LETTURE / GLI INKLINGS: C.S. LEWIS, J.R.R. TOLKIEN, CHARLES WILLIAMS E GLI ALTRI


di Humphrey Carpenter / Marietti 1820, Milano-Genova, 2011 / pagine 347, € 30,00


La religione della fantasia

di Roberto Paura


Un filosofo nostrano come Benedetto Croce possedeva – benché il paragone possa suonare ardito – diversi elementi in comune con gli scrittori e studiosi inglesi J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis. Certo, se anche avesse letto le loro opere, le avrebbe senza dubbio bollate con quel suo consueto astio che tanto pesa ancora oggi sulla critica letteraria italiana. Eppure, l’ideologia conservatrice (ma non certo reazionaria) di Croce non avrebbe avuto difficoltà ad abbracciare il pensiero dei due professori di Oxford: legati a concezioni tradizionali di governo, sostanzialmente monarchiche, scarsamente favorevoli alla democrazia intesa come governo delle masse, ma non solo. Quando Croce pubblicò il suo pamphlet Perché non possiamo non dirci cristiani, intendeva spiegare perché la cultura occidentale dovesse tanto all’avvento del Cristianesimo, da lui considerato come la più grande rivoluzione della storia. Non era un cristiano strictu sensu: era un laico, probabilmente un ateo, che riconosceva pur sempre l’importanza essenziale dell’evento cristiano. Croce aveva una sola religione, che definì nei suoi tardi scritti come la “religione della libertà”, la quale ben si sposava con la sua filosofia della storia e sommessamente suggeriva anche l’esistenza di una sorta di Provvidenza nel fluire delle vicende umane. Tolkien e Lewis erano invece cristiani: lo erano così intensamente, a quanto sembra, che la gran parte della critica non ha potuto fare a meno di individuare nella loro fede cristiana il collante essenziale della loro amicizia e della loro produzione letteraria, tanto da parlare dei “due cristiani di Oxford” (come se non ce ne fossero mai stati degli altri). Forse la realtà è diversa. Forse Tolkien e Lewis, come gli altri membri di quel circolo letterario informale noto come “Inklings” (gli ‘scribacchini’, se proprio vogliamo trovarne un’accettabile traduzione non letterale), avevano anche loro un rispetto profondo per il Cristianesimo, ma in cuor loro coltivavano un culto diverso, più intimamente intrecciato con le loro esperienze e le loro radicate convinzioni filosofiche.

Nel suo approfondito saggio Gli Inklings, ripubblicato ora dopo diversi anni dalla Marietti nella collana “Tolkien e dintorni”, il celebre biografo Humphrey Carpenter, dopo aver trattato le diverse e complesse personalità dei principali membri del gruppo – Lewis, Tolkien, Charles Williams – si chiedeva cosa, dopotutto, questi uomini avessero in comune. Carpenter nel suo volume respingeva le tesi dominanti della critica: non condivideva l’idea che esistesse davvero un atteggiamento comune agli Inklings, sottolineandone le tante differenze in termini di interessi e credenze personali. Soprattutto, criticò l’etichetta affibbiata agli Inklings di “cristiani di Oxford”, ricordando le diverse fedi dei principali membri del gruppo: il cattolicesimo di Tolkien, il protestantesimo di Lewis, l’antroposofismo di Owen Barfield, l’interesse di Charles Williams per il sovrannaturale. Perché allora insistevano nell’incontrarsi settimanalmente, intessendo nutriti epistolari, presentando agli altri in anteprima i propri scritti perché potessero commentarli? Per Carpenter, sostanzialmente, ciò si spiegava semplicemente con il fatto che tutti, più o meno, subirono l’influenza magnetica della personalità di C.S. Lewis, che di fatto fu gli Inklings, tant’è vero che il gruppo si sfilacciò quando, in seguito alla morte di Williams e alle distanze prese da Tolkien, in rotta con le scelte di Lewis in materia professionale (l’attività di apologeta di un cristianesimo che il cattolico Tolkien non condivideva) e personale (il matrimonio con Joy Davidson), ognuno prese la propria strada.

