VISIONI  / A.C.A.B.


di Stefano Sollima / Cattleya, 2012


Frammenti di ordinaria violenza

di Chiara Ribaldo

 

Si respira il puzzo di una catastrofe imminente, di un profondo senso di inadeguatezza, di impotenza e di sconfitta che diventa, in una sorta di mutazione cancerosa incontrollabile, nevrosi, rabbia, violenza. Un nugolo di arance meccaniche sembra popolare il mondo che ci viene raccontato, uomini e donne simili a giocattoli caricati a molla, bombe ad orologeria pronte ad esplodere a comando e poco importa che questo, come scriveva Anthony Burgess in un suo saggio, venga da Dio, dal Diavolo o dallo Stato Onnipotente (Burgess, 1986), essi sono come zombie in un perenne stato di letargia morale. Il bene e il male, lungi dall’essere scelte etiche, diventano pure opzioni estetiche. A terra, dopo l’esplosione, non restano che migliaia di schegge di sangue, pelle e odio, di frammenti di vite sbagliate ed è tra quelle rovine che, parafrasando José Ortega y Gasset, si riesce a cogliere la triste retorica del nostro tempo (1930).

A.C.A.B.- All Cops Are Bastards, primo film cinematografico di Stefano Sollima (già regista di Romanzo criminale – La serie), tratto dall’omonimo libro di Carlo Bonini, è il racconto impietoso, fin dal titolo, di un’epoca, che ha esaurito sorrisi e rassicurazioni a buon mercato, di un mestiere, quello del celerino, da sempre criticato e disprezzato, e di un paese, l’Italia, nel quale sembrano venir meno le regole del sentire comune e con esse il senso stesso della convivenza civile, dove uno “stato di guerra cronico” (Durkheim, 1971) ha finito per sostituirsi definitivamente ad una cultura della legalità lungamente condivisa.

Nel 1982 il gruppo di british punk, The 4 – Skins, lancia sulla folla un refrain feroce e rabbioso “A.c.a.b. A.c.a.b. A.c.a.b. All cops are bastards!”; il titolo del brano diviene in poco tempo uno slogan caro alle frange estremiste anarchiche e antiautoritarie d’Europa, una sorta di mantra per la cultura skinhead, fino a raggiungere la sua definitiva secolarizzazione negli stadi di calcio di tutto il mondo.

Alla fine degli anni Settanta, nei sobborghi londinesi del proletariato, intrisi di fritto e classismo, gli sbirri sono tutti bastardi. Per la working class ogni poliziotto rappresenta in quegli anni il manganello di uno Stato iniquo, incapace di attuare vere politiche di welfare, sordo ai problemi di una convivenza multietnica coatta e immobile dinnanzi alle vittime di un’interminabile guerra tra poveri (Briata, 2007). È la violenza legalizzata e nulla più, che essa vede in quelle divise, ancora più odiosa perché tollerata, accettata, quando non addirittura incoraggiata, dalle istituzioni e da parte della società civile, la quale preferisce non vedere l’immondizia nascosta con cura sotto il tappeto della normalità. E, tuttavia, ciascuna di quelle divise ha un nome, una faccia, un odore, ha un passato, una foto sbiadita sotto il cuscino, forse, anche qualche peccato da espiare. Sollima prova a fissare in istantanee proprio quelle vite da celerini, usando con grande maestria le tinte forti del film di genere, i dialoghi realistici, il montaggio serrato, una fotografia saturata all’eccesso, risvegliando da un sonno lungo quarant’anni i vari Elio Petri, Carlo Lizzani, Enzo Castellari e anche qualche vecchio giustiziere della notte rimasto a guardare il mondo che non cambia mai dalle polverose colline hollywoodiane. E di quelle vecchie pellicole, considerate ancora oggi di serie b, il regista riesce a cogliere lo spirito e la forza espressiva, ma più di ogni altra cosa la capacità di raffigurare la realtà presente senza per forza dover ubriacare il pubblico di barzellette e metafore storiche stantie.

Cobra, Negro e Mazinga hanno nomi e facce da criminali, picchiano duro come quegli sbandati che la periferia romana prima inghiotte e poi vomita, sembrano delinquenti, in realtà sono poliziotti, gli stessi con cui, nel giugno del 1968, dopo gli scontri di Valle Giulia, Pier Paolo Pasolini simpatizza apertamente, “perché i poliziotti sono figli di poveri (…) senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha eguali), umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)” (Pasolini, 1968).

