VISIONI / IF GOD IS WILLING AND DA CREEK DON'T RISE


di Spyke Lee / HBO 2010


Per volontà divina,
umana o non umana?

di Dario Minervini


Il documentario If God is Willing and Da Creek Don’t Rise, trasmesso il 23 e 24 agosto dall’emittente americana HBO, avrebbe dovuto essere il racconto cautamente ottimistico di Spike Lee sulla rinascita economica e sociale di New Orleans a cinque anni dalla devastazione dell’uragano Katrina. Il documentario, infatti, si apre con l’euforia festante delle strade del French Quarter di New Orleans in occasione della vittoria della squadra locale, i Saints, al Super Bowl. Ma la sera del 20 aprile il piano di lavoro del regista americano subisce una profonda rivisitazione. Una violenta fuoriuscita di gas provoca l’esplosione e l’incendio dell’impianto DeepWater Horizon, una piattaforma petrolifera fino a quel momento considerata il gioiello tecnologico della Transocean, la più grande società di trivellazione offshore al mondo. La versione dell’incidente maggiormente accreditata riferisce di una bolla di metano sfuggita ai dispositivi di controllo della pressione adoperati nell’estrazione di petrolio dal pozzo Macondo, un esteso giacimento a meno di 70 chilometri dalla costa della Louisiana e ad oltre 10.000 metri di profondità. Sin da subito si ha la sensazione che i numeri di questo disastro saranno talmente fuori misura da perdere di senso, numeri che verranno forniti senza sosta dai media e dagli officials dei soggetti economici e istituzionali coinvolti. Quello che invece appare indiscutibile è la morte di undici persone e la gravità della catastrofe ecologica causata dallo sversamento in mare di una quantità enorme di petrolio.

A seguito dell’incidente la lavorazione di If God is Willing and Da Creek Don’t Rise è stata riaperta per dedicare una parte significativa della pellicola alla sciagura man-made che stava investendo le coste della Louisiana. Il risultato è stato un documentario nel quale la rappresentazione della speranza di rinascita della comunità di New Orleans si alterna a quella del disastro ambientale del Golfo. Nonostante il titolo del documentario faccia riferimento ad un modo di dire che invoca il favore divino e la clemenza degli elementi naturali, Spike Lee mostra uno scenario chiaramente antropocentrico nel quale il bene ed il male dipendono sempre e comunque dall’uomo. In questo caso specifico le conseguenze nefaste dei due eventi sono direttamente imputabili all’errore (o al deliberato agire) umano ed in particolare all’avidità di grandi imprese e di funzionari senza scrupoli che hanno approfittato della debolezza economica e politica delle popolazioni del Golfo del Messico.

Qui proveremo ad avanzare un ragionamento differente, cercando di riportare le entità naturali coinvolte nei disastri sulla scena delle responsabilità. Questo, perché vorremmo ridimensionare quello che pare essere un approccio dominante e trasversale rispetto alle posizioni in campo secondo cui l’agire umano ispirato dall’etica (politica) e dalla razionalità (tecnica) possa essere sufficiente a contrastare sia le calamità naturali, come quello provocato da Katrina, sia gli incidenti imputabili all’errore umano, come quello recentemente occorso nelle acque del Golfo del Messico. Proprio a partire da quest’ultima disastrosa vicenda si proverà a tracciare, seppur brevemente, una linea di riflessione sul tema della responsabilità sociale d’impresa (o CRS secondo il noto acronimo anglosassone) e sulla sua caratterizzazione irriducibilmente antropocentrica.

In uno dei più noti manuali di sociologia ambientale Luigi Pellizzoni e Giorgio Osti (2008) propongono una interessante storia dell’evoluzione di questa giovane disciplina individuando i principali eventi che hanno dato impulso alla nascita di nuove categorie d’analisi. Si parte dagli esperimenti atomici del 1954 eseguiti presso l’arcipelago delle Bikini, che coincisero con l’avvio delle prime riflessioni sociologiche sul rapporto fra società e ambiente, e si arriva a casi più recenti come l’epidemia di Bse e la clonazione della pecora Dolly, in uno scenario di incertezza e rischio diffuso. Nel mezzo disastri petroliferi, incidenti nucleari, l’assottigliamento della fascia di ozono nell’atmosfera e altre vicende epocali, ciascuna accompagnata da un segno evidente di discontinuità, dall’affermazione di una nuova idea chiave. Volendo dare seguito alla cronaca di Pellizzoni ed Osti, proprio la CSR potrebbe rappresentare oggi una delle chiavi di lettura da associare al disastro del Golfo del Messico, un disastro caratterizzato da un’imponente campagna di comunicazione pubblica che ha impegnato tutti i principali attori “socialmente responsabili”.

