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di Emilia Di Napoli
Homo technologicus,
una conversazione con Giuseppe Longo

Giuseppe O. Longo nasce a Forlì il 2 marzo 1941 e vive a Trieste dal 1955. Nel 1964 ha conseguito la laurea in Ingegneria Elettronica e, quattro anni dopo, la laurea in Matematica. Nel 1969 ha ottenuto la libera docenza in Cibernetica e Teoria dell’informazione, disciplina che ha introdotto in Italia e di cui ricopre la Cattedra dal 1975, presso la Facoltà d’Ingegneria dell’Università di Trieste. L’attività di ricerca, molto intensa, spazia dalla teoria delle reti ai codici algebrici fino alla teoria dell’informazione. Attualmente Longo si occupa soprattutto di epistemologia, di intelligenza artificiale e dei risvolti sociali del progresso tecnologico, in particolare di roboetica. Proprio su queste tematiche ha pubblicato i saggi: Il nuovo Golem: come il computer cambia la nostra cultura, (Laterza, Bari, 1998), Homo technologicus (Meltemi, Roma, 2001) e Il Simbionte: prove di umanità futura (Meltemi, Roma, 2003). All’attività scientifica affianca anche quella narrativa e drammaturgica. Ha scritto per diverse riviste letterarie tra cui Il banco di lettura e Linea d’ombra. Ha pubblicato tre romanzi tra cui L’acrobata (Einaudi, Torino, 1994), otto raccolte di racconti e una raccolta di drammi, Il cervello nudo (Nicolodi, Rovereto, 2004). Nel 2008 ha pubblicato il saggio Il senso e la narrazione (Springer Italia). L’innesto uomo-macchina è una realtà in continua trasformazione ed è proprio questo cambiamento che Giuseppe O. Longo descrive nei suoi scritti, dove l’intento esplicito consiste nel presentare il dramma del trapasso coevolutivo che stiamo vivendo. Su tale transizione e sugli effetti ad essa collegati verte l’intervista che segue.

In Homo Technologicus, nell’Introduzione, Lei scrive: “vorrei in questo libro rappresentare o almeno presentare il dramma del trapasso coevolutivo che stiamo vivendo e che riguarda tutti noi e ciascuno di noi”. Secondo il Suo pensiero tale dramma è stato generato dall’intensità con cui la tecnologia irrompe nella nostra vita o dall’uomo stesso, capace di costruire “macchine” tanto complesse e nel contempo incapace di controllarle e governarle?
Se non ci fosse l’uomo la tecnologia di per sé non potrebbe irrompere sulla scena. Ma è anche vero che quando si dice “uomo” si fa riferimento a un soggetto collettivo di cui è difficile individuare la volontà deliberata. Oggi l’innovazione tecnologica è l’effetto non di scelte precise di singoli individui, bensì di un aggregato di spinte, necessità, tentativi, proposte ecc. proveniente da una molteplicità di soggetti e difficile da sbrogliare. In questo aggregato alle considerazioni puramente tecniche si mescolano necessità sociali, culturali, esigenze economiche, fattibilità ecologiche ecc. La difficoltà di individuare le cause precise del progresso tecnico può dare l’impressione che la tecnologia abbia una forza propulsiva propria, assimilabile a una sorta di volontà autonoma. Tanto più che l’innovazione tecnologica manifesta una sorta di anello di retroazione positiva, nel senso che più tecnologia c’è più è facile l’avvento di altra tecnologia. Di fatto uomo e tecnologia sono legati a doppio filo, da una relazione circolare in cui è difficile individuare la causa e l’effetto del processo dinamico. Questo è il motivo per cui si può e si deve parlare di “coevoluzione” e non semplicemente di “evoluzione”. La presenza di questi anelli di retroazione, di queste circolarità causali, è caratteristica dei sistemi complessi ed è stata individuata in tempi non troppo lontani. Infatti in passato il rapporto causa-effetto era considerato unilineare e unidirezionale.