Eppure, le cose non stavano esattamente come Carpenter, interessato a smentire l’opinione che gli Inklings costituissero un “circolo letterario”, le ha esposte. In un più recente lavoro sull’argomento, acclamato dalla critica, Diana Pavlac Glyer ha smantellato le tesi di Carpenter evidenziando invece come attraverso le loro opere gli Inklings riuscirono a influenzarsi vicendevolmente. Non solo. Pavlac Glyer ripesca alcune importanti affermazioni di membri degli Inklings e di coloro che ne furono amici personali per difendere l’idea che la comune fede religiosa costituisse il più profondo substrato della loro comunanza letteraria. Il fratello di C.S. Lewis, Warren, pur respingendo l’etichetta di “cristiani di Oxford”, ammise che gli Inklings avevano in comune non solo il fatto di risiedere tutti a Oxford, ma di essere anche “tutti credenti”. E lo stesso C.S. Lewis, in una lettera a Charles Williams in cui lo invitava a partecipare alle riunioni del gruppo, spiegò che essi condividevano “una passione per la scrittura e la fede cristiana”. Secondo un membro minore degli Inklings, David Cecil, “questo aspetto religioso è molto importante” se si vuole davvero comprendere la natura di quel circolo di intellettuali (Glyer, 2007, p. 29). Warren Lewis rifiutava la definizione di “cristiani di Oxford” per una sola ragione: che essa sembra suggerire un esplicito intento missionario degli Inklings, quasi come se il loro fine ultimo fosse quello di evangelizzare i lettori tramite le proprie opere. Non era così. Gli Inklings, nelle loro opere, predicavano sì una fede religiosa, ma non esattamente quella che professavano ufficialmente. E per capire esattamente in cosa consistesse quella che potremmo definire, parafrasando Croce, la “religione della fantasia”, il vero credo comune degli Inklings, dovremmo rileggere attentamente le pagine di Carpenter sulla celebre conversione al cristianesimo di C.S. Lewis.

A differenza di Tolkien, che non ebbe difficoltà ad abbracciare la conversione al cattolicesimo della madre, la cui morte quand’egli aveva appena dodici anni fece seguito a quella altrettanto prematura del padre, lasciando lui e il fratello minore Hilary orfani sotto la tutela del rigido sacerdote cattolico Francis Morgan, C.S. Lewis proveniva da una famiglia protestante dell’Irlanda del Nord, ma fin da giovanissimo respinse ogni fede religiosa professandosi ateo. In una lettera all’amico Arthur Greeves scrisse chiaramente: “Saprai, suppongo, che io non credo in alcuna religione… Tutte le religiosi, ossia tutte le mitologie – perché di questo si tratta – sono semplici invenzioni dell’uomo: Cristo allo stesso modo di Loki”. All’epoca Lewis non poteva saperlo, ma quel riferimento alle mitologie avrebbe costituito la chiave di volta della sua successiva conversione. Perché fondamentalmente gli Inklings erano accomunati da una passione per le storie mitologiche: quando giunse a Oxford per insegnare, Lewis superò presto la diffidenza nutrita verso il cattolico Tolkien (“ero stato avvertito di non fidarmi mai di un papista e di un filologo, e Tolkien era l’uno e l’altro”, dichiarò una volta) dopo aver scoperto il comune interesse per la mitologia classica e soprattutto per la meno nota mitologia nordica.

Per Tolkien, la mitologia non era solo un insieme di storie inventate. Nel suo saggio Sulle fiabe presentato per la prima volta oralmente nel 1938, Tolkien si spingeva a sostenere il reciproco rapporto tra la fiaba e quindi la storia fantastica o mitologia e la religione: “È comunque essenziale, per una fiaba genuina, in quanto distinta dall’uso di questa forma a fini secondari o degradati, che essa sia presentata come vera” (Tolkien, 2000, p. 36). Cosa intendeva con questa frase l’autore del Signore degli Anelli? Che anche la sua più celebre opera era vera? Non nel senso concreto del termine. La Terra-di-Mezzo non esisteva realmente, certo. Eppure, in sé possedeva qualcosa di vero. Continuando, Tolkien sosteneva che “l’inventore di fiabe si rivela un felice «subcreatore», il quale costruisce un Mondo Secondario in cui la mente del fruitore può entrare. All’interno di tale mondo, ciò che egli riferisce è «vero», nel senso che concorda con le leggi che vi vigono. Di conseguenza ci si crede, mentre vi si è, per così dire, dentro” (Ivi, p. 54). L’essenza della sub-creazione, per Tolkien, sta appunto nella capacità di creare un mondo credibile, un mondo all’interno del quale colui che ne fruisce accetta anche le cose più stravaganti – elfi e alberi parlanti, per fare un esempio – perché coerenti con quel mondo. E per quanto possa sembrare incredibile, Tolkien non aveva alcuna difficoltà a portare quel ragionamento nel nostro mondo, applicandolo alla storia di Cristo. “I Vangeli”, disse “contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include l’intera essenza delle fiabe… Solo che questa vicenda ha penetrato di sé la Storia e il mondo primario; il desiderio e l’anelito della sub-creazione sono stati elevati al compimento della Creazione” (Ivi, p. 96). E concludeva con un’affermazione perentoria e fondamentale: “Il Vangelo non ha abrogato le leggende; le ha santificate” (p. 97).

