LETTURE / LYTTON STRACHEY. L'ARTE DI VIVERE A BLOOMSBURY


di Michael Holroyd / Il Saggiatore, Milano, 2011 / pagine 448, € 35,00


L'inesauribile finzione
e il fallimento inevitabile

di Erika Dagnino

 

Le creature umane sono una realtà troppo importante,

per essere trattate solo come sintomi del passato

Lytton Strachey

 

Figura ricorrente tra gli scrittori, artisti, storici ed economisti che davano vita alla comunità di Bloomsbury, radicalmente opposta – ora del tè, non ora del tè – alle convenzioni sociali e religiose dell’Inghilterra dell’epoca, Lytton Strachey, intellettuale esteta dall’aspetto che risultò nitidamente singolare agli occhi del romanziere e critico Frank Swinnerton in occasione della sua comparsa agli uffici editoriali di Chatto & Windus – “La sua eccessiva magrezza, direi quasi macilenza, lo faceva sembrare infinito. Aveva un naso alquanto bulboso, occhiali da topo di biblioteca del British Museum, una grande e disordinata barba marrone scuro (con una curiosa sfumatura rosso-bruna); neanche un filo di voce. In piedi stava curvo, seduto si ingobbiva. Sembrava totalmente privo di vitalità […]. Nel suo sguardo c’era gaiezza triste, e in lui un’aria di perpetua malattia e spossatezza” (Holroyd, 2011) – fu anche e soprattutto innovativo e originale biografo dell’epoca vittoriana – “Il risultato che conseguì con Eminenti vittoriani fu di liberare la biografia del XX secolo dalla «spada di Damocle della rispettabilità», la quale, come Carlyle aveva protestato nella sua recensione a Life of Scott di Lockhart, «incombe da sempre sul povero scrittore di vite inglese»” (ibidem). Ma a che punto è oggi questo particolare genere letterario (se è un genere e se è letteratura)? L’uscita di una biografia sul biografo Lytton Strachey ad opera di Michael Holroyd si cristallizza proprio come prezioso spunto per riflettere sulla biografia tout court e sul suo senso in generale.

La biografia è sempre in qualche modo la ricostruzione arbitraria di un’esistenza; paradossalmente finzione proprio lì dove c’è realismo. Viene effettuata una scelta di fatti e, una volta scelti, questi vengono organizzati anche in senso spaziale e temporale. Si mette qui in campo, cioè, una finzione che non risiede tanto e soprattutto nel contenuto in sé, quanto nell’atto e nel modo stesso in cui questo – il contenuto – viene sistemato, presentandosi come il romanzo della vita.

“Quando Livio si diceva disposto, se il giro di frase lo avesse richiesto, a far vincere Pompeo a Farsalo, non raccontava frottole, ma esprimeva semplicemente un’importante verità in maniera paradossale: che il primo dovere di un grande storico è quello di essere un artista. La funzione dell’arte nella storia va oltre il semplice abbellimento […]. La verità senza interpretazione è inutile come l’oro liquefatto; e l’arte ne è la grande interprete. Soltanto essa può unificare una moltitudine di fatti in un tutto sensato, e chiarire, sottolineare, cancellare o illuminare gli anfratti più bui con la lampada dell’immaginazione. Soprattutto può conferire ai materiali dello storico il fascino della rivelazione personale” (Lytton Strachey, in Holroyd, 2011).

La biografia è e non è quello che afferma di essere. Questo l’assunto e la premessa imprescindibili. Strumento necessario quanto mai indispensabile alla biografia sono le lettere – così come gli eventuali diari – appartenendo alla sua articolazione, via via inserite coerentemente nella lunga teoria di fatti accaduti.

Si presenta dunque l’annessione di documenti della vita reale in un contesto di finzione, documenti ridotti al rango di finzione a loro volta – nel senso che al di là di tutto, proprio dove dovrebbe sembrare più realistica la materia ci si imbatte nel rapporto ambiguo tra lettera e realtà – l’epistolario, presunto consolidamento di verità, diventa ambiguità di finzione. Per definizione strettamente letterale la biografia coincide con la scrittura di una vita, ma tutto ciò che può sembrare realismo è sul piano della struttura arbitrarietà di materiale e di scelte. Le lettere, consistenti in presa diretta della realtà, sembrano essere e dover essere le componenti più vere tangibilmente, ma in realtà straniano perché assumono nella loro natura anche il dato se non il vero e proprio tessuto di finzione. Questa relazione si evidenzia senza voler attribuire alla finzione e al reale la rispettiva accezione di negativo e di positivo. E considerando prioritariamente il piano strutturale. Le lettere poi diventano qui lettere di personaggi, non sono più le persone quelle che si presentano. Pur in un contesto di verità, la stessa biografia, per il proprio terreno compositivo e organizzato, diventa opera di personaggi e non più opera di persone. Sia l’elemento più propriamente personale – le lettere – sia le parole pronunciate – la narrazione – sono sempre selezionate e organizzate, dove appunto i carteggi – pur fonte reale – diventano rafforzamento del non reale. Anche perché già la lettera in quanto tale risulta essere opera essa stessa. E in quanto opera è anche operazione di sistematizzazione, conducendo al lecito e naturale interrogativo di quanto realismo essa abbia in sé e in sé contenga. Ma questo riporta alle radici della scrittura, di chi parla, in particolare di chi parla dicendo “Io”.

