ASCOLTI  / RUNNIN'


di Galapaghost / Lady Lovely, 2012


Il folk intimo delle praterie
di
Casey Chandler

di Vittorio Martone

 

S’inizi dalla fine. Con ordine. La pena è sempre durare oltre quest’attimo, purtroppo intriso d’una rarità senza soluzione, che non ritorna. Perché il nostro sentire si spinge troppo spesso nelle fascine e scivola via nella tristezza. Ovviamente non abbiamo una risposta, ancora. Ma con certa musica si ha molta meno pazienza nel ricercarla. E Casey Chandler, che si fa chiamare Galapaghost, a giudicare dal nome discolo che ha scelto per cantare, forse neanche è consapevole della portata intima e riflessiva del suo recente lavoro, Runnin’.

L’album raccoglie molti degli EP che già Chandler ha diffuso online, dei quali il brano Never heard nothin’ aveva fatto registrare migliaia di download. Poi un tour da apripista con John Grant nel 2010 e il contatto con la casa discografica torinese Lady Lovely, che ha prodotto Runnin’. Dodici tracce di folk sincero, che ricordano Jackson C. Frank (1965) e Neil Young (1975), ma anche venature del più recente indie folk di Will Oldham (Bonnie “Prince” Billy, 2006), Iron & Wine (2009) o, perché no, Joshua Tillman (2007). Chandler vive a Austin, in Texas, ed è nato a Woodstock, nel Vermont. E per chi ha il vizio dell’immaginazione, questi luoghi troppo carichi di una nostalgia irreale e di destini che sfuggono le fatali quanto eterne attrazioni non possono che giovare a una scrittura poco decente. Per questo è preferibile descrivere il lavoro di Casey Chandler anche in base alle sole impressioni, tratte dall’ascolto dell’album e da un’esperienza dal vivo.

Si ascolti allora Galapaghost da un tavolo in penombra, sorseggiando un whiskey e blindandosi nella buona sorte di una serata solitaria. Roma, gennaio 2012, un posto che si chiama Mercato Nero, ma detto in inglese, Black Market. Tutto intorno la solita mascherata di una serata infrasettimanale in un quartiere di turisti, con la consueta festa di volti carnevaleschi, e dal vicino lungotevere un battello di rumori che trasuda smodatezza prima che la morte dell’alba li venga a prendere mossa a compassione, sudaticcia e nauseata.

Ma, fortunatamente, mentre l’umido di un buon Dalmore si mette sulle labbra prima di grattare in gola, Casey Chandler fa un delicato cenno del capo, senza sguardo, come un guanto o un fazzoletto sventolato. E comincia a suonare. Chitarra, cori, ukulele e xilofono diveltano il sonno, si dà congedo alla città intorno e si permette al nero di arrivare.

Comincia con Runnin’. Canzone di apertura anche dell’album. Con quel vago senso di perifericità e abbandono di una provincia americana, di quella che va a vedere i fuochi della domenica e l’arrivo dei musicanti venuti a chiedere una benedizione in cambio di qualcosa da mangiare da vestire o da abbracciare. Poi Never heard nothin’, che sembra un rumore di fondo costruito sull’ukulele. È una canzone da ascoltare nel commiato di un tramonto, come si fa con un estremo desiderio di rimpianto. Come dire, è solo lontano dal folto della gente che saremo simili a ieri, capaci di stare a galla a terra per ogni volta che un dolore ci distrae.

 

And I’m paralyzed from you

From the lips down

And all the way down

But I'm deep inside of you

But you feel nothin

You feel nothing

 

Human unkind sembra invece un respiro inquieto, come di quando si ha paura del vento, della sua forza e del suo volto. Perché, come il vento, Chandler qui sembra avere il vizio di farti sapere quanto spazio passa tra i tuoi capelli e i tuoi presentimenti. Human unkind andrebbe ascoltata nell’ultimo sonno, mentre il mondo viene chiamato all’ordine dai gendarmi col fischietto, e ci si pesta i piedi a ogni ingorgo. Ti dice che forse è meglio non scendere dal letto fino a quando questa gente non avrà trovato un posto.

