LETTURE / DIARIO DI UNA SCRITTRICE


di Virginia Woolf / minimum fax, Roma, 2011 / pagine 415, € 9,00


La vita e altre finzioni di Virginia

di Erika Dagnino


La selezione da parte di Leonard Woolf delle pagine diaristiche di Virginia Woolf costituisce e dà forma al Diario di una scrittrice – A Writer’s Diary. Opera che rivela la continua pressione e costanza dell’agire e del non agire, in una dimensione cerebrale, prima ancora che fisica, come se tutta la vita, quasi fosse essa stessa una sorta di fenditura mentale fino alla fine dei giorni, si manifestasse inderogabilmente intellettuale; come se la vera vita fosse il continuo apporto e supporto di intelletto. Infatti, quello della Woolf non è un diario come lo si intende comunemente. Tanto che fissare dei punti e degli appigli è meno facile di quanto possa apparire sfogliandone via via le date. E mantenendo la vigile consapevolezza della selezione operata: “Il lettore non deve dimenticare che il contenuto di questo volume non è che una piccolissima parte dei diari e che gli estratti erano incorporati in una quantità di materiale che non riguarda affatto l’attività letteraria di Virginia Woolf” (dall’Introduzione a cura di Leonard Woolf, p. 8).

La materia è decisamente e meravigliosamente acquea, nel senso che la fruizione non può far parte di una categoria, collocando in una griglia specifica l’opera – del resto ogni diario appartiene a una persona individuale e non si può estendere a una sorta di codice che passa attraverso una sostanza riconducibile a precisi punti oggettivi o condivisi.

L’esperienza si presta come molto profonda intellettualmente diventando nell’immediatezza spirituale e incomparabile. La cultura e l’intellettualità appaiono come l’unica vera vita possibile, per questa ragione diventa intimamente difficile passare a considerazioni extra. In un discorso che possa riguardare lei in quanto autrice del suo diario, o questo tipo di operazioni, o questo tipo di diario in generale, la prima impressione che viene a definirsi come molto marcata è che tutto il resto della vita, al di là o al di qua della lettura e della scrittura, sembra risultare inesistente. Andando oltre e ulteriorizzando la potenzialità di qualunque appunto:

“Lei usava il diario in parte, come tutti quelli che tengono un diario, per annotare ciò che faceva e ciò che pensava della gente, della vita e dell’universo. Ma lo usava anche in modo molto personale, come scrittrice e come artista” (Ibidem, p. 6).

Virginia Woolf viaggiava. Va da sé che anche il viaggio in quanto tale è un libro, e contemporaneamente il libro è viaggio all’interno di se stessi, un itinere sia interno, di chi legge, sia esterno, riferito alla sostanza del libro stesso.

Si tratta ancora una volta di un percorso. È sempre, un percorso. La lettura come vita, la vita come lettura. Analoga la relazione tra vita e scrittura. Resta però complesso e complicato fissare le coordinate di tutto questo moto delineato e indefinito ad un tempo. Forse perché infinito, anche in quanto intraducibile il rapporto tra stato sensibile e parola assunta. Se si potessero riconoscere dei punti in comune tra la tipologia di uno scritto in quanto diario, resterebbe il problema di affermare che possa esistere in una categoria precostituita un certo tipo di diario. Che appunto non coincide con i meri fatti di esistenza o stato emotivo di semplice quotidianità vissuta.

“Era un modo per conversare con se stessa dei libri che stava scrivendo o si proponeva di scrivere, per discutere i problemi quotidiani d’intreccio o di forma, di carattere o di esposizione che le si presentavano durante la concezione, la realizzazione o la revisione di ogni suo libro” (Ibidem, p. 6).

Coincidendo invece il diario con il viaggio nel libro, già percorso esso stesso, il diario sembra assumere le sembianze di libro per eccellenza, o meglio, di libro completo. Libro dei libri. Dove non manca la creazione e/o l’esistenza di veri e propri personaggi – Edward Morgan Forster, Thomas Stearns Eliot, Vanessa Bell, Lytton Strachey… – del libro diario. Che via via diventano noti e vengono anche dal lettore – già aiutato in apertura da “un glossario di nomi di persone citate nel diario” (ibidem, p. 8) aggiunto dallo stesso Leonard Woolf con l’esplicita intenzione di “aiutare il lettore a comprendere a chi si riferisce nei vari passaggi” (ibidem, p. 8) – identificati per mezzo di sole lettere dell’alfabeto puntate o con appellativi mutuati dalla familiarità – Morgan, Tom, Nessa, Lytton… –. Presenze o assenze che si addensano o si dilatano, si distinguono o si disperdono, interagendo in quella sorta di vita vivente vissuta, che però si fa al di là o forse al di qua della vera vita vivente, dello scrivere, del leggere, tra la critica e la creazione. Così che i vari personaggi, pur viventi, pur reali, in questo tipo di situazione si configurano persino come propri del libro, personaggi del diario in quanto libro.

