LETTURE / L'ISTINTO MUSICALE


di Philip Ball / Dedalo, Bari, 2011 / pagine 512, € 22,00


L'ambigua semantica della musica

di Roberto Paura

 

Ipotizziamo che una civiltà extraterrestre s’imbatta in una delle due sonde Voyager che hanno da tempo abbandonato il nostro sistema solare per tuffarsi nei bui abissi interstellari. All’interno, come è noto, troveranno un disco d’oro nel quale sono state incise alcune musiche, attentamente selezionate, delle culture e tradizioni musicali di tutto il mondo. Il primo problema con cui gli alieni si dovranno confrontare sarà quello di trovare il modo di riprodurre il contenuto inciso sul disco. Immaginiamoci però una civiltà avanzata, rispetto alla nostra, di migliaia di anni, in grado di ricostruire un giradischi o un grammofono seguendo le istruzioni universalmente valide allegate al disco – in fondo, non dovrebbe essere impossibile – e a questo punto, il gioco è fatto: gli ascoltatori extraterrestri potranno deliziarsi con una nostra scelta di musiche di Johann Sebastian Bach, Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwig van Beethoven, Igor Stravinskij, oltre a brani di culture non occidentali, da Giava al Congo, dal Giappone al Perù fino alle Isole Salomone. Siamo tutti convinti che la musica parli un linguaggio universale e sia capace, dunque, di dire qualcosa a quegli ipotetici ascoltatori extraterrestri. Ma quali significati coglierebbero? A che conclusioni arriverebbero, ascoltando la nostra musica? Queste domande sanciscono la distanza tra la scienza della musica e la sociologia della musica; poste a un sociologo della musica, difficilmente riceverebbero come risposta la stessa di Carl Sagan, che ebbe l’idea di inserire il disco all’interno della sonda interplanetaria. Perché, in fin dei conti, non è detto che la musica abbia davvero un significato universale. Questa certezza comincia a indebolirsi anche nei circoli scientifici, e a dimostrarlo è il volume di Philip Bell L’istinto musicale che è a oggi il più completo studio sulla musica capace di coniugare al suo interno matematica, neurologia, psicologia cognitiva, fisica, sociologia e antropologia.

Il primo problema da affrontare insieme a Bell è quello del vantaggio evolutivo della musica. È difficile immaginare che l’abilità musicale sia un fattore in grado di garantirci un vantaggio evolutivo sulle altre specie; se la musica si è allora sviluppata come una sorta di “orpello”, inutile dal punto di vista evolutivo, come possiamo essere certi che altre civiltà intelligenti abbiano coltivato ugualmente quell’orpello e non l’abbiano, piuttosto, abbandonato nel corso dell’evoluzione? Quest’ipotesi, nota come “ipotesi del pennacchio” dal nome che gli diede l’evoluzionista Stephen J. Gould facendo riferimento ai pennacchi nelle costruzioni architettoniche (belli ma funzionalmente inutili), è condivisa dalla maggior parte degli studiosi. Tra questi, lo psicologo cognitivista Steven Pinker ha definito la musica una “Saint-Honoré uditiva”, sottolineando la sua fondamentale inutilità: “Non sembra mirare a uno scopo come una vita lunga, avere dei nipoti o un’accurata percezione e predizione del mondo. Diversamente dal linguaggio dalla visione, dal ragionamento sociale e dal know-how fisico, la musica potrebbe svanire dalla nostra specie e il nostro stile di vita resterebbe praticamente immutato” (Pinker, 1998). Tra i critici di questa tesi c’è Daniel J. Levitin, collega di Pinker ma musicista e musicologo e, come tale, naturalmente opposto all’ipotesi del pennacchio. Nel suo Fatti di musica, Levitin ricorda come Charles Darwin ne L’origine dell’uomo sostenesse che le note musicali e il ritmo avessero contribuito a dare un vantaggio ai nostri antenati, perché capaci di sedurre il partner favorendo l’accoppiamento. In pratica, la musica agirebbe come la coda del pavone, un “pennacchio” appunto, ma tramite il quale il pavone seduce la femmina. Levitin adatta la tesi di Darwin ai giorni nostri: “Il numero di partner sessuali delle rockstar può essere centinaia di volte quello di un maschio normale e per i cantanti più famosi, come Mick Jagger, l’aspetto fisico sembra non avere molto peso” (Levitin, 2008). Philip Bell smentisce quest’assunto, che spregiativamente propone di chiamare la “teoria Hendrix”, perché, ricorda “Jimi Hendrix ha generato diversi figli prima di morire prematuramente (rendendo in tal modo l’abuso di droghe e alcol un prezzo accettabile da pagare, in termini evolutivi)”. Secondo Bell, l’esempio classico del vantaggio sessuale delle rockstar non si applica a tutti e soprattutto non si applica in tutte le epoche storiche: “Non sappiamo molto sulle avventure sessuali dei trovatori”, nota Bell, “ma la maggior parte della musica occidentale nel Medioevo era eseguita da monaci (teoricamente celibi)”.

