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LETTURE / Twitterville di Shel Israel
La democrazia è partecipazione...
in centoquaranta battute

di Dario De Notaris
Ogni tanto Demi Moore mi mostra le sue fotografie in bikini, scattate nel proprio bagno.
Rihanna, invece, mi invia le immagini dei suoi capelli rovinati dopo una piastra andata male.
La regina Rania di Giordania mi racconta la sua vita giorno per giorno. Però mi sono informato anche, istante per istante, sul terremoto ad Haiti oppure sugli scontri urbani tra popolazione e polizia in Iran.

Sono queste solo alcune delle cose che potrebbe affermare un cittadino di Twitterville. Il nome di questo paese virtuale è stato proposto da Shel Israel, il quale, nel suo omonimo libro, definisce così l’idea di un piccolo agglomerato urbanistico dove le persone si conoscono e si incontrano quotidianamente, con le quali scambiamo un rapido saluto e condividiamo amicizie, conoscenze e hobby. Questo luogo non è però fatto di travi, pilastri e cemento: non ha atomi, ma bit. È Twitter, uno dei recenti social media che in pochi anni ha catturato l’attenzione degli utenti della Rete e di quanti avevano voglia di dire la loro, senza troppi problemi e senza strumenti complicati. Ma con la semplicità di mandare un sms. Nato nel 2006 Twitter (twitter.com) aumenta la potenzialità comunicativa degli short message system con i quali siamo ormai abituati a comunicare (giovani e non). Ma è anche l’erede di una forma di comunicazione che possiamo far risalire ai tempi dei primi telegrammi. Pochi caratteri, sintetici, per descrivere un avvenimento, per fare una domanda o dare una risposta.

Centoquaranta.
Sono le battute, i caratteri spazi inclusi, che possiamo utilizzare in Twitter. In questo senso è simile agli sms.

Zero.
È il costo dell’invio dei tweet, ovvero dei messaggi inviati via Twitter. In questo senso è dissimile da tutte le altre forme di comunicazione scritta precedenti. I telegrammi, come i piccioni viaggiatori, richiedevano costi in termini economici o di tempo di consegna.

Ma Twitter non è un singolo messaggio. È un flusso continuo di informazioni. Nato come strumento per tenere in contatto piccoli gruppi è divenuto ben presto, grazie anche alla diffusione presso le star dei nuovi media, uno strumento usato e seguito da milioni di persone. E si inserisce in quell’insieme di strumenti “sociali” che contraddistinguono il Web degli ultimi dieci anni: blog, wiki, social network (ma, ancora più indietro, forum, chat, newsletter etc.). Un Web che prosegue il percorso immaginato da Tim-Berners Lee il quale, quasi venti anni fa, intendeva creare un luogo universale dove condividere informazioni. Israel prova così a tracciare una storia, anche sociale, del fenomeno Twitter. Di cosa era nelle intenzioni dei creatori e di cosa è divenuto oggi. Mostrare come le persone utilizzano Twitter, dall’ufficio casalingo o dall’impresa locale. E con quale scopo, dal raccogliere denaro per beneficenza, al trovare e diffondere notizie, o costruire reti personali e passare il tempo. Un particolare servizio basato sul Web ma che è fortemente integrato con la tecnologia mobile per eccellenza: il telefonino.

Di base consente di trasmettere un testo di pochi caratteri. Possiamo scrivere quello che vogliamo. In questo senso si pone allo stesso tempo sia come un mezzo pubblico che privato: possiamo, infatti, mandare tweet privati ad un particolare tweeter (ovvero, colui che scrive un tweet) oppure, pratica assai più comune, renderlo pubblico a chiunque sia interessato a seguirci.

Tecnicamente il funzionamento è semplice: si scrive un messaggio sul proprio “spazio twitter” (online o tramite sms) e questo appare nella personale timeline, nient’altro che la cronistoria di tutti i propri messaggi. Chi conosce l’utilizzatore, oppure chi è interessato al tipo di informazioni che questi scrive, può decidere di seguirne l’account, il profilo. Ogni utente Twitter si ritrova così ad avere dei follower – coloro che lo seguono – ma, al tempo stesso, è anche lui follower di altri, in un enorme flusso ininterrotto di informazioni. Molte volte possiamo anche decidere di non scrivere nulla che ci riguardi, ma semplicemente riportare il contenuto espresso da un altro utente: in questo modo realizziamo la pratica del re-tweeting. Ma ciò che è interessante non è tanto il funzionamento, semplice, dello strumento in sé quanto ciò che consente di fare alle persone. Twitter ha, infatti, assunto particolare rilievo mass-mediatico in due tipologie di situazioni: la prima relativa al mondo delle celebrità, la seconda a momenti più drammatici.