Poi Truman, un soffio che dura poco più di due minuti, ma che svela anche toni vocali discreti messi su un tappeto lineare, puramente acustico, seriamente arricchito dai cori e da un testo più affilato dei precedenti. Fa pensare alle malinconie delle donne di provincia, o a una madre e a un padre che attendono ciascuno i propri fuochi, quelli che più intimamente descrivono loro stessi in quel tribolare inconsistente e quasi insignificante del vivere in un luogo di forzata solitudine.

Rise & Fall svela invece la comprensibilissima genuinità del giovane Chandler, che in tal caso si traduce in un’acerba e quasi lagnosa aria monocorde. Nell’album, Rise & Fall è accompagnata da una batteria che non migliora le cose. Lo stesso si può dire per Don’t Go & Break My Heart. Diciamo che al banchetto di Galapaghost queste non sarebbero le commensali più garbate, ma un surrogato, un errore di copione, una parte poco gradita anche se non del tutto inutile.

Ma poi Chandler torna a fare sul serio, con You’re All I Need dove la struttura musicale e del cantato attestano all’autore anche una discreta pregevolezza vocale. È una ballata falsamente spensierata, ritmata da un tamburello schivo, che fa pensare ai saloon, dove gli uomini “veri”, fratelli di una zolla arata con fatica e compagni della bestia da soma, con le scarpe unte del fango e le parole senza cultura, chiedono un ultimo bicchiere di acquavite che neanche il banconiere gli riesce a strappare.

A quel punto si chiede il secondo whiskey, e ci si vede di spalle a una finestra, con la spossatezza dei propri giorni frenetici a lottare ancora contro una voglia innata di abitudine.

Altra traccia splendida è Beauty of Birds, dove Chandler è impegnato in un buon passaggio vocale. A seguire il clapping di banjo e ukulele in The Demise of Me, che si accompagna a un ritornello amaro (“All I can see, is the demise of me”) e A Familiar Place, che si condisce di velata autobiografia.

 

I remember the summer by the lake

And knowing that my life it would

It would never be the same

And I remember

The sweetest friends I had

And walking down that long dirt path

That never seemed to end

 

Chi non ha un lago nella propria infanzia, che nella penombra del crepuscolo rispecchia un ultimo Sole freddo e bianco? Lo si perde assieme all’ingenuità e alla calma, come un pallore, un’influenza o un serbatoio di vita danneggiato, ché domani si ritorna, ché domani non si pensa e non si parla, ché domani si lavora.

Le due ultime tracce sono le più intense e, per finire con l’inizio, sono quelle che sanno alimentare quel senso di irrisolto che affatica, specie in quei momenti in cui per paura di se stessi si combatte con la sforzata convivenza del dubbio e del misfatto. Disintegration è un pezzo maturo, fatto di una calma triste, di una nenia che non si può guardare in faccia, ma ci si mette di profilo, per conservare almeno una parte sana e utilizzabile, o ci si mette di schiena, come quando si china il capo sotto i colpi della tortura e si rinasce sempre defunti e defunti si aspetta il miracolo di una resurrezione piccola. Poi, mentre l’uomo del bar rassetta le gioie di un buio troppo frequentato, da uno scorcio di baldoria arriva la giusta conclusione di un qualsiasi altrove, la risoluzione comoda di un’ora di musica buona. Si chiama Desire of Desire, la traccia che chiude l’album. Lì, con la lieve ebbrezza del whiskey, è possibile adorare il poco che sfigura, quanto basta per colmare un’assenza nel torpore dell’ultimo inspiro di sigaretta. E davvero, ad ascoltarlo, viene da chiedersi da dove viene questo Galapaghost, su quale scalata spoglia ha perso il fiato, da quale cima s’è fermato un giorno a contemplare il volo basso d’un uccello migratore. Forse, vista la giovane età, è anche lui un uccello che ha dimenticato di migrare perché un tramonto l’ha stupito, al punto da decidere di trascorrere da solo un po’ del rosso nostalgico e indeciso di quelle terre texane.

 


 

ASCOLTI

Bonnie “Prince” Billy, The Letting Go, Drag City & Domino, 2006.

Frank Jackson C., Jackson C. Frank, Columbia Records, 1965.

Iron & Wine, Around the well, Sub Pop, 2009.

Tillman Joshua, Cancer and Delirium, Yer Bird, 2007.

Young Neil, Zuma, Reprise Records, 1975.