Anche accettando l’ipotesi minoritaria secondo cui la musica si sia sviluppata nella specie umana attraverso il vantaggio evolutivo, e quindi – generalizzando – sia una conditio sine qua non perché si possa parlare di intelligenza, resta da vedere che significato potrà darle una civiltà intelligente diversa dalla nostra. Quando, in Incontri ravvicinati del terzo tipo, gli ufo tentano di contattare la razza umana, lo fanno attraverso la musica. Nell’idea del regista Steven Spielberg, gli alieni condividerebbero la nostra idea di un’universalità del linguaggio musicale e tenterebbero di stabilire un contatto attraverso queste basi. Il leit-motiv del film, strutturato su cinque note, ricorderebbe il saluto inglese “Hello”. Philip Bell fa un altro esempio: un accordo di Do, seguito da Sol e poi Do. “Io potrei sostenere”, scrive Bell “che dice «Ecco una piccola storia: c’è un inizio, una parte centrale e una fine». Di cosa parla la storia? Di niente”. Non c’è un significato dietro la musica, ma è vero che la musica segue una sintassi. La musica tonale occidentale è tutta costruita intorno all’idea che esista una gerarchia, all’interno di una costruzione musicale, tra la nota centrale – la tonica, appunto – e le restanti note utilizzate. La tonica è la nota con cui si comincia il pezzo e con cui il pezzo finisce. Eppure, a partire da Arnold Schoenberg, la musica tonale è entrata in crisi in Occidente e gli appassionati di musica colta contemporanea la definiscono terribilmente demodé. Questo non vuol dire, certo, che un ascoltatore di musica atonale non capisca la musica tonale, anzi: di solito accade il contrario. Ciò perché, secondo molti studiosi, in realtà la musica tonale sarebbe naturale, mentre quella atonale sarebbe una costruzione artificiosa. Bell, che pure difende la dodecafonia e l’atonalità, è di questo parere: “Una musica priva di un quadro grammaticale chiaro può difficilmente arrivare ad essere qualcosa di più di una serie lineare di note e motivi senza profondità. Forse è per questo che alcune delle composizioni più potenti di Schoenberg sono della miniature?”.

Se accettiamo questa tesi, dobbiamo allora complimentarci con Sagan: almeno, la musica occidentale scelta per essere inserita nel disco è saldamente tonale (lo è anche Stravinskij, perlomeno nell’Uccello di fuoco da cui è stato estratto il brano per il disco del Voyager). Dovremmo allora concludere che anche gli extraterrestri converranno con noi sul fatto che una musica atonale non possiede una struttura sintattica, e quindi non potrà essere considerata universalmente come il prodotto di una civiltà intelligente. Ma su questo punto si dovrà tornare tra poco. Resta da affrontare infatti il problema più interessante: il significato della musica. Per la verità, il discorso fin qui affrontato non è del tutto originale. A proporlo per primo è stato Douglas Hofstadter nel suo acclamato capolavoro Gödel, Escher, Bach, nel quale veniva affrontato anche il problema dell’interpretazione della musica umana da parte di extraterrestri. Secondo Hofstadter, la mera riproduzione della musica incisa sul disco non avrebbe raggiunto il risultato desiderato. Il risultato desiderato dovrebbe essere “quello di attivare nel loro cervello le strutture che creano in loro effetti emotivi analoghi a quelli che noi sperimentiamo nell’ascoltare il pezzo” (Hofstadter, 2007). Ma qui il problema si sposta a un altro campo: “Gli extraterrestri hanno emozioni? E, ammesso che ne abbiano, queste sono in qualche modo riconducibili alle nostre? Se essi hanno emozioni più o meno analoghe alle nostre, queste emozioni si associano come le nostre? Capiranno essi abbinamenti quali «bellezza tragica» o «coraggioso soffrire»?” (ibidem).