Lo sconvolgimento della vita dell’uomo e delle sue abitudini, provocato dall’irruzione della tecnologia nel “mondo della vita”, conferisce a Suo avviso, una sorta di autonomia alla macchina?
L’autonomia della macchina è una nostra proiezione psicologica: abbiamo l’esigenza di rapportarci a soggettività ricche, con cui dialogare. Così rendiamo autonomi non solo gli altri umani (e questo è ragionevole, plausibile e scontato, nonostante nessuno possa entrare nella testa di un altro), ma anche gli animali (e questo è ancora plausibile, benché contestato da alcuni) e addirittura gli oggetti (questa è una forma di animismo che applichiamo per esempio alle automobili). La grande complessità delle “macchine della mente” (computer, internet ecc) e la loro natura appunto mentale (il fatto che elaborino informazioni) fornisce una spinta ulteriore in questa direzione: è più facile attribuire un’anima, una mente autonoma a un computer che a un macinapepe elettrico. Il culmine di questo processo di proiezione si ha appunto nei confronti delle macchine che presentano un comportamento che, se fosse manifestato da un umano, sarebbe definito intelligente. Non bisogna mai dimenticare questo animismo quando si parla di “intelligenza artificiale”. Diverso è il discorso per quanto riguarda i “robot”, macchine in cui un corpo artificiale si coniuga con una mente artificiale: queste macchine hanno una certa capacità di apprendere e quindi anche una certa autonomia, nel senso che di fronte a situazioni ambigue sono in grado di prendere decisioni non soltanto in base al programma, ma anche in base alla loro esperienza. È vero che la loro esperienza è filtrata e orientata dal programma, ma s’intravede comunque una certa capacità decisionale. Alcuni prevedono che i robot del futuro anche prossimo avranno capacità decisionali e autonomia crescenti, e questo può provocare una certa ansia. Avremmo cioè costruito macchine di cui non saremmo più padroni. Inoltre a un certo punto l’autonomia dei robot potrebbe spingersi al punto di consentir loro di costruirsi (sempre più perfezionati) a prescindere dalla nostra volontà. Allora essi sarebbero affatto indipendenti. Questo è un tema caro alla fantascienza, ma già oggi alcuni specialisti studiano questi scenari.

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Ritornando al “dramma”, sempre in Homo Technologicus, Lei scrive che “il dramma ha  per protagonisti l’uomo e le sue macchine e mette in scena i loro complicati e mutevoli rapporti”. In Machina Dolens don Vicente Gurrìa e le sue macchine condividono, seppur stando lontani, uno stato di follia e di reclusione. Tale stato di follia è stato da Lei immaginato come l’effetto che la creazione di tali macchine ha avuto sul loro creatore o viceversa come conseguenza del fatto che le macchine stesse  sono nate da un padre folle?
Nel racconto ho immaginato don Vicente nelle vesti di apprendista stregone: ha costruito, senza volerlo, macchine capaci di soffrire e la loro sofferenza l’ha reso folle. Ma certo la sua ipotesi è fondata: solo un folle potrebbe costruire macchine dotate di quella sensibilità estrema, e il loro dolore rende palese, e intensifica, la follia latente nel costruttore. Quindi, come spesso accade, sono vere entrambe le cose, sono legate da un circolo di retroazione: un folle crea macchine che lo rendono ancora più folle (e in questa follia dilatata egli potrebbe costruire macchine ancora più inquietanti e sofferenti... e così via). Ho scritto sopra “senza volerlo”: questo punto è delicato. Tutta la tecnoscienza costruisce apparati e dispositivi in vista di un certo scopo. Ma ogni dispositivo gettato nella complessità del mondo interagisce in modi complessi e imprevedibili con tutto il resto dell’esistente. Questi effetti imprevisti e spesso indesiderati, che di solito il tecnoscienziato non è in grado di prevedere, sono potenzialmente pericolosi, ma anche creativi: aprono nuove strade e nuove possibilità, ma possono anche provocare disastri. È la lotteria dell’evoluzione tecnologica (e culturale).

La figura dell’automa esercita un notevole fascino sugli uomini, come Lei stesso ribadisce più volte in Homo Technologicus. Parliamo ancora una volta di un prodotto creato dall’uomo, una macchina, questa volta però con fattezze umane. Secondo il Suo pensiero tanto fascino deriva dalla perfezione di cui noi umani siamo sprovvisti o da un ennesimo egocentrismo umano che vede in tali automi il riflesso della propria perfezione e del proprio ingegno?
La cosa è un tantino più complicata. Nel 1970, quando i robot umanoidi (o antropomorfi, cioè con fattezze umane) non erano certo perfezionati quanto oggi, l’esperto giapponese Masahiro Mori coniò, sulla traccia del “perturbante” (Unheimlich) freudiano, la locuzione “valle del perturbante” (in inglese Uncanny Valley) per descrivere l’andamento delle reazioni emotive degli umani nei confronti dei robot. Secondo Mori, via via che l’aspetto e il comportamento di un robot si avvicinano a quelli dell’uomo, il nostro atteggiamento diventa sempre più positivo, ma a un certo punto si ha un brusco capovolgimento e subentra una forte repulsione. Aumentando ancora la somiglianza, tuttavia, si supera la “valle del perturbante” e la simpatia e la fiducia tornano a salire. Il “perturbante” fa riferimento a ciò che di inquietante, estraneo, o addirittura pericoloso, può nascondersi nel cuore stesso della nostra identità. Perturbante è ciò che è familiare e insieme spaesante, che somiglia al domestico ma cela in sé qualcosa di indecifrabile e minaccioso. Perturbante è il doppio, il sosia, l’ambiguo, l’ammiccante: ciò che suscita diffidenza per la sua somiglianza quasi perfetta, che allude all’Altro ma anche a noi. Quindi non suscita solo fascino, l’androide, ma anche repulsione e inquietudine.