In sostanza, nel corso delle sue riflessioni e della sua produzione letteraria, Tolkien era riuscito a mettere accordo tra la sua passione per le leggende nordiche “pagane” e la sua fede cristiana. Quelle leggende, le fiabe che tanto amava e che aveva rielaborato nelle sue storie della Terra-di-Mezzo, possedevano pur sempre un barlume di verità, perché illuminate dall’evangelium, dalla Verità cristiana: “La Fantasia rimane un diritto umano: creiamo alla nostra misura e nel nostro modo derivativo perché siamo stati creati; e non soltanto creati, ma fatti a immagine e somiglianza di un Creatore” (Ivi, p. 76). Ecco il primo riferimento a quella “Fantasia”, non a caso usata da Tolkien con la maiuscola, che costituisce l’essenza del credo degli Inklings. C.S. Lewis non entrò subito in contatto con queste idee di Tolkien. Il suo primo approccio a un tipo diverso di credenza religiosa avvenne con Owen Barfield, fervente antroposofista e divulgatore del pensiero di Rudolf Steiner. Lewis rimase molto perplesso dalla scelta di Barfield, amico per lui più intimo di Tolkien in quegli anni, e iniziò a discutere dell’argomento in una fitta corrispondenza che sarebbe divenuta nota come “la Grande Guerra”. In quelle lettere, che in realtà erano delle vere e proprie dissertazioni, Lewis criticava le argomentazioni sovrannaturali dell’antroposofia, ma gradualmente Barfield riuscì a incrinare il suo saldo razionalismo, sostenendo l’idea che “… l’immaginazione e l’esperienza estetica portano effettivamente, anche se non automaticamente, alla verità oggettiva, o quanto meno a una migliore comprensione del mondo” (Carpenter, p. 56). Era una tesi che Lewis poteva accettare, perché da tempo nel suo intimo coltivava l’idea che l’immaginazione, la fantasia, la “Gioia”, fossero elementi che sfuggivano a una visione totalmente razionale del mondo come quella che egli si ostinava a professare. E per quanto nel suo diario iniziasse ad ammettere che i suoi punti fermi sull’argomento cominciassero a vacillare, nel gennaio 1927 annotò la sua angoscia per “… il pericolo di ricadere nelle superstizioni più infantili” (Ivi, p. 61).

Lewis, dunque, esigeva una conversione di natura puramente intellettuale, rifiutando quel “sacrificio dell’intelletto” che per Max Weber costituiva l’inevitabile rinuncia imposta dalla fede. Il 19 settembre 1931, un sabato sera, durante una passeggiata dopo cena tra i giardini dell’Università insieme a Tolkien e Hugo Dyson, C.S. Lewis fece cadere la discussione sul mito. Ritornava cioè a quella frase rivolta a Greeves che sosteneva l’identità tra mito e religione: “Per quanto belle e toccanti potessero essere queste storie, esse erano (lui diceva) in fin dei conti false – come spiegò a Tolkien, i miti erano «menzogne, e quindi privi di valore, anche se sussurrati attraverso l’argento»” (Ivi, p. 64). E qui Tolkien ebbe modo di intervenire. Forse non gli parve vero che la contestazione di Lewis sulla verità dei miti e dunque delle religioni cadesse proprio sul punto che a lui stava più a cuore. Tolkien gli rispose con la sua teoria della sub-creazione, sostenendo cioè che le fiabe e i miti anche pagani, essendo frutto di una sub-creazione, erano pur sempre illuminati dalla verità della Creazione: “I miti pagani, perciò, non sono mai semplici «bugie»: in essi vi è sempre qualcosa di vero” (p. 65). E allora, aggiunse Tolkien, non poteva Lewis applicare lo stesso ragionamento alla storia narrata nei Vangeli? La differenza, in quel caso, sarebbe stata costituita ‘semplicemente’ dal fatto che “il poeta che ne era stato l’ideatore era Dio stesso”; pertanto, con la vicenda cristiana il mito sarebbe “diventato un evento, pur mantenendo le caratteristiche di un mito” (p. 66). Era il passaggio logico sfuggito a Lewis. Accettando il Cristianesimo come un mito reale, e abbracciando la tesi di una sostanziale verità di ogni mito perché riflesso di quel grande evento storico-mitologico della crocifissione e resurrezione, del Dio fatto Uomo, Lewis poteva finalmente mettere ordine e pace dentro di sé, e convertirsi al Cristianesimo, non più in contrasto con le proprie intime convinzioni.