Chissà perché, siamo quasi tutti convinti di sì. Questa convinzione nasce da un errato concetto di universalità delle emozioni. Bell affronta nel suo volume diversi casi che mostrano come determinate musiche vengano universalmente interpretate come “tristi” o “allegre” o “trionfali” a seconda dei toni, del ritmo e delle armonie impiegate (e un po’ anche a seconda degli strumenti). In Europa come in Africa o nella Polinesia. Ma questo non vuol dire che sia possibile estrapolare dalla musica significati più complessi come quelli, appunto, di “bellezza tragica”. Levitin, per esempio, ritiene che invece sia possibile: recupera infatti la convinzione di Woody Allen secondo cui sentendo Wagner si possa essere indotti a invadere la Polonia. “Questo è in parte il motivo per cui così tanta gente non riesce ad ascoltare Wagner: a causa del suo pernicioso antisemitismo, della volgarità della sua mente e dell’associazione della sua musica con il regime nazista, certa gente non si sente al sicuro quando ascolta le sue composizioni. Wagner mi ha sempre infastidito profondamente… Sono riluttante a cedere alla seduzione di una musica creata da una mente tanto disturbata e da un cuore tanto pericoloso” (Levitin, 2008). Una simile dichiarazione dà per scontato che tutti coloro che sentono Wagner ne conoscano perlomeno la cornice ideologica all’interno della quale operò, o comunque associno inevitabilmente la sua musica ad idee “disturbate e pericolose”.

Philip Bell è radicalmente contrario a quest’ipotesi. Il dibattito che ne deriva ricorda molto quello sviluppato dalle tesi ottocentesche del severo critico musicale Eduard Hanslick riguardo la musica romantica. Nel suo Il bello musicale, Hanslick sposava un approccio formalistico all’estetica musicale sostenendo che la bellezza della musica non risiedesse nelle emozioni suscitate ma nella sua struttura armonica. La tesi di Hanslick era senz’altro radicale e difficilmente condivisibile, oggi come allora, ma nasceva – nota Bell – dall’esigenza di porre un freno agli “indulgenti eccessi prodotti dal Romanticismo”, in base ai quali la musica andava considerata come un mezzo “per raccontare storie fantastiche”. Non c’è niente di male, per dire, nel fatto che Beethoven abbia intitolato Eroica la sua terza sinfonia pensando di dedicarla in prima battuta a Napoleone Bonaparte. Ma da qui a sostenere che l’Eroica veicoli sentimenti di grandezza ed eroismo ce ne passa: “A volte si è detto che i compositori suggeriscono il tono del loro messaggio attraverso la scelta della tonalità. Il Mi bemolle dell’Eroica è considerato ‘eroico’, il Do minore ‘tragico’, il Re maggiore brillante, il Re bemolle maggiore fastoso, il La bemolle minore vividamente dolente, il Fa maggiore pastorale, il Do maggiore intriso della «chiarezza del giorno», e così via. È molto difficile dire quanto di tutto ciò sia frutto di pura associazione – Beethoven ha scelto di scrivere la Sesta sinfonia Pastorale in Fa perché era la tonalità adeguata al tema, o è stata la sua scelta a renderla tale?”. La questione posta da Bell assume un valore tanto maggiore nel momento in cui decidiamo di relativizzare la cornice concettuale umana. Chi dice che una civiltà extraterrestre capisca il concetto di “pastorale”? Diamo per scontato che esistano, su tutti i mondi, degli animali da allevamento, dei pastori che si dedicano al loro sfruttamento, i pascoli e le transumanze, il contesto ideologico che ci fa apparire – in una società civilizzata – il mondo pastorale come idilliaco. Non che Bell si ponga questi problemi; ma se vogliamo davvero definire “universali” certi concetti, dobbiamo anche avere l’apertura mentale necessaria per applicarli in uno scenario davvero universale.