Il concetto di Corporate Social Responsabilty accompagna ormai da anni l’operato delle imprese, in particolare delle grandi multinazionali, che hanno affiancato al linguaggio finanziario quello della sostenibilità sociale ed ambientale, dichiarando il proprio impegno sul versante del rispetto dei lavoratori impiegati così come delle comunità nelle quali l’agire economico viene realizzato. Come afferma Lorenzo Morri (2009) si tratta di un impegno volontario di accountability con cui le imprese danno conto dei principi etici che guidano le strategie economiche e il perseguimento della propria mission. Al di là della dimensione etica, evidentemente la CSR è anche, e in alcuni casi soprattutto, una questione di rappresentazione dell’immagine dell’impresa e come tale può essere considerata una differenziazione strategica della comunicazione aziendale e dello stesso marketing. Il disastroso caso del Golfo del Messico offre un concentrato interessante di questa produzione di accountability che ha impegnato la Transocean e soprattutto la British Petroleum, gestore della piattaforma e proprietaria del petrolio estratto, in una campagna di comunicazione della sostenibilità sociale ed ambientale del proprio agire economico.

Visitando il sito della Transocean si può osservare come la società dedichi una sezione intera alla CSR e diversi link alla responsabilità ambientale. Collegandosi a questi ci si imbatte nella declinazione di un elenco di principi etici (fra cui integrità, onestà, trasparenza, rispetto) indiscutibili, così nella presentazione di sistemi di gestione dell’impatto ambientale, come nella promozione di progetti scientifici sulla tutela ambientale.

La stessa società, inoltre, vanta una importante certificazione del lavoro svolto sul versante della CSR. Nel settembre del 2009, infatti, la Transocean è stata inserita fra le prime cinquanta imprese elencate nel Carbon Disclosure Leadership Index, classifica stilata da un’organizzazione non profit che certifica le buone pratiche delle grandi compagnie sul fronte del cambiamento climatico globale.

Ancora più interessante risulta il caso della British Petroleum che nel 2000 aveva “socialmente responsabilizzato” addirittura il nome della corporate affidando alle proprie iniziali una promessa decisamente impegnativa: Beyond Petroleum. L’operazione di maquillage, che prevedeva anche il rifacimento del logo con l’attuale sole giallo-verde, è stata talmente efficace da essere premiata con il premio PRWeek per la migliore campagna pubblicitaria dell’anno e l’Effie d’oro della American Marketing Association. Contemporaneamente la società sponsorizzò il proprio impegno finanziario sul versante delle energie rinnovabili e dichiarò di considerare, diversamente dalle altre multinazionali operanti nel settore delle risorse energetiche fossili, il riscaldamento globale come un fatto scientificamente appurato ed incontrovertibile. Si calcola che a partire dall’operazione di rinnovamento della propria immagine, annualmente la BP abbia speso oltre 120 milioni di dollari in attività riconducibili alla responsabilità sociale d’impresa.

Questo è, in brevissima sintesi, quello che la società inglese ha messo in campo prima dell’incidente, ma ben più rilevante è la strategia massiva di comunicazione e di rendicontazione in tempo reale del disastro messa in campo dopo il 20 aprile. I notiziari delle emittenti televisive di tutto il mondo hanno trasmesso in diretta le immagini del flusso ininterrotto di petrolio che sgorgava dalla falla, immagini suggestive catturate da una telecamera sottomarina posizionata dalla stessa BP. Quotidianamente si sono susseguiti comunicati e dichiarazioni con cui i dirigenti della BP, in un crescendo di ammissione di colpa e di gravità del disastro, hanno espresso l’intenzione di prendere in carico “tutti” i costi causati dall’incidente. La quantificazione economica di questa assunzione di responsabilità è stata costantemente riportata nella web page della multinazionale dedicata al Gulf of Mexico response. La strategia di comunicazione pubblica della BP è stata totalizzante e non ha tralasciato nessuno dei fronti della crisi, riferendo delle operazioni di pulizia delle spiagge, del monitoraggio del pozzo Macondo, delle operazioni di rimborso dei danni reclamati dagli abitanti e dai lavoratori delle zone colpite dalla marea nera, delle modalità di recupero della fauna compromessa a seguito dello sversamento di petrolio in mare.