Personaggi come Britney Spears, Rihanna, Demi Moore, Shaquille O’Neill, Al Gore, Arnold Schwarzenegger fino ad arrivare a Barack Obama, utilizzano Twitter per stabilire un rapporto più diretto con i propri fan, lettori ed elettori (per una lista continuamente aggiornata si può consultare il sito http://celebwitter.com/). Non sempre sono i testi ad essere condivisi quanto anche foto, attraverso lo strumento TwitPic. A differenza dei canali tradizionali in questo caso tweeters e followers dibattono continuamente. È questo processo di flusso che porta Israel ad affermare che, con Twitter, ma – aggiungiamo – in generale, con tutti i social media, si è passati dall’Era della Trasmissione all’Era della Conversazione. Nel primo caso, come nella televisione, il ruolo dello spettatore era completamente passivo. Pur essendo stato uno dei primi media a rendere normale per le persone la condivisione di informazioni e intrattenimento in luoghi differenti, la televisione relegava gli spettatori ad una posizione di fruizione. Twitter è, invece, una conversazione. Con esso cambia la direzione del flusso decisionale dove la parte bassa – ovvero i consumatori – assumono un ruolo più incisivo. Per questo assume importanti aspetti anche dal punto di vista commerciale e di business. Fare impresa nel Web di oggi vuol dire essere sociale: aziende come Pepsi, Dell o IBM lo hanno capito. Ricardo Guerrero, un esperto di marketing della Dell, ritiene, infatti, che Twitter possa dare una specie di sesto senso sociale per intuire quello che sta succedendo nelle vite delle persone che seguiamo. Twitter funziona sì come un blog, ma è più piccolo e più veloce. Consente alle aziende di assistere i clienti in maniera economica conquistando, inoltre, un successo maggiore. Il rapporto che si instaura tra impresa e cliente è continuo: si scrive sulla bacheca-twitter dell’azienda che il suo prodotto non funziona, ha dei problemi. Questa risponde, ne discute con il cliente/consumatore, offrendogli una soluzione, ripristinando un rapporto diretto che appare essersi perso con la comparsa delle “voci pre-registrate” presenti nei più comuni call-center aziendali, nei quali ci si perde tra le numerose combinazioni di tasti che dobbiamo premere. Le aziende si ritrovano a dover tenere sotto controllo questo flusso, perché il non farlo può arrecare seri danni. Notizie di un prodotto malfunzionante possono distruggere l’immagine di un’azienda in un luogo come Twitter dove sono milioni le persone che seguono le informazioni. Ma, al tempo stesso, anche informazioni false possono intaccarne la serietà. L’utente sa di avere il controllo sul flusso informazionale (come, tra l’altro, ha celebrato il Time nella copertina del Person of The Year 2006). Anzi, lo stesso utente può diventare un brand, una marca che si fa garante di un’altra marca, o trasformarsi nel peggiore dei suoi avversari. Nell’era delle conversazioni, infatti, un brand personale può distruggerne uno aziendale. Capita quando un particolare individuo, attraverso i social media e – nel caso specifico – Twitter, guadagna la fiducia dei suoi followers. In tal caso ciò che dirà potrà influire positivamente o negativamente sui destini di altre persone o aziende.