Lei definisce il corpo come la più importante interfaccia omeostatica attraverso la quale comunicare. Parafrasando Marshall McLuhan, a Suo avviso, il corpo è più mezzo o più messaggio?
Il corpo è un mezzo ma anche un messaggio. Del resto McLuhan afferma giustamente che “il mezzo è il messaggio”, intendendo che il mezzo condiziona, filtra e modula il messaggio tanto in profondità da restituirlo ben diverso da quello che gli è stato affidato per la trasmissione. Che il corpo sia un mezzo (di comunicazione, ma anche di azione e di percezione) è abbastanza evidente, ma se si riflette sulla vastissima gamma dei segnali che esso emana in continuazione per il solo fatto di esserci, di atteggiarsi e di muoversi, non si può negare che esso sia anche un potentissimo e articolato messaggio (multimediale, per usare un termine di moda). La sola presenza di un corpo (persona) può condizionare profondamente la comunicazione che si svolge in un certo contesto.

Nel racconto L’aveva rosagrigio, Lei pone in antitesi due personaggi, Sebastian e la sua vicina. L’uno legato ancora ai vecchi mezzi di comunicazione, l’altra entusiasta dei nuovi dispositivi, come lo è appunto  l’“impianto telefonico mascellare”. Quello che descrive in questo racconto è uno scenario rivolto a un futuro, non si sa se vicino o lontano. Lei pensa che in tale futuro l’uomo medio sarà rappresentato più dalla vicina o più da Sebastian? E se la tecnologia arrivasse ad un punto di stasi? O ancora, se a un punto di stasi nei confronti della tecnologia arrivassero gli uomini, acquisendo nei suoi confronti una sorta di rigetto, proprio come Sebastian?
Estrapolando dalle tendenze attuali non c’è dubbio che il futuro appartiene alla vicina entusiasta della tecnologia trionfante. Eppure la tecnologia potrebbe in effetti arrivare a un punto di stasi: per mancanza di denaro da investire nell’innovazione, per qualche catastrofe esterna che minacci la fine della civiltà (o dell’umanità) così come la conosciamo oggi, oppure, come ipotizza Lei, per un rifiuto crescente e via via più esteso da parte degli umani. Ne Il Simbionte ho dedicato un capitolo allo studio della sofferenza provocata dall’invasione tecnologia del corpo-mente umano, sostenendo che le strutture ancestrali e le facoltà primarie ereditate per via biologica si oppongono all’invasione della tecnologia. Questa opposizione provoca disadattamento e sofferenza. L’uomo (e l’umanità intera) soffre di questa invasione, ma si adatta per i vantaggi che ne ricava. Un giorno si potrebbe diffondere la sensazione “luddista” che i vantaggi non compensano più gli inconvenienti e ciò potrebbe portare a una rivolta antitecnologica.