Nonostante questa imponente campagna di comunicazione e l’attività CSR promossa prima e dopo l’incidente, la BP non ha potuto evitare pesantissime critiche e accuse. Ma più che i fallimenti tecnologici della BP o la tendenza dei dirigenti inglesi a minimizzare le conseguenze del disastro, pare interessante sottolineare la contraddizione intrinseca alla retorica della CSR ed in particolare la incongruenza fra l’approccio profondamente antropocentrico della responsabilità sociale d’impresa e la dimensione ambientale della responsabilità. Infatti la vicenda ha mostrato, o meglio ribadito, che la CSR coincide con una dichiarazione d’intenti attraverso cui una società (composta di risorse economiche, tecnologiche ed umane) si impegna ad agire secondo principi etici ben definiti al fine di preservare la comunità dei propri lavoratori e quella del contesto nella quale intende operare (fatta di elementi naturali e di uomini). In pratica la CSR, dunque, è una dichiarazione – socialmente determinata – di presa in carico del benessere e della qualità della vita – anche questi socialmente determinati – dichiarazione nella quale la componente non umana è presente, sotto forma di tecnologie di produzione e di entità ambientali, ma riveste un ruolo puramente strumentale nel primo caso e di scenario nel secondo. A riprova di quanto affermiamo è possibile evidenziare alcuni aspetti che hanno caratterizzato il disastro avvenuto nel Golfo del Messico. Un primo dato interessante emerge se si guarda a quelli che sono stati individuati come i principali destinatari dell’impegno della BP nell’assunzione delle responsabilità conseguenti all’incidente. Nonostante le profonde divergenze, sia la BP che i suoi più acerrimi oppositori, fra cui il gruppo Boycott BP operativo sul social network facebook con oltre 850 mila simpatizzanti, hanno dato particolare risalto all’esigenza di recuperare i posti di lavoro persi dalle comunità locali interessate dalla marea nera. Si rileva, poi, una seconda urgenza strettamente connessa con la prima, quella della tutela della salute fisica e mentale delle stesse comunità locali. Su questi due punti anche il Presidente Obama è stato particolarmente enfatico assicurando che le operazioni di ripulitura delle coste della Louisiana sarebbero state tali da rendere quei luoghi ancora più ospitali che in passato. Osservando anche il documentario di Spike Lee, l’impressione che si ricava dai discorsi delle autorità americane, dai comunicati dei manager inglesi della BP, dalle esternazioni di gran parte dell’opinione pubblica, è che l’ambiente coincida con lo spazio fisico entro cui la presa di responsabilità viene realizzata. Nonostante le ripetute immagini trasmesse dalle televisioni sull’attivazione di volontari e specialisti nel recupero di tartarughe, pellicani e crostacei, queste creature ricoperte di petrolio in pratica hanno rappresentato i diversi dettagli di un più ampio scenario il cui ripristino si rendeva necessario ai fini delle esigenze antropiche pesantemente compromesse.

Questo approccio appare ancora più evidente se si analizza il modo con cui le imprese coinvolte e gli organi ufficiali hanno cercato di attribuire le responsabilità del disastro. Sia che la responsabilità sia stata indirizzata verso la ricerca dell’errore tecnico, sia che essa sia stata individuata all’interno di un organigramma aziendale, il colpevole è stato individuato in una o più persone, tralasciando completamente il potere d’azione delle forze naturali coinvolte direttamente nel disastro. Pertanto la bolla di metano che con la sua violentissima pressione ha provocato l’esplosione della DeepWater Horizon, l’interminabile capacità del giacimento Macondo, una volta perforato, di sversare petrolio nel mare, l’azione determinate delle imponenti correnti del Golfo del Messico nella dispersione su una vastissima area marina e costiera della marea nera, sono stati tutti relegati sullo sfondo della vicenda come entità che hanno potuto esprimere il proprio potere d’azione solo a causa della responsabilità di alcuni individui poco avveduti. All’interno di un discorso sulla responsabilità sociale (e ambientale) d’impresa queste entità appaiono completamente deprivate della propria autonomia e della propria imprevedibilità, diventano i pezzi di un puzzle antropocentrico, moderno e razionalista che in alcuni casi non può essere completato a causa di un errore che, perché umanamente determinato, può essere umanamente risolto.