La seconda tipologia che ha reso Twitter uno strumento “socialmente utile” è legato ad aspetti meno di costume o di business e più a situazioni drammatiche. Gli scontri in Iran nel 2009 sono un esempio di quanto il Web, Twitter, YouTube e i social media abbiano acquisito un potere extra territoriale. Dobbiamo considerare, infatti, che tali strumenti assumono anche un ruolo all’interno di uno spazio geografico ben delimitato. Ci si muove su un piano local-to-local: si racconta ai propri concittadini cosa accade nel quartiere. È una forma basilare di giornalismo partecipativo che fonda le sue origini, come ci ricorda Israel, nelle incisioni delle caverne dell’uomo primitivo. Attraverso la descrizione grafica di una scena di caccia, l’uomo consegnava alla memoria della propria collettività e di quelle che gli sarebbero succedute il racconto di un evento. Ovviamente la tecnologia attuale consente di trasmettere queste narrazioni in maniera più semplice e rapida. E il giornalista partecipativo può essere chiunque, quando meno se l’aspetta. Il ruolo che ebbe Twitter negli scontri iraniani fu tale da incutere timore alle alte dirigenze del paese che, in precedenza, avevano censurato o messo al confine gli organi di stampa esteri ufficiali. Attraverso testi (Twitter) e riprese video tramite cellulari (YouTube) il mondo ha potuto vedere e leggere cosa stava accadendo in quel determinato paese. Così è accaduto anche per il terremoto ad Haiti del 12 gennaio 2010.

Twitter ha dimostrato di poter essere un forum in tempo reale di quanto sta accadendo e, cosa ancora più importante, affidabile: un potere che aumenta sempre più all’aumentare dei propri nodi di connessione (come recita la legge di Metcalfe). Ben presto i media tradizionali si sono resi conto del ruolo che questo strumento ha assunto nella distribuzione di notizie, alla pari quasi delle più titolate agenzie di stampa, ma più rapida e più capillare (tanto che, spesso, accade che siano le agenzie di stampa a rincorrere i tweet): si crea così una particolare forma di giornalismo intrecciato tra media tradizionali (pagati per cercare notizie), giornalismo partecipativo (da parte di non professionisti) e social media (condivisione e collaborazione tra persone in Rete).

È evidente, quindi, che i social media abbiano assunto un ruolo su diversi livelli della società. Possiamo usarlo per cercare un idraulico, così come per fare i complimenti al nostro cantante preferito. Possiamo usarlo per discutere di ciò che accade nel nostro quartiere così come far sapere al mondo che abbiamo bisogno di aiuto. Possiamo usarlo per attirare l’attenzione di altri su una particolare situazione, individuale o collettiva. Possiamo distruggere un’azienda. Possiamo creare un marchio.

Twitter non sostituisce il telefono. È solo un altro, nuovo, canale. Non è nemmeno una tecnologia ma è una conversazione che avrà luogo con noi o senza di noi. E allora sta a noi decidere se, quando e come ascoltare e unirci ad essa. [Cfr. Charlene Li, in Israel, 2010, p. VIII]­.

Resta da fare un’ultima considerazione. La situazione di flusso continuo di informazioni, di scambio tra tweeters e followers, tra aziende e consumatori attraverso Twitter, funziona molto bene negli Stati Uniti e in quei paesi dove è presente un’infrastruttura tecnologica in grado di supportare questo scambio continuo. In Italia, Twitter è un fenomeno non ancora diffuso capillarmente: dopotutto fonda il suo potere sulla possibilità di aggiornare costantemente il nostro “micro-blog” e quindi di poter inviare in qualsiasi momento un testo. Farlo tramite la funzione sms dal nostro telefonino ha un costo che può non essere sostenuto a lungo o con una intensità tale da creare un flusso. Diverso sarebbe utilizzare una connessione WiFi che ci copra ovunque e gratuita in grado di consentirci di essere davvero sempre connessi, always on. Questo, al momento, non è possibile in Italia. Forse un giorno anche noi saremo, davvero, cittadini di Twitterville, con tutti i vantaggi e i rischi che questo comporta.



Letture
× Dick P.K., Time Out of Joint, 1959; tr. it. Tempo fuor di sesto, Fanucci Editore, Roma, 2006.
× Goodchild P., Edward Teller. The Real Dr Strangelove, 2004; tr. it. Il vero dottor Stranamore.
Edward Teller e la guerra nucleare
, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009.
× Jung C. G., Un mito moderno. Le cose che si vedono in cielo, Boringhieri, Torino, 2004.
× McLeod K., Science Fiction after the Future Went Away, 1998; tr. it.
La fantascienza dopo che il futuro se n’è andato, in “Carmilla” n. 6, giugno 2004.
× Pincio T., Gli alieni. Dove si racconta come e perché sono giunti tra noi, Fazi Editore, Roma, 2006.