La tripartizione delle macchine in macchine del corpo, macchine della mente, macchine del corpo – mente, che Lei affronta in Homo Technologicus, è un’evoluzione della macchina da considerarsi, ancora una volta, unicamente legata all’evoluzione dell’uomo? O è possibile ravvisare in essa un’evoluzione “autonoma” della macchina, nel senso in cui quest’ultima, progettata in un determinato modo, rivela poi nel suo uso pratico “capacità” che il suo stesso “creatore” non avrebbe saputo e potuto prevedere?
Fino ad oggi l’evoluzione delle macchine è stata legata a quella dell’uomo, ma a doppio filo: l’evoluzione dell’uomo e quella delle macchine si sono intrecciate in modo tale che se è vero che l’uomo fa le macchine è altrettanto vero che le macchine concorrono all’evoluzione dell’uomo. Questo è il succo del concetto di Homo Technologicus. Le macchine potrebbero cominciare ad evolversi in modo più autonomo? E verso quali traguardi si evolverebbero?
Qui possiamo soltanto fare congetture e disegnare scenari. Un tema centrale a questo proposito è quello del libero arbitrio, tema formidabile e controverso, che alcuni risolvono sbrigativamente negando la libertà non solo ai fenomeni naturali, ma anche all'uomo sulla base di un feroce determinismo alla Laplace; altri, all'opposto, negano la libertà riconducendola alla casualità. Se il libero arbitrio non appartiene agli umani, come potrebbe appartenere alle macchine? A questo riguardo, si può sostenere che solo le creature dotate di coscienza posseggono il libero arbitrio e sono in grado di agire in modo etico. Non è certo un caso che siano in corso ricerche per dotare i robot (perché è in sostanza di queste macchine che sto parlando) di una coscienza artificiale, CA, la cui definizione operativa potrebbe essere: un sistema artificiale è dotato di CA se si comporta in modi che, negli umani, richiedono coscienza (è una definizione analoga a quella dell'intelligenza artificiale, IA). Insomma, i robot potranno mai diventare soggetti (e oggetti) etici? Poiché, almeno allo stadio attuale, i robot sono manufatti costruiti da noi con finalità pratiche specifiche, ciò dipende dai mezzi di cui li dotiamo per il raggiungimento di quei fini: per esempio potrebbe essere utile una certa dose di autonomia, libertà e inventiva. Anche nel caso in cui quest'autonomia sia limitata, non si può escludere che - per esempio in ambienti separati dall'habitat umano che postulino l'attivazione di capacità decisionali per evitare la distruzione delle macchine - qualche fenomeno evolutivo (una mutazione fissata da una selezione confermativa) porti all'acquisizione di un'autonomia che potrebbe accompagnarsi al sorgere dell'istanza di auto-conservazione, della coscienza e quindi di un'etica basata sulla libertà. I robot potrebbero acquisire il libero arbitrio non solo per una deriva evolutiva in ambiente abbastanza separato, ma anche per una deviazione aleatoria dal progetto originale oppure in seguito a un vero e proprio errore di programmazione. Oppure la deviazione, il clinamen, potrebbe essere dovuto a un incidente provocato da cause esterne e potrebbe sfociare in una sorta di "follia" robotica, fonte di creatività. Si potrebbe insomma ipotizzare un "robot schizofrenico" (nel cui organo cognitivo e semi-cosciente si scontrassero ingiunzioni primarie contrastanti, che portassero all'insorgere di un doppio vincolo nel senso di Gregory Bateson): questo robot folle potrebbe manifestare libertà (e inventiva), ma sarebbe una libertà da vigilare attentamente.
C’è anche da riflettere sulle conseguenze dell'intreccio tra complessità ed evoluzione temporale: dato un tempo abbastanza lungo, le interazioni tra sistemi complessi (i robot e l'ambiente in cui "vivono") possono dar luogo a effetti inattesi, sorprendenti e magari indesiderati (le alterazioni accidentali del codice etico cablato, le mutazioni, la conseguente incontrollabilità e libertà; il paradosso della conoscenza che ci consente di compiere azioni e di costruire manufatti dalle conseguenze sconosciute e inconoscibili). A questo proposito si pone il problema della responsabilità delle conseguenze indesiderate, che è facile attribuire quando il rapporto causa-effetto è immediato, ma che diventa sempre più arduo quando l'intervallo temporale si allunga e si diluisce quindi la cogenza della causalità (per cui anche le buone intenzioni possono alla lunga produrre effetti devastanti). 
C'è da osservare che il punto di vista che ho adottato in questa risposta è antropocentrico. La preoccupazione è dunque in primo luogo quella di salvaguardare gli umani e, in secondo luogo, di avere nei robot servitori utili. Se poi l'utilità richiedesse una raffinatezza che portasse alla presenza di libertà e di coscienza, si potrebbe accettare anche questa complicazione, purché se ne potessero esaminare le possibili conseguenze.
È da questo punto di vista sensibile agli interessi umani  che trova piena giustificazione l’adozione del “principio di precauzione” nel campo della robotica. Ma è proprio l'adozione del punto di vista antropocentrico che ci fa perdere di vista una possibilità remota ma non insignificante: che i robot diventino migliori di noi (in senso generico ma abbastanza trasparente). Questa eventualità sarebbe forse ancora più inquietate e, di fronte a creature migliori di noi, proveremmo forse l'impulso antietico di distruggerle per invidia, dimostrando ancora una volta la nostra malvagità.
Sempre dal punto di vista antropocentrico, ci si può chiedere se un'evoluzione più o meno autonoma dei robot possa portarli a un'etica analoga a quella umana. La risposta che darei è negativa: anche se l'evoluzione dei robot avvenisse in un ambiente separato e favorevole all'instaurarsi di un principio di auto-conservazione, resta il fatto che gli incidenti di percorso, le contingenze e la casualità avrebbero l'effetto complessivo di costruire un'altra storia e un altro esito. Inoltre, e mi sembra un'osservazione di grande portata, la potenziale immortalità del robot rispetto all'accertata mortalità dell'uomo costituirebbe una differenza di fondo difficile da superare. Infine vorrei osservare che come l'intelligenza artificiale ci ha proposto un paradigma cognitivo che, pur costruito dall'uomo, è piuttosto diverso dal nostro e ha quindi infranto una sorta di monopolio esercitato implicitamente da sempre dalla nostra intelligenza, così una possibile etica artificiale potrebbe infrangere il monopolio, finora dato per scontato, della nostra etica, qualunque sia la definizione che ne vogliamo dare. Queste alternative, cognitiva ed etica, potrebbero aiutarci a far luce sulla nostra intelligenza e sulla nostra natura etica.