Solo l’arrivo dell’uragano Alex ha incrinato, ma solo per un breve lasso di tempo, questo antropocentrismo estremo costringendo ad una sosta forzata i tecnici della BP impegnati nel difficile compito di chiudere la falla e di contenere la dispersione del greggio in mare. Ma passata la tempesta tropicale la fiducia nei mezzi umani di controllo e sottomissione delle forze naturali è stata suggellata con il successo dell’operazione che ha bloccato la fuoriuscita di petrolio (sino ad ora). A proposito dell’atteggiamento dei dirigenti della BP e delle autorità americane, la scrittrice Naomi Klein ha efficacemente illustrato in un articolo apparso sul Guardian lo stretto legame fra l’ostentata sicurezza nella gestione delle fasi del disastro e un diffuso comportamento “irresponsabile” tanto verso la dimensione sociale quanto verso quella naturale.

Su questo legame la produzione dei sociologi dell’ambiente negli ultimi anni è stata particolarmente proficua. In un recente volume (2009) Raymond Murphy ha rappresentato il rapporto fra natura e società ricorrendo ad una metafora particolarmente efficace, quella di due ballerini (la Natura e la Società) che danzano vincolandosi l’uno ai movimenti dell’altro. Adattando la metafora al caso del disastro del Golfo si potrebbe immaginare una danza particolarmente turbolenta con i due ballerini che cercano di imporre ciascuno il proprio andamento all’altro. In un primo momento i tecnici della BP e della Transocean hanno obbligato il flusso di petrolio ad assecondare il proprio piano d’azione, successivamente la pressione del metano, l’intensità delle correnti marine, la forza dell’uragano hanno preso il sopravvento fino a quando il primo ballerino non si è imposto nuovamente bloccando la fuoriuscita di petrolio dal fondo del Macondo, almeno fino a questo momento. In tutto questo la CSR non può che rappresentare un dettaglio, un puro ornamento retorico di cui si fregia il ballerino sociale e che ha un impatto ininfluente sugli equilibri della danza. La dimensione politica della danza è più che evidente, l’uomo può tentare di rendere la danza armoniosa, può contribuire alla definizione di scenari nei quali non vi siano alternanze violente nella sua conduzione. Lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, seppur realizzato nel quadro di una pluridecorata operazione di CSR – come è avvenuto nel caso della BP – di fatto implica un rapporto di dominio forzato delle entità naturali coinvolte e una fede pressoché assoluta in un determinismo allo stesso tempo tecnologico e sociale. Uno scenario decisamente differente viene offerto dalle politiche della natura che, come afferma Bruno Latour (2000), includono la componente naturale non umana nel novero dei soggetti agenti. Si pensi alla danza armonica che si è stabilita per lungo tempo fra alcune comunità e il vento, una danza il cui ritmo era scandito dai mulini che fornivano l’energia necessaria alla vita sociale di quei contesti. Qualcosa di simile avviene anche oggi quando l’energia del sole, del vento e dell’acqua viene coinvolta nella vita delle comunità locali senza che vi sia il ricorso a tecniche estreme di assoggettamento delle risorse o alla devastazione del territorio. Queste danze sono disegnate da politiche dell’ambiente che riconoscono alle entità della natura una soggettività agente piuttosto che una oggettività passiva, che non pretendono di ridurle a flussi domestici di materia ed energia da dominare con programmi socio-tecnici, ma che cautamente sperimentano nella pratica soluzioni di cooperazione sostenibile con gli attori naturali. In questo quadro la responsabilità, sia essa sociale che naturale, diventa il prodotto empirico di un agire relazionale che connette le organizzazioni e le istituzioni sociali, comprese quelle economiche, alle entità naturali. Ad oggi questo tipo di responsabilità non sembra essere ricompresa fra quelle previste dalla CSR a cui è stata affidata la rendicontazione etica dell’agire economico delle imprese.

Fintanto che l’agency non umana sarà considerata una variabile dipendente da quella umana e sociale non resterà che confidare nella (presunta) superiorità della razionalità tecnologica oppure ribadire l’auspicio di Spike Lee If God is Willing and Da Creek Don’t Rise.

 


LETTURE

× Latour B., Politiques de la nature, Editions La Decouverte & Syros, Paris 1999, tr. it.,
Le politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina, Milano, 2000.

× Morri L., Storia e teorie della responsabilità sociale d'impresa. Un profilo interpretativo, Franco Angeli, Milano, 2009.

× Murphy R., Leadership in Disaster, McGill-Queen’s University Press, 2009.

× Pellizzoni L., Osti G., Sociologia dell'ambiente, Il Mulino, Bologna, 2008.