Siamo così di fronte a due tipi di sistematizzazione: la biografia, le lettere. Sistematizzazione sempre arbitraria di una vita da parte del biografo, sia in termini di natura, sia in termini temporali che spaziali, che rafforza inevitabilmente la dimensione di non realismo. Dove appunto è lo stesso elemento di prescelta a gestire la tavolozza utilizzata per completare – pur nella parzialità – l’affresco, il quadro o lo schizzo trattato, dove gli avvenimenti, le parole, le lettere prescelte, seppure a macchie decisamente colorate, sature e lucenti, opache e spericolate, rendono la cosa in qualche modo meno vera. “[…] Ho cercato di esaminare e chiarire alcuni frammenti della verità che hanno colpito la mia fantasia e che si confacevano al mio temperamento […]. Tener presenti le parole di un Maestro: «Je n’impose rien; je ne propose rien; j’expose»” (ibidem), dove “La citazione dal francese – che secondo i critici è ispirata a Voltaire – non era più autentica di quanto lo fossero le parole attribuite a Livio da Lytton sullo Spectator, nove anni prima” (Holroyd, 2011).

E i fatti? Il discorso delle lettere è un’intuizione di falso rafforzamento del realismo: una convenzione che spinge ad affermare che forse la lettera è vera – nonostante l’ipotetico o possibile distacco dalla concezione oggettiva del vero. Se si tende a vedere la lettera come rafforzamento della verità, come colore unico, nel frattempo si sente che unico colore non è. Tutto questo va certo debitamente considerato al di là del dato, e all’interno del rapporto di qualcosa di vissuto ma sempre tradotto in parole. E se è vero che le singole parole possono narrare la verità reale rispetto ai fatti realmente accaduti alla persona, la biografia rimane finzione per eccellenza.

Se vogliamo, ancora per definizione e per sua stessa natura, la biografia è il libro-tentativo, sempre fallito – perché non può mai essere realizzato – di descrivere, di narrare, e ancora di interpretare la vita di qualcun altro, che è e rimane tra quanto di più arbitrario si possa pensare.

Neppure ignoriamo che la biografia è un insieme di componenti anche iconiche, date spesso dalla presenza di fotografie e ritratti pittorici. La componente della rappresentazione attraverso l’immagine offre ancora una volta quella sorta di omologia tra la fotografia – o il ritratto – e la persona in essa rappresentata e la biografia e la persona di cui si narra la vita.

“Penso che i ritratti sarebbero un elemento importante del libro […] i ritratti che ho in mente si possono trovare in libri di facile reperibilità; sareste in grado di ottenerne la riproduzione? Aggiungo che a mio avviso sarebbe opportuno inserire cinque ritratti, e non quattro, perché un ritratto di Newman (ce n’è uno molto adatto nella biografia di Wilfrid Ward) mi sembra indispensabile” (Lytton Strachey, in Holroyd, 2011).

Per conoscere dati e avvenimenti strettamente esteriori la biografia è operazione e opera certamente utile. Ma è sempre contrazione della vita intera: contratta e contraffatta in un numero limitato – per quanto quantitativamente vasto – di pagine. Sintesi necessaria, ma al tempo stesso inevitabilmente arbitraria, che di fatto appartiene ai termini della convenzione: intesa proprio come sorta di patto tra chi scrive e chi legge. Non dimentichiamo che si sta parlando della cosa più concreta del mondo: di un’esistenza. Finzione, infatti, non vuol dire menzogna, cioè i singoli materiali possono essere strettamente autentici; il problema non è la verità o meno del materiale, ma è che per definizione la biografia, e con essa i suoi strumenti e le sue fonti, si colloca su un altro piano della realtà e di qualunque altro tipo di narrazione – infatti, la narrazione intesa ad esempio come romanzo è la messa in funzione di personaggi nello spazio e nel tempo creato da chi scrive lo stesso romanzo – mentre la biografia dovrebbe essere sempre sorta di tutto ciò che comporta la simulazione di una vita, comportando di fatto ciò che è realmente accaduto. Questo fenomeno di artificializzazione offre il fianco alla definizione di pseudovita – e di pseudoromanzo. Dove non manca una logica: il recupero di una finzione nel cuore di una verità, e il recupero di una verità nel cuore di una finzione. Partecipando quindi di una natura assolutamente ambigua. Così come, tornando indietro un passo, le stesse lettere – e diari: da un lato si fondano su un contesto di vita reale, ma dall’altro sono anche segnali che portano nella direzione opposta e “Il biografo, a questo punto, si trova di fronte a una difficoltà: e tanto vale confessarla, piuttosto che ricorrere a scappatoie. Nel narrare la storia di Orlando, documenti storici e privati ci hanno reso possibile, finora, di adempiere al compito primo di un biografo, il quale dovrebbe essere quello di porre i propri piedi, senza guardare a dritta e a manca, nelle indelebili orme della verità; e pur senza lasciarsi sedurre né indurre a riguardi da fiori come da ombre, procedere con metodo, sino a che insieme col suo eroe egli cadrà dentro la fossa, e scriverà, sulla lapide che la rinchiude, la parola finis” (Woolf, 1996).


 

LETTURE

× Woolf Virginia, Orlando, Mondadori, Milano, 1996.