamente nel mixing glass. Le sue particelle (5,5 di gin e 1 cl di vermouth dry) devono avere il tempo di farsi un pisolino prima di prendere la strada della coppetta da cocktail. Per apprezzare le sue note aromatiche pesanti, il consiglio è di abbinarlo al tema di Bond, in versione acid jazz, di Barry Adamson, uno che con noir, thriller e affini ci è sempre andato a nozze, al punto da inventarsi una colonna sonora immaginaria come Moss Side Story. Nella cover in questione vi svelerà anche un segreto: Bond, al contrario di Nino Ferrer, non ha mai avuto bisogno di cantare Vorrei la pelle nera perché ce l’aveva. 
Altra informazione preziosa: James Bond ha bevuto tre Old Fashioned in carriera. Il “bello di notte” si prepara con 4,5 cl di whisky, qualche goccia di Angostura Bitters, Soda Water (uno spruzzo) e una zolletta di zucchero. Questa miscela è apparsa per la prima volta sul banco del Pendennis Club di Louisville, nel Kentucky, intorno al 1880. A dare celebrità al cocktail è stato uno dei membri del club, il Colonnello James E. Pepper, che ne ha svelato la ricetta al barman del Waldorf-Astoria Hotel di New York. Da lì il successo globale. Oggi è riproposto nei cocktail bar più blasonati di New York come il Pdt o il Death & Co. Locali che ripropongono la tradizione dell’Archaic e Baroque Age, l’epoca, siamo intorno ai primi dell’Ottocento, in cui tutto ha avuto inizio. Sul loro bancone sfilano cocktail per secoli dimenticati come Toddy, Sling, Julep, Cobbler, Sangaree, Flip, Egg nog. Tornando all’Old Fashioned, la ricetta originale prevedeva il bourbon whisky, ma a Bond è concesso di cambiare le vicende già scritte. Quando ascoltiamo il tema stritolato da John Zorn nell’album Naked City (poi assoldò una band dandogli lo stesso nome), sentiamo stridere i denti d’acciaio di Squalo sui cavi della funivia. Ma lo sappiamo: quando tutto sembra perduto, Bond riesce a riscrivere la storia. Nel nostro caso quella di un cocktail fossile. In musica diremmo groovy, come il suono dell’organo hammond pestato da Howard Blake and His Combo. Fa venir voglia di bere un Rob Roy, ma non c’è e non c’è mai stato il Rob Roy. Inutile cercarlo nei romanzi di Fleming o nei film. Di certo possiamo dirvi che James Bond è sempre stato un grande appassionato di Scotch Whisky. Ne ha bevuti venticinque tra un’avventura e l’altra. Questo cocktail preparato con scotch whisky è il nostro tributo alle radici scozzesi di Sean Connery e prima ancora a Robert Roy Mac Gregor (1671 – 1734), eroe popolare per gli scozzesi, soprannominato “Rob Roy” o “Red Robert” per i suoi capelli rossi. Il drink, creato in onore di colui che rubava ai ricchi per dare ai poveri, si prepara con 4,5 cl di scotch whisky, 2,5 cl di vermouth rosso italiano, qualche goccia di Angostura Bitters, tanto ghiaccio a cubetti e una ciliegina al maraschino. La ricetta è quasi un fac-simile del Manhattan, ma qui sono gli attributi torbati del whisky scozzese, usato al posto del rye whisky americano, che fanno la differenza. Immaginiamo il cocktail in mano a uno Sean Connery nostalgico, mentre fuori piove e la salsedine gli impregna le radici. Solo il tappeto dell’hammond di Blake potrà impedirgli di crollare.

 