Homo Technologicus è ciò che Lei definisce in Il Simbionte una nuova unità evolutiva, una sorta di simbionte in continua trasformazione. Sembra che questa nuova unità evolutiva sia destinata a ricoprire un ruolo centrale per molto tempo, data la grande avanzata dello sviluppo tecnologico. Ritiene possibile, nonostante l’impetuoso progresso tecnologico, che anche Homo Technologicus sia destinato a sparire, proprio come i suoi predecessori?
Qui è importante stabilire il soggetto delle nostre proposizioni: se Homo Technolgicus è un individuo, esso sparisce per morte naturale, se è una specie, esso si trasforma in continuazione. Trasformarsi vuol dire sparire? È lo stesso problema che si ha nel caso biologico, e si può applicare lo stesso tipo di ragionamenti. Si può forse dire che, dato un tempo lunghissimo (e prescindendo da catastrofi simili a quelle che hanno causato la scomparsa dei dinosauri), se si confronta Homo Technologicus dell’inizio con quello della fine del periodo le differenze possono essere enormi: si può dire che il primo è scomparso, oppure che si è trasformato in altro? Credo che sia un problema filosofico antico, ma possiamo risolverlo con piglio pragmatico dicendo che HT si trasforma in altro, mantenendo certe caratteristiche di base, tra le quali appunto la capacità di trasformarsi.

La tecnologia, secondo il suo parere, è parte integrante dell’uomo? O la si può considerare come un fenomeno a sé di cui l’uomo entra a far parte? In altre parole: Lei ritiene che la tecnologia debba essere per forza di cose subordinata all’uomo, o, date ormai le grandi possibilità che offre, è l’uomo che è incapace di viverne senza?
La tecnologia fa parte integrante dell’uomo. Gli strumenti con cui conosciamo il mondo e agiamo su di esso escono dal nostro corpo-mente, ma ne sono un prolungamento: non possiamo separare l’uomo dai suoi strumenti. Affermare che il nostro corpo finisce dove finisce la sua superficie, la sua epidermide è sostanzialmente sbagliato. Il rapporto è sempre involutivo, questo concetto è al centro della definizione di simbionte: non c’è uomo senza tecnologia così come non c’è tecnologia senza l’uomo. Forse la seconda parte di questa asserzione è più trasparente della prima, ma non è più vera.

A proposito del crollo delle barriere spazio – temporali, la possibilità di parlare con uomo o una donna che vive dall’altro lato del pianeta, rappresenta per lei una significativa conquista o un “discutibile” modo di intrattenere relazioni con chi non ci ha mai neanche “stretto la mano”? Qual è la sua posizione attuale sul problema?
Mantengo la stessa posizione: ogni tecnologia è un filtro, che ci consente di fare meglio certe cose o di fare cose che prima non facevamo, ma ci impedisce anche di fare cose che prima facevamo. Senza la tecnologia della comunicazione non potevamo parlare o corrispondere con qualcuno che stesse molto lontano, se non con grande lentezza, ma questa lentezza ci permetteva forse di calibrare meglio i contenuti, il tono e il calore delle nostra comunicazioni (per lettera, per esempio). C’è un altro aspetto: oggi possiamo comunicare con chiunque sia collegato alla rete, a prescindere dal luogo dove si trovi, e ciò ha profondamente modificato la nostra nozione di spazio e di continguità. Ma, per converso, non parliamo più con chi ci è vicino. Basta osservare che cosa accade in treno: alla calda e caotica conversazione di un tempo tra vicini occasionali si è sostituito quasi del tutto un fitto intreccio di conversazioni telefoniche con persone lontane. Insomma non ci sono pasti gratuiti: quando abbiamo un vantaggio, di solito ciò comporta un inconveniente.