Hofstadter lo fa in maniera molto intelligente. Egli arriva alle stesse conclusioni di Bell, e cioè che difficilmente la musica atonale potrebbe contenere in sé un significato intellegibile. L’esempio di Hofstadter è quello del Paesaggio immaginario n. 4 di John Cage, notoriamente tra i più sperimentali autori di musica colta contemporanea. Il pezzo di Cage in questione è tra i più radicali in assoluto, perché prevede ventiquattro esecutori che, invece di suonare uno strumento, girino ciascuno le manopole di una radio, aumentando o diminuendo il volume e cambiando le stazioni. “Ora immaginiamo che sia questo il pezzo inciso nel disco mandato nello spazio. È estremamente improbabile, se non addirittura impossibile, che gli abitanti di una civiltà extraterrestre possano capire la natura del prodotto. Essi rimarrebbero probabilmente molto perplessi davanti alla contraddizione tra il messaggio in quanto tale (…) e il caos della sua struttura interna. In questo pezzo di Cage ci sono pochi ‘blocchi’ a cui appigliarsi, poche strutture che potrebbero guidare un decifratore. Al contrario, si può dire che in un pezzo di Bach ci sono molti appigli: strutture, strutture di strutture e così via” (Hofstadter, 2007). In tutto questo discorso ciò che emerge è l’idea che non sia possibile affidare una semantica universale alla musica, ma solo una sintassi. Del resto, Bell cita come esempio un esperimento condotto su alcuni cittadini della Liberia ai quali erano state fatte ascoltare note composizioni di musica classica occidentale. Non solo quelle composizioni non avevano prodotto in loro nessun’emozione simile a quelle che noi occidentali gli avremmo attribuito, ma in alcuni casi l’accoglienza era stata di palese ostilità: non pochi ascoltatori si erano alzati irritati abbandonando la sala dell’esperimento sostenendo che ascoltare quella musica fosse una perdita di tempo.

Anche se quest’esperimento potrebbe non essere stato condotto con tutti i crismi della scientificità – per esempio potrebbe aver ignorato un pregiudizio anti-occidentale degli ascoltatori – la tesi di fondo di Bell è condivisibile. La musica, sostiene, potrebbe essere per noi un piacevole distensivo, ma in altre culture ha una prevalente funzione pratica, come quella terapeutica (per esempio nelle culture sciamaniche). In questo caso, estrarre un significato estetico dalla musica potrebbe non essere un’esigenza universale. Per dirla con Aaron Copland (non a caso citato da Bell): “Il problema intero può essere posto con la domanda: «Si può dare un significato alla musica». Rispondo: «Sì». E: «Si può tradurre in parole questo significato?». Rispondo: «No». La difficoltà è qui” (Copland, 1954).

L’ultima ipotesi da prendere in considerazione è quella che vorrebbe una predilezione universale per la consonanza rispetto alla dissonanza. Di per sé la dissonanza non contrasta con una struttura musicale tonale che conserva la struttura logica che riteniamo possa essere universalmente intellegibile. È vero che le composizioni contemporanee sono piene di dissonanze, e questo aspetto è spesso considerato fastidioso. Ma anche la musica di Chopin è piena di dissonanze. La dissonanza è un costrutto culturale, argomenta Bell: il tritono, cioè un intervallo di tre toni tra una nota e l’altra (per esempio Do-Fa diesis), nel Medioevo era chiamato diabolus in musica e bandito dalla musica sacra. Ma all’epoca era dissonante anche la quinta giusta, cioè l’intervallo di sette semitoni o di tre toni e un semitono tra due note, come Do-Sol, che attualmente consideriamo il massimo esempio di consonanza (il tritono è in effetti considerato anche una “quinta diminuita”). All’epoca solo l’ottava era consonante: una convinzione collegata alla tradizione pitagorica. È vero che numerosi esperimenti hanno dimostrato che i bambini appena nati sembrano prediligere la consonanza rispetto alla dissonanza, e che questo fatto è stato confermato anche nel caso di figli nati da genitori sordomuti (i quali non ascoltavano musica durante la gestazione del neonato o cantavano ninne-nanne che il nascituro avrebbe potuto assimilare nell’utero materno). Ma il fatto che oggi venga prodotta molta musica che presenta al suo interno dissonanze, frutto senz’altro di un’emancipazione che ha radici culturali e quindi sociali, la dice lunga su quanto la musica sia un costrutto umano. Probabilmente, tra cinquant’anni – a meno di un radicale mutamento della moda musicale – qualcuno potrebbe inviare nello spazio un cd ricco di composizioni dodecafoniche e atonali, o comunque piene di dissonanze. Una civiltà extraterrestre potrebbe considerarlo una scempiaggine, o complimentarsi con i suoi autori. Non lo sapremo: sappiamo solo che oggi, rispetto a pochi decenni fa, abbiamo accettato la natura culturale e sociale della musica. Che è comunque un bel passo in avanti.


 

LETTURE

× Copland Aaron, Come ascoltare la musica, Garzanti, Milano, 1954.

× Hanslick Eduard, Il bello musicale, Martello Editore, Milano, 1971.

× Hofstadter Douglas R., Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi, Milano, 2007.

× Levitin Daniel J., Fatti di musica. La scienza di un’ossessione umana, Codice, Torino, 2008.

× Pinker Steven, L’istinto del linguaggio, Mondadori, Milano, 1998.

 

VISIONI

× Spielberg Steven, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Sony Pictures Home Entertainment, 2009.