04_capSe voi, invece siete ancora in piedi, ordinate un Americano, un nome bugiardo come quello dell’hamburger, perché rimanda a un falso luogo d’origine. Nella ricetta, infatti, c’è bitter milanese, vermouth torinese e “acqua di soda”. Un medium drink tutto italiano, circa 14 gradi, buono per stare allegri. Nel mondo è divenuto popolare negli anni Trenta. Se ne parla in due polverosi ricettari ristampati di recente: The artistry of mixing drinks di Frank Meier del Ritz Bar di Parigi, pubblicato nel 1934, e nel volume del 1937 Café Royal cocktail book di William Tarling, uno dei pionieri della Ukbg, l’associazione britannica dei bartender. Il nome del cocktail si dice sia un omaggio a Primo Carnera, l’eroe d’America. Un tributo alcolico a “La montagna che cammina”, il primo italiano che, il 29 giugno 1933 al Madison Square Garden di New York, riuscì a conquistare il titolo di Campione del mondo dei pesi massimi. Nato sulla scia dell’Ottocentesco Milano-Torino, si differenzia dal primo per l’aggiunta di soda. Ian Fleming, in Casino Royale lo fa bere come primo cocktail (di una lunga serie) all’agente James Bond. Succede a Royal-les-Eaux, a l’heure de l’apéritif, a l’Hermitage. La ricetta personale di 007 prevede Bitter Campari, Cinzano, una spessa fetta di limone e acqua Perrier al posto della soda. Secondo l’agente segreto “la Perrier è l’unico modo per rendere accettabile il gusto di una bevanda povera”. Ci perdonerà 007, ma questa volta non siamo d’accordo. Si sieda nel lounge dei Pizzicato Five, si metta comodo, che glielo diciamo anche in giapponese. Loro sono un duo composto dal Dj e collezionista di suoni vintage, meglio se pescati nei B-movies, Yasuaharu Konishi e dalla deliziosa Maki Nomiya, collezionista anche lei, ma di parrucche (pare ne possieda oltre 1.000). Il tema lo propongono in mix con un proprio omaggio a Twiggy, altra icona dei Sixties. Il nostro tema qui è una coda per piano a tutto spiano.
Dal Giappone alla Grande Mela in un lampo, si sa che Bond si sposta in un niente da un punto all’altro del pianeta. Qui però facciamo anche un passo indietro nel tempo. A New York, nel 1889, un giornalista organizza una sfida tra bartender con l’obiettivo di creare la ricetta dell’anno. Un certo John Dougherty vince con una ricetta chiamata Business Brace, una rivisitazione dello Champagne Cocktail fatto conoscere al mondo nel 1862 da Jerry Thomas, il padre dei bartender americani. Per prepararlo a regola d’arte bisogna bagnare una zolletta con alcune gocce di Angostura Bitters e versare lo zucchero imbevuto nella flûte. L’opera si conclude con un cl di Cognac e 9 cl di Champagne, che va versato molto delicatamente. Ora, che James Bond fosse un tipo da Champagne è un fatto noto. Tra libri, film e adattamenti vari ha buttato giù 51 flûtes. Il suo cocktail ideale non potrebbe che essere l’elegante Champagne Cocktail. L’abbinamento ideale è con la miscela surf rock di James Bond Theme e You Only Live Twice suonata e strapazzata dai Deadbolt di San Diego, California, gente specializzata in surf rock e psychobilly. Provatelo, sarà come un giro sulle onde, tavola contro tavola. Altro che i Beach Boys.
Onda su onda fino in Giamaica sorseggiando un Gin and Tonic, per gli intimi G and T. Era la medicina dolce e amara della Compagnia Britannica delle Indie Orientali. Nel XVIII secolo ogni soldato britannico delle colonie asiatiche aveva diritto alla sua razione giornaliera di acqua tonica arricchita con chinino, il più antico rimedio contro la malaria. Per ammorbidire il gusto amaro del chinino si usava allungare la bevanda frizzante con il gin. Erbe, spezie, agrumi e radici contenute nel bouquet del distillato erano ideali per arrotondare le spigolosità dell’acqua tonica.
Per Bond? Un antidoto sparkling e dalle radici esotiche come la miscela di calipso, jazz e boogie woogie degli Skatalites, veterani dello ska, già alle prese con temi da film. Perfetto per difendersi dal veleno del cattivo di turno.
Altro buon antidoto è il Martini Vodka. Suo padre è il Martini Cocktail o Dry Martini. Suo nonno era il Martinez del Professor Jerry Thomas, pioniere di tutti i barman americani in forza nel 1862 all’Occidental Hotel di San Francisco. Ci sono almeno due domande che un barman dovrebbe rivolgere a un appassionato di Vodkatini. La prima è la cosiddetta James Bond question: Lo preferisce agitato o mescolato? La seconda è la Oliver Twist question: Col ricciolo (twist) di limone o con l’oliva?
Se cominciate a veder doppio e a sentir quadruplo, nessun problema. Se poi sentite ben trentaquattro ripartenze e sovrapposizioni sul tema, è sempre tutto ok, siete in realtà ancora lucidi. Sono gli esercizi della The Ulterior Motive Orchestra, un’accolita di anonimi musicisti che si cimenta con il Bond songbook. Trentaquattro come i Vodka Martini bevuti dall’instancabile bevitore di Sua Maestà durante la sua epopea cinematografica. Ecco, forse la vera natura dell’eroe contemporaneo va ricercata nel suo metabolismo. È lì che si nota la differenza, provate a bere come Bond o a ingozzarvi di bistecche e patatine fritte come Tex Willer e capirete. La musica, invece, i cocktail li regge benissimo e già nei Cinquanta iniziano a spuntare le drinking songs come One Mint Julep di cui si ricorda la stratosferica versione di Ray Charles. La fama del Mint Julep, servito di regola nel tipico bicchiere argentato (o di peltro), è legata al Derby Post, la celebre corsa di cavalli che si svolge dal 1875 a Louisville (Kentucky) il primo sabato di maggio. Durante questa gara scorrono fiumi di Mint Julep, un drink amato e citato da Charles Dickens e dal suo collega di penna Frederick Marryat, capitano della Royal Navy e romanziere. Così scrive nel 1838 l’ufficiale sul suo diario: “Devo ammettere che il Mint Julep, così com’è, quando ci sono 38 gradi, è una delle più incantevoli e ruffiane libagioni che sia mai stata inventata. E può essere bevuta con uguale soddisfazione quando il termometro è appena sopra i 20 gradi”. Ma non sempre tutto fila liscio. È in Goldfinger che Auric Goldfinger si macchia del gesto ipocrita. Mentre si compiace di se stesso e dei suoi averi, diremmo “fa lo splendido” nel suo allevamento di vacche e cavalli in Kentucky offre a Bond, come farebbe con un vecchio amico, il Mint Julep, una bevanda dalla consistenza di una granita con una parte abbondante di bourbon whiskey (6 cl), zucchero quanto basta (di solito un cucchiaio), qualche foglia di menta e un po’ d’acqua per completare. C’è qualcosa che non va, 007. Il drink è quello giusto, ma chi te lo offre ha le mani sporche, come una base elettronica che flirta troppo facilmente con la techno. Il suo vero nome è Moby, Moby Bond. Gli inganni, però, non finiscono mai. Maximilian Largo, numero uno della Spectre, tra il tentativo di rubare una testata atomica e l’altra, trova il tempo di offrire un Rum Collins a Bond. Succede in Thunderball. Il Rum Collins fa parte di una delle più antiche famiglie di cocktail, quella dei Collins. Il capostipite è il Tom Collins, cocktail della categoria fizz, a base di Old Tom Gin (una versione più morbida del classico London Dry Gin), che viene servito con ghiaccio in bicchieri capienti chiamati, indovinate un po’, Collins. La ricetta è stata pubblicata per la prima volta nel libro The Bar-tender’s guide or how to mix drinks del 1876, da Jerry Thomas, il padre della mixology americana. La più diffusa è la seguente: due parti di Old Tom Gin, una parte di succo di limone fresco, zucchero e soda. Quello offerto a Bond, però, è un cocktail al veleno, almeno per il nostro eroe. L’antidoto è nella leggerezza proposta dalla versione easy offerta dal direttore d’orchestra Franck Pourcel. Gli archi in apertura ci solleticano, sono sdolcinati e tormentati, come se si fosse dentro Vivre pour Vivre, Canzonissima e al Moulin Rouge contemporaneamente, ma forse è l’effetto dei troppi cocktail.
In fondo noi non siamo eroi e alla lunga i sensi si appannano… ci sembra di risentire quel maledetto riff, poi tutto si sfoca, si ripete ossessivamente… cheers