Volgendo dunque l’attenzione tutta al discorso di quell’io – ché in definitiva c’è un io in ogni diario – come si viene a collocare? È quello che scrive il diario, quindi autore, ma è anche il trascrittore di libri propri e di libri di altri, dunque narratore; e riflettente, che riflette sulle situazioni e circostanze trascritte. Ma non manca il revisore, e come tale si fa revisore di tutta l’intera opera. Senza contare che per chi legge esso risulta essere ed essere percepito come personaggio esterno, alieno dunque rispetto a chi legge. Persino l’io in un diario di questo tipo – non si è dimenticato che resta il problema di affermare che possa esistere in una categoria precostituita un certo tipo di diario – è un io scritto e trascritto. Dove la materia è magmatica per definizione, dove emozioni e fatti per il lettore possono diventare anche romanzo. Verificandosi una sorta di recupero della finzione.

Il fatto che si dica diario sembra collocare la materia e la scrittura su un piano realistico, in questo caso il vero diario, una vera esperienza del diario, ma che diventa finzione nel momento in cui è trascritto. Infatti, che tipo di effetto fa il diario in quanto movente e agente della narrazione stessa? C’è sempre una presa di distanza tra chi scrive e trascrive le sue stesse esperienze e le esperienze stesse, quindi già il linguaggio non è quello dell’esperienza vissuta in prima persona dallo stesso scrittore/trascrittore. Poi c’è la distanza tra chi legge e i dati dell’esperienza letti, e tra chi legge e se stesso. Nella misura ulteriore dell’esperienza di chi legge e dell’esperienza di chi ha scritto. Si viene pertanto a diramare ed estendere una molteplice serie di direzioni e di distanziazioni. Tra vicende vissute, vicende elaborate; vicende già elaborate e ulteriore cerebralizzazione di quanto viene prodotto. E a seguire in tutto il rapporto tra l’autore e la lettura dell’altro. Fino a rientrare nel primo filtro che è e rimane – barriera nostra – tra la Woolf che scrive e le sue personalissime esperienze vissute. Intreccio di specchi; di facce del prisma. In più queste relazioni comportano un incidere, un plasmarsi oppure un indurirsi nel rifiuto di plasmarsi. Dall’effetto molteplice: una cosa diventa un contatto e di conseguenza muta la sua natura, facendosi quindi relazione partecipata anche entro una naturale separazione.

Nell’intera sostanza magmatica del diario sembra scorrere un continuo raffinatissimo senso di artificioso. Lei stessa si rimproverava di non essere senza inibizioni, passando anche attraverso sue proprie riserve. Incentrate su metafore e simboli. Anche nei momenti più drammatici i suoi scritti non sono necessariamente diretti. Anzi, sembrano passare attraverso geroglifici decisamente personali. Filtro a se stessa di se stessa.

C’è e rimane un suo mondo, di Virginia Woolf. E del compilatore del diario tout court.

In un discorso riferibile al rapporto tra emozione e razionalizzazione del citare. Nel senso di partire da un gusto prettamente individuale per portare ad un’esperienza intellettuale.

Da un lato, si pone l’emozione primaria recuperata, perché è il gusto stesso dell’Io che trasforma l’esperienza, anche sul piano intellettuale in individuale esperienza conoscitiva. E in esperienza conoscitiva in quanto tale. Diventa atto del citare, del raccontare e raccontarsi citando, quindi una citazione che si fa racconto. Dall’altro, parte da un’esperienza conoscitiva emozionale: viene filtrata dalla citazione narrazione essa stessa come esperienza, rivelandosi esperienza risultato di forma, intesa come forma espositiva strutturata. Intellettuale: intesa anche in termini di fruizione, manifestandosi esperienza rielaborata come propria. Citazione: di sé, di altri; fruizione di libri: dei propri, degli altri.

La vita della Woolf, inoltre, passava attraverso l’esperienza diretta della casa editrice, anche in senso fisico vero e proprio, di costruzione e quindi recupero del libro anche fisicamente inteso. Libri pubblicati perciò resi maggiormente o per la prima volta pubblici, di sé e di altri dalla propria casa editrice, The Hogarth Press, in una relazione assolutamente diretta e direttamente assoluta tra la vita e il libro. La scrittura e la lettura. La creatività narrante e la creatività critica.

“Questo libro illumina gli intenti, gli scopi e i metodi di Virginia Woolf come scrittrice. Offre un insolito quadro psicologico della creazione artistica vista dall’interno” (ibidem, p. 7).