Di fatto, Tolkien e Lewis rileggevano la storia evangelica come mito: la innalzavano sì al di sopra di ogni altra storia, ma non la ponevano in contrasto con esse. Del resto lo stesso Lewis, anche dopo la famosa conversazione del settembre 1931, continuò a sostenere che i miti nordici – la grandiosa saga dei Volsunghi, l’Edda, o anche la leggenda anglosassone di Beowulf, amata da Tolkien – possedessero più bellezza delle storie del Vangelo, un giudizio che Tolkien stesso non faticava a condividere. È come se, accettando la verità del mito cristiano e quindi illuminando della stessa verità anche gli altri miti, Lewis e Tolkien fossero riusciti a far convivere dentro di loro due anime sostanzialmente diverse. Come ha scritto il critico cattolico Thomas Howard: “Se l’autentica verità sulla vita umana è qualcosa di simile a quello che tutte le religioni e mitologie, tribù e civiltà hanno immaginato fino a più o meno duecento anni fa, allora le storie che raccontano della vita in quei termini non sarebbero più ingannevoli, ma vere. O almeno, potremmo dire, sono tanto vere, con tutti i loro unicorni, squilli di tromba e formule magiche” quanto la letteratura moderna (Howard, 2008, p. 16). Si dovrebbe quindi concludere che Tolkien e Lewis non erano veri cristiani? No, lo furono. Ma lo furono alla stregua di Charles Williams e Owen Barfield. Quelle differenze dottrinarie che esternamente potevano professare – cattolicesimo, protestantesimo, antroposofia – non erano che pura apparenza. Sostanzialmente, gli Inklings condividevano un’uguale fede, la fede nel potere creativo della Fantasia. Riprendendo Tolkien, “la Fantasia in questo senso è… non già una forma inferiore, bensì più elevata di Arte, anzi la forma più pura (o quasi pura) di essa, e pertanto, quando la si raggiunga, la più pregnante” (Tolkien, cit., p. 67).

Ciò che per gli Inklings andava recuperato era il vero potere della Fantasia, quello capace di rendere reali cose apparentemente impossibili nel nostro mondo. E ciò si ricollegava all’idea di Cristo come mito diventato storia: quello che è scritto nei Vangeli, per quanto in contrasto con la nostra esperienza quotidiana e quindi con l’idea che abbiamo del mondo, è vero. I miracoli compiuti da Cristo e la sua resurrezione sono veri; perciò, gli Inklings rifiutavano le letteratura moderna o post-moderna che usava la fantasia come mero simbolismo (lo scarafaggio di Kafka è reale o è simbolico? Dante si smarrisce davvero in una foresta o sta usando un’allegoria?) e scrivevano storie in cui fatti e personaggi immaginari venivano dati per scontati: così come i fratelli Pevensie possono bere un tè con un fauno e parlare con i castori, così la foresta di Fangorn prende vita e marcia contro Saruman (realmente, non solo illusoriamente come nel Macbeth di Shakespeare, sottolineava sprezzante Tolkien). In questo senso, essi ammettevano l’esistenza di un qualche piano soprasensibile della realtà, un piano trascendente, spiegabile all’interno della cornice cristiana, certo, ma in grado di superare anche i ristretti limiti della metafisica religiosa. Tutti gli Inklings furono senza dubbio influenzati, volenti o nolenti, dall’antroposofia di Steiner: essa riusciva a introdurre una componente soprannaturale nel mondo reale non necessariamente in contrasto con la religione cristiana (Steiner del resto si definiva, appunto, un cristiano). Alcuni elementi della “scienza occulta” antroposofica potrebbero essere rintracciati nella produzione letteraria degli Inklings: l’idea dei pianeti intesi come potenze ‘vive’, ripresa da Lewis nella sua Trilogia spaziale; la fede nella passata esistenza di Atlantide, accolta anche da Tolkien (che nella sua mitologia la chiamò Numenor); e senz’altro l’influenza del saggio di Barfield Poetic diction, pubblicato nel 1928.