 


 

LETTURE

Meyer Frank, The Artistry Of Mixing Drinks, Createspace, 2008.

Tarling William, Café Royal Cocktail Book, Mixellany Books, 2008.

Lanza Joseph, The Cocktail: The Influence of Spirits on the American Psyche, Picador, New York, 1997.

Lanza Joseph, Elevator Music: A Surreal History of Muzak, Easy-Listening, and Other Moodsong,
University of Michigan Press, 2004.


ASCOLTI

Adamson Barry, Soul Murder, Mute, 1992.

Deadbolt, James Bond Theme/You Only Live Twice, in AA.VV., Secret Agent S.O.U.N.D.S., Mai Tai, 1995.

Howard Blake and His Combo, Hammond in Percussion, Studio 2 Stereo, 1966.

Moby, James Bond Theme (Moby's Re-Version), Mute, 1997.

Pizzicato Five, Made In Usa, Matador, 1993.

Pourcel Franck, James Bond's Greatest Hits, Studio 2 Stereo, 1973.

The James Bond Sextet, The James Bond Songbook, Bgp, 2006.

The Skatalites, Ball of Fire, Island Jamaica Jazz, 1997.

Ulterior Motive Orchestra, S.p.y.t.i.m.e., Tradition, 1996.

Zorn John, Naked City, Nonesuch, 1989.

 

 


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