In quell’Italia di traumi e miracoli, scossa dalla lotta di classe, Pasolini invitava i “figli dei ricchi”, gli studenti, a regalare loro dei fiori. Corrono veloci gli anni e di quel sentimento, di quei versi lucidi e amarissimi rimane poco, poiché oggi tutto sembra svuotarsi e perdere di senso. Ci sono accadimenti terribili che dilaniano il paese e che il regista elenca come un lungo necrologio nel corso del film (dal G8 di Genova al pestaggio nella scuola Diaz, dall’omicidio dell’agente Filippo Raciti, dopo una partita di calcio, al brutale assassinio di Giovanna Reggiani per mano di un giovane romeno), storie di straordinaria violenza sullo sfondo di una Roma in balìa di se stessa, ammalata di ingiustizia sociale, illegalità e degrado, dove non esiste altra legge che non sia quella dell’autodifesa, dell’occhio per occhio, dente per dente (Brunetta, 1995). In questo scenario, i poliziotti, che Sollima e Bonini dipingono come cubisti analitici mostrandoci di loro ogni angolazione possibile, sono i mostri che il sonno della ragione di un’intera società è riuscita a generare. Se ne vanno in giro a spaccare musi, a rieducare lo straniero senza legge, che sporca e occupa illecitamente le case degli italiani, a spaventare qualche testa rasata con il sogno dell’anarchia, nel nome di una fratellanza deviata che sa tanto di familismo amorale. E, tuttavia, non è questo che li rende bastardi, anzi queste azioni danno voce a quella parte della coscienza di tutti noi, che teniamo prudentemente a bada, quella più rancorosa e intollerante verso le Istituzioni e verso l’Altro. Forse a questi sbirri, che ricordano i cops cattivi di Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan (Post, 1973), i fiori li daremmo davvero. Ma, come dice Cobra (il personaggio interpretato da Pier Francesco Favino) davanti al giudice, “prima di decidere chi sono gli innocenti e i colpevoli, dovrebbe almeno chiedersi come funziona il lavoro della celere”. È, dunque, necessario conoscere l’altra faccia della luna, quella fatta di attese nervose in camionette bollenti, di sputi e insulti, di motivetti fastidiosi cantati allo stadio, di umiliazioni costanti, di sudore, frustrazione e solitudine. Paradossalmente è proprio in quei momenti, quando tra loro e il mondo c’è a dividerli una divisa, che gli sbirri sono tutti bastardi e lo sono perché rappresentano un sistema sociale, economico, culturale, nel quale chiunque stenta oramai a riconoscersi. Eccoli lì gli zombie, i morti viventi di un universo in decadenza.

Siamo lontani dalle rivendicazioni del sottoproletariato dell’East End e dalle promesse sessantottine di un mondo migliore. Così si assolvono gli sbirri giustizieri che allo Stato danno un senso personalissimo (in fondo non sono poi così dissimili dagli eroi malavitosi della banda della Magliana), ma si condannano senza possibilità di assoluzione i poliziotti bastardi, quelli vestiti come “pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo” (Pasolini, 1968).

Quando si guarda il film è come se si verificasse una sorta di cortocircuito etico, poiché il giudizio sui protagonisti non è mai definitivo e assoluto nonostante l’inevitabile assunzione del punto di vista principale. In quei novanta minuti di botte e insulti e morte si genera uno iato tra il corpo dello spettatore e i personaggi, quasi una distanza di sicurezza, giacché la violenza che si racconta è eccessiva e insostenibile. Ciò nonostante, è quasi impossibile non sentirsi pienamente coinvolti e disturbati non tanto da quei poliziotti, brutti, sporchi e cattivi, ma da noi stessi, dai pensieri malvagi che facciamo mentre sediamo sull’autobus o al bar sotto casa, ma che non osiamo dire neanche in un sussurro, dall’odio che ci portiamo dietro addomesticato, come si fa con i cani feroci, o nascosto dietro la coltre dell’indignazione civile dei bravi borghesi.

Per A.C.A.B vale quello che nel 1974 Claudio Quarantotto scrive a proposito del film Il cittadino si ribella (Castellari, 1974). Potremmo dire con le sue parole che, lungi dall’essere un’apologia della violenza più cruda e un’arringa a favore di poliziotti corrotti, questo non è, invece, che “un sintomo e un segnale d’allarme, rappresentando i pericoli della degenerazione anarchica della società permissiva, dell’impotenza o addirittura dell’estinzione dello Stato (…) che porta prima al Far West, con i suoi sceriffi e i suoi banditi, poi alla giungla e all’homo homini lupus. E intenda chi può e chi vuole” (Quarantotto, 1974).

 


 

ASCOLTI

The 4-Skins, A.C.A.B. in The Good, The Bad & The 4 Skins, Secret Records, 1982.

 
LETTURE

Brunetta Gian Piero, Cent’anni di cinema italiano 2. Dal 1945 ai giorni nostri, Laterza, Bari, 1995.

Bonini Carlo, ACAB. All cops are bastards, Einaudi, Torino, 2009.

Briata Paola, Sul filo della frontiera. Politiche urbane in un quartiere multietinico di Londra, Franco Angeli, Milano, 2007.

Burgess Anthony, A Clockwork Orange Resucked, in Id. A Clockwork Orange, W. W. Norton & Company, New York, 1986.

Durkheim Émile, La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano, 1971.

Ortega y Gasset José, La ribellione delle masse, SE Editore, Milano, 2001.

Pasolini Pier Paolo, Il PCI ai giovani, L’Espresso 16 giugno 1968 in http://temi.repubblica.it/espresso-il68/1968/06/16/il-pci-ai-giovani/

Quarantotto Carlo, Il Borghese 20 ottobre 1974 in http://www.pollanetsquad.it/film.asp?PollNum=25 

 

VISIONI

Castellari Sergio, Il cittadino si ribella, No Shame, 2008.

Post Ted, Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan, Warner Home Video, 2008.

Sollima Sergio, Romanzo criminale – La serie, 20th Century Fox, 2010.