In Poetic diction, Barfield sosteneva per primo rispetto a Lewis e Tolkien che nelle epoche antiche, quando gli uomini iniziarono a usare la parola, non esisteva un linguaggio metaforico o figurato: “Ad esempio, quando oggi si traduce il latino spiritus si è costretti a renderlo o con «spirito» o con «respiro» o con «vento» a seconda del contesto. Ma gli antichi non operavamo questa distinzione di significati. Per loro la parola significava qualcosa come «spirito-respiro-vento». Quando soffiava il vento, non era «come se» qualcuno stesse respirando: era realmente il respiro di un dio” (Carpenter, cit., p. 62). Nessun dubbio che quelle teorie, recepite da Lewis, fecero una grande impressione su Tolkien. Egli stesso lo ammise, e la teoria dell’originaria unità semantica ispirò senz’altro la filosofia tolkieniana, come ha osservato Verlyn Figler (2008), che ne ha rintracciato gli echi sia, ovviamente, nel saggio Sulle fiabe, che nelle leggende del Silmarillion, che si concentra talmente sul potere evocativo delle parole al punto da poter essere considerato quasi un saggio filologico. Per gli Inklings, dunque, la metafora non è che il frutto della modernità, e come tale va rigettata. La loro produzione letteraria è tutta tesa a restituire verità e realtà ai draghi, agli animali parlanti, ai viaggi tra i mondi, agli elfi e ai fantasmi. Il Signore degli Anelli costituisce, secondo il critico Stefano Giuliano, un’autentica “riapertura al sacro”: “Scomparsa ogni metafisica, crollate le gerarchie, private di significato fedi e credenze, divenuti precari tutti i modelli di riferimento, la narrativa tolkieniana sembra volersi porre come un tentativo… di riconferire vigore e forza a idee e valori antichi, restituire magia e mistero ad un mondo preda dello scetticismo, fornire una possibile via d’uscita al disorientamento di cu è vittima l’uomo contemporaneo” (Giuliano, 2001, p. 25).

Gli Inklings erano uomini inattuali. Il loro scopo ultimo, perché c’era uno scopo nella loro arte, consistette nel cercare una via di fuga da un mondo in rovina, distrutto dall’industria e dallo scientismo. E alla fine scoprirono che l’unica via di fuga praticabile passava attraverso la creazione di mondi fantastici, frutto della loro immaginazione, certo, ma non per questo falsi; anzi, probabilmente, per loro, molto più reali di quello in cui vivevano.

 


LETTURE

× Croce B., Perché non possiamo non dirci cristiani, Laterza, Bari, 1959.

× Flieger V., Splintered light: logos and language and Tolkien's world, 2002, trad. it. Schegge di luce. Logos e linguaggio nel mondo di Tolkien, Marietti 1820, Genova-Milano, 2008.

× Giuliano S., Le radici non gelano. Il conflitto fra tradizione e modernità in Tolkien, Ripostes, Salerno, 2001.

× Howard T., Narnia and Beyond. A Guide to the Fiction of C.S. Lewis, 2006, trad. it. Narnia e oltre. I romanzi di C.S. Lewis, Marietti 1820, Genova-Milano, 2008.

× Pavlac Glyer D., The Company They Keep. C.S. Lewis and J.R.R. Tolkien as Writers in Community, Kent State University Press, Ohio, 2007.

× Tolkien J.R.R., On Fairy-stories, 1964, trad. it. Sulle fiabe, in Albero e Foglia, Bompiani, Milano, 2000.